Sentenza n. 446/97

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SENTENZA N.446

 

ANNO 1997

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI   

- Prof.    Cesare MIRABELLI

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO 

- Avv.    Massimo VARI         

- Dott.   Cesare RUPERTO    

- Dott.   Riccardo CHIEPPA  

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof.    Valerio ONIDA        

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE         

- Avv.    Fernanda CONTRI   

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Prof.    Annibale MARINI    

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 315, comma 1, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 14 novembre 1996 dalla Corte d'appello di Bologna, iscritta al n. 134 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell'anno 1997.

Udito nella camera di consiglio del 15 ottobre 1997 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

Ritenuto in fatto

 

1. La Corte d'appello di Bologna, nel corso di un procedimento per riparazione di ingiusta detenzione, con ordinanza in data 14 novembre 1996, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, primo e quarto comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 315, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede che la domanda di riparazione per l'ingiusta detenzione deve essere proposta, a pena d'inammissibilità, entro diciotto mesi dal giorno in cui il provvedimento di archiviazione è stato pronunciato, anziché dalla notifica di detto provvedimento all'interessato, che abbia subito custodia cautelare, ovvero dalla conoscenza effettiva dell'archiviazione comunque da costui diversamente acquisita.

Il remittente premette che la questione deve ritenersi senz'altro rilevante, in quanto la domanda di equa riparazione è stata proposta nel giudizio a quo oltre il termine di diciotto mesi dalla pronuncia del provvedimento di archiviazione.

Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo rileva che, ai sensi dell'art. 314, comma 1, cod. proc. pen., chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non avere commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un'equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave. Lo stesso diritto, a norma del comma 2 del medesimo articolo 314, spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280.

Tali disposizioni si applicano, alle medesime condizioni, a favore delle persone nei cui confronti sia pronunciato provvedimento di archiviazione (art. 314, comma 3) e, tuttavia - osserva il remittente - il sistema normativo vigente non prevede alcun adempimento inteso a portare a conoscenza dell'interessato né la pronuncia del provvedimento di archiviazione, né altri atti che a quella pronuncia preludano.

In questo quadro, secondo la Corte d'appello di Bologna, l'art. 315, comma 1, cod. proc. pen. solo in apparenza regolerebbe in maniera eguale casi che di eguale trattamento necessiterebbero, dal momento che l'interessato è posto in grado di conoscere l'esistenza soltanto dei provvedimenti pronunciati nei suoi confronti nella forma della sentenza - attraverso il sistema delle notifiche previsto a pena di nullità nell'ambito dei relativi processi - e non anche del provvedimento di archiviazione.

La disposizione censurata determinerebbe, inoltre, una irrazionale compressione del diritto alla riparazione per l'ingiusta detenzione per chi sia stato destinatario di un provvedimento di archiviazione, poiché in questo caso "il diritto alla riparazione nasce, e il termine per il suo esercizio inizia a decorrere, ad insaputa dell'interessato".

Considerato in diritto

 

1. La Corte d'appello di Bologna dubita della legittimità costituzionale dell'art. 315, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede che la domanda per la riparazione per l'ingiusta detenzione deve essere proposta, a pena di inammissibilità, entro diciotto mesi dal giorno in cui il provvedimento di archiviazione è stato pronunciato, anziché dalla notifica di detto provvedimento all'interessato, che abbia sofferto custodia cautelare, ovvero dalla conoscenza effettiva dell'archiviazione da lui comunque acquisita.

Secondo il giudice a quo, la disposizione censurata contrasterebbe con l'art. 3 della Costituzione, per il trattamento deteriore riservato a chi proponga domanda di riparazione a seguito di pronuncia di provvedimento di archiviazione, rispetto a chi avanzi la medesima domanda a seguito di sentenza di proscioglimento o di condanna divenuta irrevocabile, o di sentenza di non luogo a procedere divenuta inoppugnabile, poiché solo in queste ultime ipotesi, attraverso le notifiche, l'interessato sarebbe posto in grado di conoscere tempestivamente il momento in cui inizia a decorrere il termine per la proposizione di detta domanda.

Alla base delle argomentazioni del remittente sta la constatazione che il sistema normativo vigente non prevede alcun adempimento inteso a portare a conoscenza dell'interessato né la pronuncia del provvedimento di archiviazione, né altri atti che a quella pronuncia preludono. Di conseguenza, secondo il giudice a quo, l'art. 315, comma 1, del codice di procedura penale, contrasterebbe anche con l'art. 24, primo e quarto comma, della Costituzione, per l'irrazionale compressione che, in caso di archiviazione, subirebbe il diritto all'equa riparazione, in quanto tale diritto sorgerebbe (e il termine per il suo esercizio inizierebbe a decorrere) "ad insaputa dell'interessato".

2. La questione è fondata.

La disciplina vigente crea la disparità di trattamento censurata dal giudice a quo, in una materia in cui vengono in considerazione il principio di riparazione dell'errore giudiziario insieme al diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale.

Nonostante che la decorrenza e la durata del termine per il promovimento dell'azione siano regolate in maniera apparentemente eguale per tutte le situazioni previste dall'art. 315, comma 1, cod. proc. pen., queste risultano tra loro diverse proprio in relazione alle differenti opportunità che l'ordinamento offre all'interessato di conoscere con tempestività il momento in cui il diritto all'equa riparazione è sorto ed è azionabile.

Nelle ipotesi in cui il diritto nasce a seguito di una sentenza irrevocabile di proscioglimento o di condanna, o a seguito di una sentenza inoppugnabile di non luogo a procedere, l'interessato, come rileva il giudice remittente, è a conoscenza delle diverse fasi del processo attraverso le quali si perviene alla irrevocabilità o alla inoppugnabilità della decisione: dapprima è avvertito dell'udienza preliminare, se vi è stata richiesta di rinvio a giudizio, ovvero della data dell'udienza dibattimentale a seguito del decreto che dispone il giudizio, o del decreto di giudizio immediato; la sentenza viene pubblicata e, se vi è contumacia, notificata; quindi dei successivi gradi di giudizio, delle relative sentenze e delle eventuali ordinanze di inammissibilità dei mezzi di gravame proposti, egli ha notizia grazie al sistema delle notifiche, la cui regolarità è garantita all'imputato dalle sanzioni di nullità previste dal codice di procedura. La diligenza che si richiede in questi casi all'interessato è davvero minima: per conoscere il momento in cui il suo diritto alla riparazione sorge, gli è sufficiente, se non vuole essere presente al momento della pubblicazione della sentenza, prestare attenzione alle notifiche e agli avvisi che via via riceve durante il processo. Non così nel caso di provvedimento di archiviazione: il diritto all'equa riparazione sorge e il termine per la proposizione della relativa domanda inizia a decorrere all'insaputa del titolare; per lui nessun mezzo appresta l'ordinamento per favorire la conoscenza del provvedimento.

3. Il principio secondo il quale, una volta stabilito un termine di decadenza, l'interessato deve essere posto in condizione di conoscerne la decorrenza iniziale senza l'imposizione di oneri eccedenti la normale diligenza è stato affermato più volte dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. sentenze nn. 185 del 1988, 134 del 1985, 14 del 1977, 255 del 1974 e 159 del 1971). Si trattava, è vero, di fattispecie in cui il termine di decadenza, sostanziale o processuale, era più breve di quello previsto dall'art. 315, comma 1, del codice di procedura penale. Ma in questo caso ulteriori e decisivi argomenti inducono a valutare con maggior rigore una vicenda in cui nessuna agevolazione è data all'interessato ai fini della conoscenza che è affidata esclusivamente al suo impegno personale.

E' risolutiva, per dimostrare l'assenza di un ragionevole fondamento della disparità di trattamento ora evidenziata, la considerazione delle peculiarità della fattispecie, che la differenziano profondamente dalle altre, pure astrattamente comparabili, sulle quali questa Corte si è in passato pronunciata in materia di congruità di termini stabiliti a pena di inammissibilità e di doveri di diligenza delle parti; peculiarità che fanno apparire manifestamente irrazionale, in relazione ad essa, il fatto che il legislatore abbia mancato di apprestare un qualche ausilio idoneo a favorire la conoscenza tempestiva del provvedimento da parte dell'interessato ed abbia scelto in proposito di gravare quest'ultimo di ogni onere. Ne è risultata in effetti una distribuzione a senso unico degli oneri processuali, che non si addice all'insieme dei valori coinvolti nella vicenda della ingiusta detenzione e all'equilibrato e coerente bilanciamento che essa richiede.

Il solo fatto che operi nel nostro ordinamento, come innovazione introdotta nel 1988, l'istituto regolato dagli artt. 314 e ss. del codice di procedura penale dimostra indubbiamente che, nella visione del legislatore, al rapporto tra cittadini e Stato in relazione all'esercizio della giurisdizione penale cautelare, per la quale sono essenziali poteri coercitivi incidenti sulla libertà personale, non sono estranei momenti di solidarietà. Infatti, l'esborso a cui lo Stato è tenuto per ingiusta detenzione, nella ormai consolidata elaborazione della giurisprudenza dei giudici comuni, si configura non come risarcimento del danno derivante da un fatto illecito ascrivibile ad alcuno a titolo di dolo o di colpa o anche subiettivamente non imputabile, ma come misura riparatoria e riequilibratrice, e in parte compensatrice della ineliminabile componente di alea per la persona, propria della giurisdizione penale cautelare. La riparazione dell'ingiusta detenzione è dunque dotata di un fondamento squisitamente solidaristico: in presenza di una lesione della libertà personale rivelatasi comunque ingiusta con accertamento ex post, la legge, in considerazione della qualità del bene offeso, ha riguardo unicamente alla oggettività della lesione stessa.

4. Se questa è la natura dell'istituto, la previsione della notificazione del provvedimento di archiviazione in assenza di qualsiasi avviso che preannunci l'eventualità di un simile epilogo del procedimento non solo si addice al suo inequivoco significato solidaristico ma è da ritenere, in una ideale gerarchia degli atti di riparazione, il primo fra quelli ai quali lo Stato è tenuto nei confronti di chi, innocente, abbia subìto ingiusta detenzione; primo e, si aggiunga, indefettibile alla luce del canone di ragionevolezza, anche in considerazione della tenuità degli oneri organizzativi che la notificazione comporta per l'amministrazione della giustizia, al raffronto con il ben più gravoso impegno che rappresenta per il cittadino l'attività di informazione e di ricerca della notizia. Il rimettere dunque interamente all'interessato l'onere di iniziativa finalizzata alla conoscenza del provvedimento di archiviazione altera profondamente la fisionomia dell'istituto, suona come odioso aggravio della situazione di ingiustizia che si è determinata, e rende oscura e contraddittoria la complessiva ratio della disciplina: da un lato, questa suscita l'idea di uno Stato che di fronte a ingiuste compressioni della libertà personale ispira la sua azione a principî di solidarietà, che lo inducono a concepire, nell'alveo scavato dall'art. 24, quarto comma, della Costituzione, una riparazione in assenza di fatti illeciti o di responsabilità imputabili ad alcuno; dall'altro, evoca l'immagine opposta: uno Stato così dimentico delle vicissitudini della libertà personale dei cittadini che non avverte neppure l'esigenza di dar notizia ad essi del fatto che la coercizione subìta a causa dell'esercizio della giurisdizione penale cautelare si è appalesata obiettivamente ingiusta.

Tanto più irragionevole appare l'omissione se si considera che essa riguarda proprio il provvedimento di archiviazione che, nell'elencazione dell'art. 315, rappresenta l'ipotesi nella quale più evidente risulta l'ingiustizia della detenzione e più manifesta l'esigenza di rendere noto all'interessato l'esito favorevole del procedimento. Negli altri casi previsti dal citato art. 315 cod. proc. pen. (sentenza di proscioglimento o di condanna divenuta irrevocabile; sentenza di non luogo a procedere divenuta inoppugnabile), infatti, il sacrificio imposto alla libertà personale è comunque connesso all'esercizio dell'azione penale che si presume essere intervenuto; per di più l'interessato, come detto, ha più facilmente modo di conoscere, attraverso le notificazioni previste in relazione a un processo poi definito, il momento iniziale della decorrenza del termine stabilito per l'esperimento dell'azione riparatoria. Nel caso del provvedimento di archiviazione, invece, né vi è stato esperimento dell'azione penale, né è prevista notificazione della decisione di non esercitarla, con la conseguenza che chi ha subìto detenzione viene lasciato completamente all'oscuro dell'esistenza dell'atto che ne determina l'oggettiva ingiustizia, con l'onere, irragionevole in questo contesto, di scoprirlo da solo; quasi che nei confronti della libertà personale dei cittadini lo Stato, resosi attivo per comprimerla, possa rimanere passivo ed inerte quando si tratti di rendere più agevolmente esperibili rimedi riparatori o compensativi nei casi in cui quella libertà sia stata ingiustamente offesa.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 315, comma 1, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede che il termine per proporre la domanda di riparazione decorre dalla pronuncia del provvedimento di archiviazione, anziché dal giorno in cui, ricorrendo le condizioni previste dall'art. 314, comma 3, del codice di procedura penale, è stata effettuata la notificazione del provvedimento di archiviazione alla persona nei cui confronti detto provvedimento è stato pronunciato.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Carlo MEZZANOTTE

Depositata in cancelleria il 30 dicembre 1997.