SENTENZA N. 146
ANNO 1997
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Renato GRANATA, Presidente
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY
- Prof. Valerio ONIDA
- Avv. Fernanda CONTRI
- Prof. Guido NEPPI MODONA
- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 518 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 17 maggio 1996 dal Pretore di Pinerolo, nel procedimento penale a carico di Pochettino Cristiano, iscritta al n. 810 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 1996.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 aprile 1997 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza emessa il 17 maggio 1996 il Pretore di Pinerolo ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 518 del codice di procedura penale "nella parte in cui non prevede la facoltà delle parti di richiedere al giudice del dibattimento l'applicazione di pena a norma dell'art. 444 c.p.p., in relazione al fatto nuovo risultante dal dibattimento la cui contestazione venga autorizzata in udienza".
Premette in fatto il rimettente che nel corso del dibattimento il pubblico ministero, a seguito delle dichiarazioni rese dall'imputato in sede di esame, ha chiesto di essere autorizzato alla contestazione nei suoi confronti di un fatto nuovo (originariamente contestato al solo coimputato); l'imputato ha dichiarato di voler prestare il proprio consenso a condizione di poter definire il giudizio, per la parte relativa al fatto nuovo, con richiesta di applicazione ex art. 444 del codice di procedura penale e ha contestualmente proposto istanza di "patteggiamento", cui il pubblico ministero ha aderito.
Il pretore osserva che l'art. 518 cod. proc. pen. non contempla la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice l'applicazione di pena a norma dell'art. 444 cod. proc. pen. in relazione al fatto nuovo contestato in udienza, sicchè la richiesta di applicazione della pena formulata in giudizio dall'imputato non potrebbe trovare accoglimento, nè potrebbe essere autorizzata la contestazione in udienza del fatto nuovo, avendo l'imputato subordinato il suo consenso alla possibilità di accedere al "patteggiamento"; e ciò - sottolinea il rimettente - anche se il pubblico ministero ha acconsentito al rito semplificato e la richiesta dell'imputato potrebbe trovare accoglimento in quanto conforme ai presupposti richiesti dall'art. 444 cod. proc. pen.
Il giudice a quo, pur dando atto che la Corte costituzionale ha già esaminato nella sentenza n. 41 del 1994 la specifica ipotesi di contestazione dibattimentale del fatto nuovo affermando che non vi é contrasto fra la preclusione alla facoltà di richiedere in questa ipotesi l'applicazione concordata della pena e gli articoli 3 e 24 Cost., ritiene siano prospettabili, con riferimento all'art. 3 Cost., nuovi dubbi di legittimità della disciplina per l'irragionevole disparità di trattamento tra la situazione dell'imputato al quale, per effetto della successiva sentenza n. 265 del 1994, é consentito formulare richiesta di "patteggiamento" in relazione a un fatto diverso o a un reato concorrente contestati in udienza ai sensi degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. e quella non dissimile dell'imputato al quale tale facoltà é negata in ordine al fatto nuovo. Ad avviso del rimettente, infatti, una volta che con tale pronuncia é stata introdotta la possibilità rispetto al fatto diverso e al reato concorrente di richiedere l'applicazione della pena anche a dibattimento iniziato, "non appare più ragionevole (e, dunque, viola l'art. 3 Cost.) la preclusione all'adozione di tale rito semplificato nell'analogo caso di contestazione del fatto nuovo laddove tale preclusione si traduca in un inutile (ed irrazionale) dispendio di energie processuali". Di qui l'ulteriore pregiudizio alla speditezza e celerità del procedimento indicato dal giudice a quo come secondo profilo di illegittimità della norma impugnata.
2. Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che la questione sia dichiarata infondata.
L'Avvocatura rileva che nell'ordinanza di rimessione non vengono prospettati profili di costituzionalità sostanzialmente diversi da quelli già oggetto di esame da parte della Corte nella sentenza n. 41 del 1994 e osserva che la peculiarità delle situazioni prese in esame dalla Corte nella successiva sentenza n. 265 del 1994 non costituisce motivo sufficiente di deroga alla regola generale, allora affermata dalla Corte, secondo cui il pubblico ministero deve procedere nelle forme ordinarie, "salva soltanto la facoltà dell'imputato presente di prestare il proprio consenso - ma con ogni valutazione conseguenziale a suo carico - alla contestazione immediata".
Sulla presunta irragionevolezza della norma impugnata sotto il profilo del danno alla speditezza del procedimento, l'Avvocatura rileva, richiamando ancora la sentenza n. 41 del 1994, che la Corte ha affermato che non é di per sè irragionevole "che il legislatore, una volta garantito il diritto di difesa, abbia ritenuto di non derogare al termine stabilito in via generale dall'art. 446, comma 1, c.p.p.".
Considerato in diritto
1. La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Pretore di Pinerolo ha per oggetto l'art. 518 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell'imputato di presentare richiesta di applicazione della pena a norma dell'art. 444 del medesimo codice relativamente al fatto nuovo di cui il giudice ha autorizzato la contestazione in dibattimento in base al comma 2 del medesimo art. 518.
Ad avviso del Pretore rimettente, tale omissione contrasterebbe con l'art. 3 della Costituzione, in quanto determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento rispetto alle ipotesi del tutto analoghe, disciplinate rispettivamente dagli articoli 516 e 517 cod. proc. pen., di contestazione del fatto diverso e del reato concorrente, per le quali la facoltà di chiedere l'applicazione della pena é stata riconosciuta dalla sentenza n. 265 del 1994. La disciplina censurata provocherebbe inoltre "un'ingiustificabile dilatazione dei tempi processuali e un irragionevole aggravio dell'attività giudiziaria", in quanto, ove l'imputato non abbia prestato il consenso alla contestazione del fatto nuovo perchè intende usufruire dell'istituto dell'applicazione della pena, a norma dell'art. 518, comma 1, cod. proc. pen., il pubblico ministero deve procedere nelle forme ordinarie.
2. La questione é infondata. Al riguardo, debbono essere richiamati i principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, da un lato nella sentenza n. 265 del 1994, a cui ha fatto riferimento il Pretore rimettente, e nelle precedenti sentenze sugli articoli 516 e 517 del codice di procedura penale, dall'altro nella sentenza n. 41 del 1994, che aveva dichiarato infondata analoga questione di legittimità dell'art. 518, comma 2, cod. proc. pen.
3. Iniziando l'esame da quest'ultima sentenza, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 518, comma 2, cod. proc. pen., era stata allora sollevata con riferimento agli articoli 3 e 24 Cost., sulla base di profili solo in parte coincidenti con quelli prospettati nel presente giudizio.
Con riferimento all'art. 3 Cost., il giudice rimettente aveva denunciato l'irragionevole disparità di trattamento tra la situazione dell'imputato che, prestando il suo consenso alla contestazione del fatto nuovo, perde la possibilità di accedere al rito semplificato dell'applicazione della pena, e quella, non dissimile, dell'imputato che, avendo optato per il separato giudizio, può usufruire in quella sede del rito disciplinato dagli articoli 444 e seguenti cod. proc. pen.. La Corte aveva allora rilevato che, in caso di contestazione del fatto nuovo, la regola generale enunciata nell'art. 518, comma 1, cod. proc. pen., é che il pubblico ministero proceda con le forme ordinarie, iniziando un nuovo procedimento relativo alla nuova fattispecie, nel corso del quale l'imputato avrebbe potuto eventualmente ricorrere all'applicazione della pena su richiesta; soltanto nel caso in cui l'imputato, presente, avesse prestato il consenso alla contestazione suppletiva, si sarebbe verificata la conseguente rinuncia al rito semplificato. Poichè le due situazioni erano frutto di "una libera opzione di scelta difensiva operata dall'imputato", la Corte aveva escluso qualsiasi ingiustificata disparità di trattamento.
La questione era stata dichiarata infondata anche sotto il profilo della violazione del diritto di difesa, in base alla ragione assorbente che, essendo il consenso dell'imputato condizione indispensabile alla contestazione del fatto in udienza, il diritto di difesa era comunque garantito, poichè la scelta tra il nuovo procedimento, con la conseguente possibilità di ricorrere all'applicazione della pena, e l'accettazione della contestazione, con conseguente rinuncia al rito semplificato, é rimessa alla libera valutazione della soluzione ritenuta più confacente alla difesa dell'imputato.
Le considerazioni allora svolte, specie se correlate al percorso della giurisprudenza costituzionale relativo agli articoli 516 e 517 cod. proc. pen., conservano validità anche ai fini della decisione della questione portata oggi all'esame della Corte.
4. Circa i rapporti tra applicazione della pena e contestazione del fatto diverso e del reato concorrente, la giurisprudenza di questa Corte si pone in termini di sostanziale continuità tra le decisioni che avevano precedentemente respinto la relativa questione di legittimità e la sentenza di accoglimento n. 265 del 1994.
Tra le sentenze e le ordinanze pronunciate prima del 1994 (sentenze nn. 593 del 1990, 316 del 1992, 129 del 1993, ordinanze nn. 213 del 1992 e 107 del 1993), la sentenza più recente sintetizza l'orientamento sino ad allora seguito. La preclusione all'ammissione ai riti alternativi (applicazione della pena e giudizio abbreviato) in caso di contestazione dibattimentale suppletiva non é affatto irragionevole, in quanto si tratta di un'evenienza non infrequente e non imprevedibile, dato lo stretto rapporto intercorrente tra l'imputazione originaria e il reato connesso; evenienza peraltro preclusa ove l'imputato operi tempestivamente la scelta di chiedere uno dei riti alternativi, rinunciando al dibattimento. Il rischio della contestazione suppletiva dibattimentale rientra quindi nel calcolo in base al quale l'imputato si determina a chiedere i riti semplificati, ovvero a rinunciarvi, onde egli non ha che da addebitare a sè medesimo le conseguenze della propria scelta.
Questa linea interpretativa non risulta disattesa neppure dalla sentenza di accoglimento n. 265 del 1994. Gli articoli 516 e 517 cod. proc. pen. sono stati infatti dichiarati illegittimi, nella parte in cui non prevedono la facoltà dell'imputato di chiedere al giudice del dibattimento l'applicazione della pena relativamente al fatto diverso o al reato concorrente, solo "quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale ovvero quando l'imputato ha tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione della pena in ordine alle originarie imputazioni". In tali situazioni non é infatti possibile rinvenire "alcun profilo di inerzia dell'imputato e quindi di 'addebitabilità' al medesimo delle conseguenze della mancata instaurazione del rito differenziato"; al contrario, "la libera determinazione dell'imputato verso i riti speciali risulta sviata da aspetti di 'anomalia' caratterizzanti la condotta processuale del pubblico ministero", derivanti "o dalla erroneità dell'imputazione (il fatto é diverso) o dalla sua incompletezza (manca l'imputazione relativa a un reato connesso)".
A differenza delle ipotesi in cui la contestazione suppletiva é riconducibile a elementi nuovi emergenti dall'istruzione dibattimentale, in tali situazioni non può parlarsi - conclude la sentenza sul punto - "di una libera assunzione del rischio del dibattimento da parte dell'imputato"; con l'ovvia conseguenza che deve essergli riconosciuta la facoltà di essere ammesso a chiedere l'applicazione della pena in ordine al fatto diverso o al reato concorrente.
5. La distinzione operata dalla sentenza n. 265 del 1994 tra i casi in cui il fatto diverso o il reato concorrente emerge a seguito dell'istruzione dibattimentale, e quelli in cui i fatti oggetto della contestazione suppletiva già risultavano al momento dell'esercizio dell'azione, indica la via di soluzione anche della questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all'art. 518 cod. proc. pen.
In primo luogo, la contestazione suppletiva del fatto nuovo si riferisce per definizione, come emerge dalla stessa lettera della norma in esame, ad un fatto che risulta "nel corso del dibattimento", non enunciato per tale ragione nel decreto che dispone il giudizio. Da un lato, dunque, l'imputato non aveva potuto tenere conto di tale evenienza nell'operare le proprie scelte difensive in ordine ai riti alternativi; dall'altro, la mancata tempestiva contestazione nel momento dell'esercizio dell'azione penale non é addebitabile ad anomalie della condotta processuale del pubblico ministero.
Il meccanismo di contestazione del fatto nuovo tiene appunto conto della specificità di tale situazione, in quanto non preclude in via assoluta, a differenza di quanto previsto nella formulazione originaria degli articoli 516 e 517 cod. proc. pen., la facoltà di avvalersi dei riti alternativi. Al contrario, la regola generale dettata dall'art. 518, comma 1, cod. proc. pen., é che il pubblico ministero proceda nelle forme ordinarie, così dando all'imputato la possibilità di presentare la richiesta di applicazione della pena sin dalle indagini preliminari. Solo se il pubblico ministero ne faccia richiesta, e l'imputato presti il consenso, il giudice può autorizzare la contestazione in udienza del fatto nuovo, con la conseguente perdita della facoltà di chiedere l'applicazione della pena. L'imputato é quindi arbitro di decidere se usufruire della facoltà di essere ammesso all'applicazione della pena su richiesta, ovvero se rinunciarvi, accettando la contestazione dibattimentale del fatto nuovo.
Le censure di irragionevole disparità di trattamento prospettate dal giudice rimettente risultano pertanto infondate, in quanto la disciplina dei rapporti tra contestazione dibattimentale del fatto nuovo e facoltà di chiedere l'applicazione della pena non é assimilabile alla disciplina della contestazione del fatto diverso e del reato concorrente, quale risultante dopo l'integrazione operata dalla sentenza n. 265 del 1994.
Al riguardo, é opportuno tenere presente che, con specifico riferimento al giudizio abbreviato, tale soluzione era già stata adombrata dalla sentenza n. 316 del 1992, che aveva appunto rilevato che "la disciplina delle nuove contestazioni é, nel sistema del codice, razionalmente differenziata, dato che, ove si tratti di fatto 'nuovo', la sua contestazione nello stesso dibattimento é possibile solo se l'imputato vi consente: sì che, occorrendo altrimenti procedersi nelle forme ordinarie, la richiesta per esso del giudizio abbreviato resta possibile".
6. Infondate sono pure le ulteriori censure prospettate dal giudice rimettente in ordine all'ingiustificabile dilatazione dei tempi processuali e all'irragionevole aggravio dell'attività giudiziaria che deriverebbero dalla disciplina denunciata: i valori della speditezza e dell'economia processuale non trovano, infatti, diretto riconoscimento costituzionale, salvi i casi in cui la disciplina determini il rischio di paralisi del processo (v. da ultimo sentenza n. 10 del 1997), ovvero comporti un irragionevole e ingiustificato trattamento deteriore in danno dell'imputato. Situazioni che, per le considerazioni sopra svolte, non ricorrono nel caso in esame, ove all'imputato che non abbia prestato il consenso alla contestazione suppletiva é offerta l'opportunità di presentare richiesta di applicazione della pena sin dalle prime battute delle indagini preliminari disposte dal pubblico ministero in ordine al fatto nuovo.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 518 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Pretore di Pinerolo, con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 1997.
Renato GRANATA: Presidente
Guido NEPPI MODONA: Redattore
Depositata in cancelleria il 23 maggio 1997.