SENTENZA N. 264
ANNO 1997
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Prof. Carlo MEZZANOTTE
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 12, secondo comma, del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516 (Norme per la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria), e dell'art. 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (Revisione della disciplina del contenzioso tributario), promosso con ordinanza emessa il 30 dicembre 1995 dalla Commissione tributaria di primo grado di Parma sul ricorso proposto da Fontanili Eugenio contro l'Ufficio IVA di Parma, iscritta al n. 728 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell'anno 1996.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 maggio 1997 il Giudice relatore Cesare Ruperto.
Ritenuto in fatto
1. -- Nel corso di un procedimento promosso dall'assuntore di un concordato fallimentare, al fine di ottenere la "revoca" di un accertamento fiscale riguardante l'anno 1984 ed i relativi avvisi di irrogazione delle sanzioni, la Commissione tributaria di primo grado di Parma, con ordinanza emessa il 30 dicembre 1995, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 12, secondo comma, del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429 convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516 (Norme per la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria), e dell'art. 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (Revisione della disciplina del contenzioso tributario), "nella misura in cui non prevedono l'opposizione al silenzio-rifiuto opposto dalla pubblica amministrazione alle richieste di annullamento o revoca degli atti illegittimi, quando gli enunciati dei Tribunali ne abbiano sanzionato condizioni e presupposti successivamente alla scadenza dei termini per i ricorsi alle Commissioni tributarie contro gli avvisi di accertamento".
La Commissione rimettente -- premesso che la controversia trae origine dalla mancata impugnazione nei termini, da parte del contribuente (successivamente fallito nel 1989), di avvisi di rettifica ed irrogazione sanzioni in materia di IVA, con definitività del debito tributario dal 1988; che il medesimo contribuente era stato assolto dalle relative imputazioni tributarie, per non aver commesso il fatto, con sentenza dell'11 novembre 1988, passata in giudicato; che, in ragione di ciò, l'assuntore del concordato fallimentare aveva nvece assolto; b) con gli artt. 24 e 53 Cost., poichè, impedendo al contribuente assolto in sede penale di far valere nel processo tributario il giudicato sui fatti materiali accertati dal giudice, ne violerebbe il diritto di difesa, facendo soggiacere il contribuente stesso ad un prelievo fiscale non in ragione della sua capacità contributiva; c) con l'art. 97 Cost., venendo di conseguenza ad incidere negativamente sul buon andamento e sull'imparzialità della pubblica amministrazione.
Secondo il giudice a quo, inoltre, l'art. 16 del d.P.R. n. 636 del 1972 renderebbe di fatto inesistente il diritto di difesa del contribuente, non prevedendo la possibilità di proporre ricorso alla Commissione tributaria avverso il silenzio-rifiuto della pubblica amministrazione sull'istanza di revoca dell'accertamento, anche quando ad esso sia successivo il giudicato penale assolutorio.
2. -- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo la declaratoria d'inammissibilità delle questioni, per difetto di indicazione dei parametri costituzionali che la Commissione rimettente riterrebbe violati dal censurato art. 16 del d.P.R. n. 636 del 1972 (con conseguente irrilevanza anche della questione relativa all'art. 12 del decreto-legge n. 429 del 1982) nonchè per mancata specificazione dell'esatta data di passaggio in giudicato della sentenza penale di assoluzione del contribuente e dell'avvenuta costituzione (o non) di parte civile dell'amministrazione finanziaria in quel processo.
Nel merito, l'interveniente deduce l'infondatezza di tutte le censure, considerato che i prospettati vulnera ai diritti del contribuente derivano unicamente dalla condotta omissiva, allo stesso imputabile, nella non tempestiva impugnazione degli atti assunti come lesivi.
Considerato in diritto
1. -- La Commissione tributaria di primo grado di Parma dubita della legittimità costituzionale dell'art. 12, secondo comma, del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429 (convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516), e dell'art. 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, "nella misura in cui non prevedono l'opposizione al silenzio-rifiuto opposto dalla pubblica amministrazione alle richieste di annullamento o revoca degli atti illegittimi, quando gli enunciati dei Tribunali ne abbiano sanzionato condizioni e presupposti successivamente alla scadenza dei termini per i ricorsi alle Commissioni tributarie contro gli avvisi di accertamento".
In particolare, a giudizio della rimettente l'art. 12, secondo comma, del decreto-legge n. 429 del 1982, in quanto non impone agli uffici l'obbligo di uniformarsi al giudicato penale, contrasterebbe: a) con l'art. 3 Cost., ponendo in situazione identica il contribuente condannato in sede penale e quello assolto; b) con gli artt. 24 e 53 Cost., impedendo al contribuente assolto in sede penale di far valere nel processo tributario il relativo giudicato, violandone il diritto di difesa e facendolo soggiacere ad un prelievo fiscale che prescinde dalla sua capacità contributiva; c) con l'art. 97 Cost., incidendo negativamente sul buon andamento e l'imparzialità della pubblica amministrazione.
A sua volta, l'art. 16 del d.P.R. n. 636 del 1972 -- nella parte in cui non prevede la possibilità di proporre ricorso in sede tributaria avverso il silenzio-rifiuto dell'amministrazione sull'istanza di revoca dell'accertamento, anche quando ad esso sia successivo il giudicato penale -- priverebbe il contribuente della possibilità di esercitare il proprio diritto di difesa.
2. -- Vanno, preliminarmente, disattese le eccezioni di inammissibilità dedotte dall'Avvocatura generale dello Stato.
E' infatti agevole desumere dal contesto dell'ordinanza di rimessione che, nella fattispecie oggetto del giudizio a quo, il giudicato penale di assoluzione del contribuente dalle imputazioni tributarie ascrittegli, per non aver commesso il fatto, risale ad epoca successiva alla definitività dell'accertamento fiscale per mancata impugnazione.
Ed altrettanto chiaramente risulta: a) che la censura rivolta all'art. 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, é prospettata in riferimento esclusivo all'asserita violazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost., del quale il giudice a quo reputa essere in concreto privato il contribuente che non possa far valere davanti alle commissioni tributarie il giudicato penale formatosi successivamente alla scadenza dei termini per ricorrere avverso gli avvisi di accertamento; b) che la denuncia delle norme in esame é finalizzata -- secondo la prospettazione -- ad ottenere una decisione diretta, sotto i profili sostanziale e processuale, ad estendere il sindacato del giudice tributario relativamente ad atti impositivi basati su una situazione di fatto difforme da quella risultante dal giudicato successivamente formatosi in sede penale: per cui la questione sottoposta al vaglio della Corte prescinde dalla portata dell'estensione soggettiva degli effetti del giudicato stesso.
Si può dunque passare all'esame del merito.
3. -- Entrambe le questioni sono infondate, nei sensi di cui appresso.
3.1. -- Investita di identica questione di costituzionalità dell'art. 12, secondo comma, del decreto-legge n. 429 del 1982 -- sollevata con riferimento agli stessi parametri evocati nel presente giudizio, in una fattispecie in cui il giudicato penale si era formato anteriormente alla notificazione dell'atto di accertamento -- questa Corte ne ha dichiarato la non fondatezza con sentenza n. 120 del 1992, sottolineando che il potere attribuito all'amministrazione finanziaria di verificare l'eventuale rilevanza fiscale del fatto penalmente accertato, ai fini dei conseguenti provvedimenti, va esercitato in conformità al principio, desumibile dall'art. 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, secondo cui la pubblica amministrazione ha l'obbligo di conformarsi al giudicato dei tribunali.
Al di là dunque del problema, agitato in giurisprudenza e in dottrina, di un'abrogazione tacita della denunciata norma a séguito dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (problema implicitamente risolto in senso negativo dalla commissione rimettente), l'inquadramento sistematico della norma stessa comporta che al surrichiamato principio di ordine generale l'amministrazione finanziaria deve comunque uniformarsi, in sede di autotutela, nell'adozione dei provvedimenti ivi previsti.
D'altronde, l'adeguamento della fattispecie tributaria all'accertamento dei fatti operato dal giudice penale va compiuto, dietro eventuale sollecitazione del contribuente, senza soggiacere al limite temporale della scadenza del termine per l'accertamento tributario: limite che -- secondo una lettura della norma conforme a Costituzione, e condotta alla stregua del principio generale come sopra enunciato -- é da ritenersi vincolante in modo assoluto soltanto con riguardo all'attività degli organi fiscali diretta a modificare in peius la posizione del contribuente. Sicchè lo svolgimento di tale attività conformativa avviene a prescindere dal momento in cui si forma il giudicato. Nè assume rilevanza la mancata partecipazione dell'amministrazione al giudizio penale, stante il diverso àmbito decisionale di questo rispetto al procedimento amministrativo.
Tanto basta per rendere immune dai prospettati vizi di incostituzionalità la disposizione in esame.
3.2. -- Correlativamente a quanto sopra osservato, va ribadita la legittimità dell'art. 16 del d.P.R. n. 636 del 1972 (già affermata dalla sentenza n. 120 del 1992), attesa la sua idoneità a tutelare in modo adeguato il diritto di difesa del contribuente (il cui concreto tempestivo esercizio é ovviamente rimesso alla sua diligenza).
Tale norma infatti prevede il ricorso, non solo contro i diversi atti "con i quali per la prima volta si é stati messi a conoscenza della pretesa impositiva", ma anche contro il provvedimento di rigetto dell'istanza di rimborso o il silenzio-rifiuto sulla stessa (v. pure l'art. 19, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, che ha sostituito la norma censurata). Mentre -- in difetto del pagamento dell'imposta già definitivamente accertata dall'ufficio tributario, e dunque nell'impossibilità di ricorrere contro l'eventuale rigetto, espresso o tacito, dell'istanza di rimborso -- al contribuente é pur sempre dato di avvalersi dei rimedi apprestati in via generale dall'ordinamento giuridico nei confronti della pubblica amministrazione che ometta di adeguarsi al giudicato penale. Sicchè il suo diritto di difesa deve considerarsi pienamente tutelato.
Nè sarebbe comunque da ritenersi costituzionalmente illegittima la sottrazione di codesta materia alla giurisdizione delle Commissioni tributarie, atteso che -- secondo la costante giurisprudenza di questa Corte -- la mancata ricomprensione di taluni atti e materie nell'àmbito di tale giurisdizione costituisce manifestazione dell'ampio grado di discrezionalità di cui gode il legislatore, sia nel conformare i singoli istituti processuali (v. ordinanza n. 5 del 1996 e sentenza n. 295 del 1995), sia nel ripartire la giurisdizione fra i vari organi previsti dalla legge, in base ad una non vincolata valutazione di ordine politico e sociale (v. ordinanza n. 152 del 1997).
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 12, secondo comma, del decreto-legge 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516 (Norme per la repressione della evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto e per agevolare la definizione delle pendenze in materia tributaria), e dell'art. 16 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636 (Revisione della disciplina del contenzioso tributario), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 53 e 97 della Costituzione, dalla Commissione tributaria di primo grado di Parma, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1997.
Presidente: Renato GRANATA
Redattore: Cesare RUPERTO
Depositata in cancelleria il 23 luglio 1997.