SENTENZA N. 210
ANNO 1995
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Prof. Antonio BALDASSARRE, Presidente
- Prof. Vincenzo CAIANIELLO
- Avv. Mauro FERRI
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Francesco GUIZZI
- Prof. Cesare MIRABELLI
- Prof. Fernando SANTOSUOSSO
- Avv. Massimo VARI
- Dott. Cesare RUPERTO
- Dott. Riccardo CHIEPPA
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza), nel testo sostituito dall'art. 3 della legge 3 agosto 1988, n. 327 (Norme in materia di misure di prevenzione personali), promosso con ordinanza emessa l'8 giugno 1994 dal Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia sul ricorso proposto da Bozza Renato, iscritta al n. 693 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 1994. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 22 marzo 1995 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.
Ritenuto in fatto
1. - Chiamato a pronunciarsi sul ricorso proposto da Bozza Renato, ricorso diretto all'annullamento del provvedimento adottato il 13 ottobre 1993 dal Questore di Udine che disponeva il rimpatrio del ricorrente con foglio di via obbligatorio nel comune di Concordia Sagittaria, con diffida dal fare ritorno nel comune di Latisana per il periodo di un anno, il Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13 e 16 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 2, primo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come modificato dall'art. 3 della legge 3 agosto 1988, n. 327. La norma denunciata, oltre ad incidere sulla "libertà di movimento", comporterebbe una restrizione della libertà personale senza che "ne venga informata l'autorità giudiziaria". Vulnererebbe poi (il parametro costituzionale non risulta, peraltro, esplicitamente evocato dal giudice a quo) l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, perchè prima dell'inflizione della "misura restrittiva" non sarebbe consentito all'interessato di difendersi, pur incontrando il successivo ricorso alla giurisdizione i limiti derivanti dall'insindacabilità del merito amministrativo. Contrasterebbe, infine, con il principio di eguaglianza perchè il cittadino nei cui confronti viene applicata la misura di prevenzione verserebbe ingiustificatamente in una posizione deteriore rispetto a quella della generalità dei soggetti i quali, alla stregua degli artt. 7 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, "possono intervenire in un normale procedimento amministrativo, pur in presenza di conseguenze molto meno gravi per la loro sfera di libertà personale".
2. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo - riservata ogni deduzione sugli argomenti addotti - che la questione sia dichiarata non fondata.
3. - In prossimità della data fissata per l'esame della questione, l'Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria con la quale ribadisce la richiesta di dichiarazione di non fondatezza delle censure avanzate dal giudice a quo. Richiamata la giurisprudenza della Corte in materia di misure di prevenzione e, in particolare, le decisioni n. 384 del 1987 e n. 76 del 1970, l'Avvocatura contesta ogni violazione dell'art. 3 della Costituzione anche in relazione ai principii generali relativi all'accesso ai procedimenti amministrativi; una normativa certo non riferibile al procedimento di prevenzione per l'ostacolo derivante dagli artt. 7 e 24 della legge 7 agosto 1990, n. 241.
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale amministrativo regionale per il Friuli-Venezia Giulia dubita della legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza), nel testo sostituito dall'art. 3 della legge 3 agosto 1988, n. 327 (Norme in materia di misure di prevenzione personali), nella parte in cui prevede, nei confronti dei soggetti indicati dall'art. 1 della stessa legge, l'invio, con foglio di via obbligatorio, nel comune di residenza con la contestuale inibizione a ritornare, senza speciale autorizzazione, nel comune dal quale l'interessato è stato allontanato. Più in particolare, il giudice a quo, di fronte all'impugnativa di un provvedimento del Questore di Udine che aveva disposto il rimpatrio del ricorrente con foglio di via obbligatorio nel comune di residenza diffidandolo dal fare ritorno nel comune dal quale era stato rimpatriato, ha ravvisato nel precetto dell'art. 2 della legge n. 1423 del 1956, come sostituito, violazione, in primo luogo, degli artt. 13 e 16 della Costituzione, vulnerati in quanto, senza alcun provvedimento dell'autorità giudiziaria, si consentirebbe di incidere sulla libertà personale e sulla libertà di circolazione del privato. Sarebbe violato anche l'art. 24, secondo comma, della Costituzione (non direttamente evocato ma implicitamente chiamato in causa) perchè la "misura restrittiva" sarebbe adottata "senza che l'interessato possa intervenire" nel "procedimento formativo" e senza, quindi, che egli sia posto in condizione di difendersi "se non a posteriori, tramite ricorso all'autorità giudiziaria amministrativa", che, "in sede di giudizio di legittimità, incontra il limite dell'insindacabilità del merito amministrativo". Risulterebbe, infine, compromessa l'osservanza dell'art. 3 della Costituzione, in quanto il destinatario del provvedimento sarebbe discriminato rispetto ai destinatari degli altri provvedimenti amministrativi che, nonostante, di norma, comportino "conseguenze molto meno gravi sulla sfera di libertà personale" risultano assoggettati al regime di garanzia dettato dagli artt. 7 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241.
2. - Delle tre questioni sopra richiamate, le prime due non sono fondate, mentre la terza è infondata nei sensi di cui in motivazione. Relativamente alla dedotta violazione dell'art. 13 della Costituzione, questa Corte non può che richiamare la sua pressochè costante linea interpretativa, nel senso che tale norma costituzionale riguarda in primo luogo la libertà della persona in senso stretto, come risulta dalle esemplificazioni del secondo comma: detenzione, ispezione, perquisizione. Più in particolare, sin dalla sentenza n. 2 del 1956 - e dunque prima che venisse emanata la norma ora denunciata - venne precisato che le norme relative ai provvedimenti di rimpatrio con foglio di via obbligatorio non contrastano con l'art. 13 della Costituzione, "salvo che in due punti: la traduzione del rimpatriando e la possibilità che si potesse provvedere in base a semplici sospetti" (cfr. sentenza n. 45 del 1960). Con la conseguenza che, nel formulare la norma censurata, il legislatore non si è "messo in contrasto con la sentenza n. 2 del 1956. E ciò perchè l'ordine di rimpatrio non consente l'esercizio di alcuna coercizione". Il soggetto cui tale ordine è stato imposto non può essere, infatti, tradotto nel luogo di rimpatrio se non con la sentenza di condanna a pena espiata, quindi con una pronuncia giurisdizionale. Così da pervenire all'ulteriore statuizione, assolutamente non considerata dal giudice a quo, il quale sembra voler sovrapporre la tutela apprestata dall'art. 13 alla tutela apprestata dall'art. 16 della Costituzione: che, cioè (v. sentenza n. 419 del 1994), mentre i due precetti costituzionali ora ricordati "presentano una diversa sfera di operatività, nel senso che la libertà di circolazione e soggiorno non costituisce un mero aspetto della libertà personale, ben potendo, quindi, configurarsi istituti che comportano un sacrificio della prima ma non per ciò solo anche della seconda", perchè la libertà personale venga effettivamente incisa deve verificarsi una "degradazione giuridica" dell'individuo nel senso dell'avverarsi di "una menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona, tale da poter essere equiparata a quell'assoggettamento all'altrui potere in cui si concreta la violazione dell'habeas corpus". Una caratteristica non riferibile all'istituto del rimpatrio con foglio di via obbligatorio "sia in quanto non suscettibile di coercitiva esecuzione, sia perchè l'intimato, una volta raggiunta la nuova sede, è libero di trasferirsi altrove, tranne che nel luogo dal quale è stato allontanato" (v., ancora, sentenza n. 419 del 1994).
3.- Analogamente, in ordine alla dedotta violazione dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione - una censura che solo in apparenza si collega all'altra avente ad oggetto (come si vedrà tra poco) l'irragionevolezza della norma denunciata - deve anche qui ripetersi che poichè "il provvedi mento dell'autorità di pubblica sicurezza ha carattere amministrativo, non comporta violazione dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione, una disposizione di legge ordinaria che non preveda il diritto di difesa, garantito dalla norma costituzionale solo nei riguardi dei provvedimenti giurisdizionali" (ordinanza n. 146 del 1963). La disciplina del procedimento amministrativo, infatti, è rimessa alla discrezionalità del legislatore nei limiti della ragionevolezza e del rispetto degli altri principii costituzionali, "fra i quali non è da ricomprendere <quello del "giusto procedi mento" amministrativo, dato che la tutela delle situazioni soggettive è comunque assicurata in sede giurisdizionale" dagli artt. 24, primo comma, e 113 della Costituzione> (v. da ultimo, sentenza n. 103 del 1993).
4.1. - La questione è pure infondata, ma nei termini che seguono, con riferimento alla dedotta violazione del principio di eguaglianza. Il giudice a quo muove dal presupposto, peraltro del tutto immotivato, che nei confronti del procedimento disciplinato dall'art. 2 della legge n. 1423 del 1956, non possa, diversamente da quanto previsto in relazione alle altre tipologie procedi mentali cui pure non consegua una compressione di diritti costituzionalmente tutelati, ipotizzarsi - alla stregua della disciplina vigente - alcuna partecipazione del privato al procedimento amministrativo e non possa, dunque, trovare applicazione la disposizione dell'art. 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241. Un presupposto quindi condiviso dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale ha dedotto che il diritto di partecipazione del privato al procedimento amministrativo è riconosciuto "purchè non sussistano ragioni d'impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento", qui evidentemente ritenute, per definizione, prevalenti rispetto a qualsivoglia esigenza di tutela dell'interessato. Ha aggiunto l'Avvocatura che per i procedimenti dell'autorità di pubblica sicurezza l'art. 24 della legge 7 agosto 1990, n. 241, sottrae all'accesso degli interessati gli atti, i documenti e le notizie relativi alla sicurezza pubblica ed alla prevenzione anticrimine. Senonchè il presupposto a fondamento tanto dell'ordinanza di rimessione quanto dell'atto di intervento dell'Avvocatura generale dello Stato è da ritenere erroneo sulla base di una corretta lettura delle norme del capo II di tale legge.
4.2. - Appare, anzitutto, necessario ricordare che nel regime antecedente la "novellazione" la legge n. 1423 del 1956 prevedeva nei confronti di categorie di persone più o meno specificamente tipizzate (cfr. sentenza n. 177 del 1980) il potere del questore di diffidarle, ingiungendo loro "di cambiare condotta, avvertendole che, in caso contrario, si farà luogo alle misure di prevenzione di cui agli articoli 3 e seguenti". A sua volta l'art. 2 disponeva che qualora le persone indicate nell'articolo precedente siano pericolose per la sicurezza pubblica e per la pubblica moralità e si trovino fuori dei luoghi di residenza, il questore può rimandarle con provvedimento motivato e con foglio di via obbligatorio, inibendo loro di ritornare, senza preventiva autorizzazione ovvero per un periodo non superiore a tre anni, nel comune dal quale sono allontanate. Con l'art. 1, comma 1, della legge 3 agosto 1988, n. 327, è stata cancellata la misura della diffida, ritenuta (v. relazione della Commissione parlamentare antimafia presentata alla Presidenza della Camera dei deputati il 16 aprile 1985) non "in grado di raffrenare le esplosioni delittuose della mafia....e di altre organizzazioni criminali" e produttiva di "effetti negativi che non giovano al recupero sociale del soggetto nei confronti del quale il provvedimento è disposto", così, nella pratica, da gravare "sul diffidato come un marchio che rende assai difficile il suo reinserimento nel mondo del lavoro". Al contempo venivano soppresse dal primo comma dell'art. 2 della legge n. 1423 del 1956, le parole "o per la pubblica moralità". Ne è derivato un regime nell'ambito del quale al venir meno della diffida (da taluni ritenuto presupposto per l'emissione degli ulteriori provvedimenti e, quindi, anche di quello previsto dall'art. 2 della legge n. 1423 del 1956), ha corrisposto l'attribuzione al questore del potere di adottare, nei confronti delle persone indicate nell'art. 1 che siano pericolose per la sicurezza pubblica e che si trovino fuori dei luoghi di residenza, un provvedimento motivato con il quale le dette persone vengono rimandate nel luogo di loro residenza con foglio di via obbligatorio, con inibizione a ritornare, senza preventiva autorizzazione ovvero per un periodo non superiore a tre anni, nel comune dal quale sono state allontanate.
Ferma restando la necessità di adottare un provvedimento motivato e la possibilità di sindacare in sede giurisdizionale la legittimità di tale provvedimento pure nelle forme del controllo incidentale da parte del giudice ordinario ove venga riscontrata in sede di accertamento della contravvenzione all'ordine di rimpatrio (art. 2, secondo comma, della legge n. 1423 del 1956) l'illegittimità del provvedimento di polizia.
4.3. - Così delineato il quadro normativo attualmente vigente - e ciò anche per i riverberi che la soppressione della diffida può aver provocato relativamente alla preventiva cognizione da parte dell'interessato della qualità soggettiva attribuitagli dall'autorità di pubblica sicurezza - va detto che l'esame della giurisprudenza amministrativa successiva all'entrata in vigore della legge n. 241 del 1990 non lascia intravedere applicazioni (almeno con riguardo a decisioni edite) riferibili a provvedimenti di rimpatrio. Una circostanza, del resto, perfettamente in linea con la certo non frequente chiamata in causa di tale giurisdizione nel sistema previgente ove il sindacato sugli atti (di diffida o) di rimpatrio era molto più spesso demandato al giudice ordinario in sede di applicazione della previsione contravvenzionale derivante dal mancato rispetto del provvedimento di polizia. Una simile constatazione, peraltro, non può certo indurre a condividere la immotivata affermazione del giudice a quo in ordine alla sottrazione al regime della legge prima ricordata dei provvedimenti di rimpatrio. Quasi che il legislatore del 1990 avesse avuto di mira l'esigenza di assicurare la partecipazione del privato ai soli procedimenti (lato sensu) di amministrazione attiva e non anche ai procedimenti (pure qui, lato sensu) di tipo sanzionatorio. Rispetto ai quali, oltre tutto, l'esigenza partecipativa appare talora iscrivibile, più specificamente, all'area del contraddittorio: si pensi ai moduli previsti, non solo con riguardo al procedimento disciplinare, ma anche con riferimento al procedimento applicativo di sanzioni amministrative di tipo punitivo secondo le prescrizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689.
4.4. - Il vero è che l'art. 7 della legge n. 241 del 1990, disponendo la comunicazione dell'avvio del procedimento nei confronti dei "soggetti, individuati o facilmente individuabili, diversi dai suoi diretti destinatari", rende a fortiori riferibile un simile principio ai diretti destinatari dei provvedimenti di questo tipo, quale che sia l'autorità amministrativa da cui il provvedimento promana e quale ne sia il modulo procedimentale utilizzato. Un principio, peraltro, recepito dalla giurisprudenza che ha assegnato alla conoscenza dell'atto di avvio del procedimento (artt. 7 e 8 della legge n. 241 del 1990) un ruolo condizionante la validità dell'esito stesso della procedura e riferibile, di regola, a tutti i tipi procedimentali, tanto più quando la conclusione di essi determini un pregiudizio per il diretto interessato. Anche avendo presente tale incontrastato indirizzo giurisprudenziale, questa Corte ha, di recente, precisato come, pure se il principio del giusto procedimento non può, in quanto tale, "dirsi un principio assistito in assoluto da garanzia giurisdizionale", deve ad esso essere assegnato almeno il ruolo di "un criterio di orientamento, come per il legislatore così per l'interprete". Così da pervenire all'affermazione che "il coinvolgimento dei soggetti interessati e il momento di partecipazione che ne deriva si pongono come fase indefettibile di un procedimento che può concludersi" con l'applicazione di "una misura afflittiva", e da generalizzare, dunque, la "necessità di comunicare l'avvio di una fase conoscitiva (del resto riconducibile all'art. 7, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241), e la conseguente possibilità per gli interessati di presentare memorie e documenti" (sentenza n. 57 del 1995). Alla necessità di notiziazione di un momento davvero cruciale ai fini partecipativi, quale l'atto di avvio del procedimento, non può essere certo sottratto il destinatario del provvedimento di rimpatrio, un provvedimento direttamente incidente su una posizione costituzionalmente tutelata come il diritto di circolazione; salva l'ipotesi - espressamente disciplinata con riferimento a tutte le tipologie procedimentali - in cui particolari esigenze di celerità risultino ostative a provvedere alla comunicazione di tale atto, non esclusa la possibilità di adottare medio termine quei provvedimenti di natura cautelare che sono consentiti dall'art. 7, comma 2, della legge n. 241 del 1990.
4.5. - Resta ancora da precisare se l'attività "partecipativa" si esaurisca, con riferimento al rimpatrio con foglio di via obbligatorio, alla comunicazione dell'atto di avvio del procedimento ovvero comprenda anche l'esercizio del diritto di accesso ai documenti amministrativi a norma dell'art. 24 e seguenti della legge n. 241 del 1990. L'Avvocatura generale dello Stato, nella memoria presentata in prossimità della discussione del procedimento in camera di consiglio, ha dedotto che trattandosi di atti, documenti o notizie relativi alla sicurezza pubblica l'esercizio del diritto risulterebbe "assai problematico". Il richiamo è senza dubbio pertinente anche se non esaustivo. Va ricordato, infatti, che l'art. 24, comma 2, della legge n. 241 del 1990 autorizza il Governo ad emanare, ai sensi del comma 2 dell'art. 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, "entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti intesi a disciplinare le modalità di esercizio del diritto di accesso in relazione alle esigenze di salvaguardare l'ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità" (lettera c) . A sua volta, il comma 3 dello stesso art. 24 prescrive l'obbligo per le pubbliche amministrazioni "di individuare, con uno o più regolamenti da emanarsi entro i sei mesi successivi, le categorie di documenti da esse formati o comunque rientranti nella loro disponibilità sottratti all'accesso per le esigenze di cui al comma 2". Con d.P.R. 27 giugno 1992, n. 352, è stato dettato il "Regolamento per la disciplina delle modalità di esercizio e dei casi di esclusione del diritto di accesso ai documenti amministrativi, in attuazione dell'art. 24, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241, recante nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi". L'art. 13 di tale d.P.R. prescrive che, decorso il termine di un anno "dalla entrata in vigore del presente regola mento", l'accesso non può essere negato "se non nei casi previsti dalla legge". Un termine, poi, differito di sei mesi dal decreto-legge 14 settembre 1993, n. 358, convertito dalla legge 12 novembre 1993, n. 448. E nella subiecta materia, con decreto del Ministero dell'interno 10 maggio 1994, n. 415, è stato dettato il "Regolamento per la disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso, in attuazione dell'art. 24, comma 4, della legge 7 agosto 1990, n. 241, recante nuove norme in materia di procedimenti amministrativi e di diritto di accesso ai documenti amministrativi". L'art. 3, lettera a, include tra le categorie "di documenti inaccessibili per motivi di ordine e sicurezza pubblica ovvero ai fini di prevenzione e repressione della criminalità" le "relazioni di servizio ed altri atti o documenti presupposto per l'adozione degli atti o provvedimenti dell'autorità nazionale e delle altre autorità di pubblica sicurezza nonchè degli ufficiali o agenti di pubblica sicurezza ovvero inerenti all'attività di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica o di prevenzione o repressione della criminalità, salvo che per disposizione di legge o di regolamento debba essere unita a provvedimenti o atti soggetti a pubblicità". Ne consegue che, poichè il rimpatrio con foglio di via obbligatorio è da considerare, alla stregua del disposto degli artt. 1 e 2 della legge n. 1423 del 1956, provvedimento inerente anche alla prevenzione della criminalità, la partecipazione al procedimento dovrebbe restare assicurata dalla sola comunicazione dell'avvio del procedimento stesso.
4.6. - Così interpretato, l'art. 2 della legge n. 1423 del 1956, si sottrae, dunque, anche alla censura di irragionevole disparità di trattamento fra destinatari di provvedimenti amministrativi, sollevata dal giudice a quo.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza), nel testo sostituito dall'art. 3 della legge 3 agosto 1988, n. 327 (Norme in materia di misure di prevenzione personali), sollevata, in riferimento agli artt. 13, 16 e 24 della Costituzione, con l'ordinanza in epigrafe; 2) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza), nel testo sostituito dall'art. 3 della legge 3 agosto 1988, n. 327 (Norme in materia di misure di prevenzione personali), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29/05/95.
Antonio BALDASSARRE, Presidente
Giuliano VASSALLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 31/05/95.