SENTENZA N. 419
ANNO 1994
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
Dott. Cesare RUPERTO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 25-quater del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, promossi con n. 4 ordinanze emesse il 15 dicembre 1993 dalla Corte di cassazione su ricorsi proposti da Lo Iacono Giovanni, Talia Erminio Claudio, Autelitano Antonio e Catroppa Dante, iscritte ai nn. 89, 95, 129 e 179 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 12, 13 e 15, prima serie speciale, dell'anno 1994.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 luglio 1994 il Giudice relatore Mauro Ferri.
Ritenuto in fatto
1. Con quattro ordinanze di identico contenuto emesse il 15 novembre 1993, la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale - in riferimento agli artt. 13, primo e secondo comma, 24, secondo comma, e 25, primo e terzo comma, della Costituzione - dell'art.25-quater (soggiorno cautelare) del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n.356.
Premette la Corte remittente che i ricorrenti impugnano le ordinanze con le quali il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma, in sede di riesame, ha confermato i decreti del procuratore nazionale antimafia, con i quali era stato disposto, nei confronti dei ricorrenti medesimi, ai sensi della norma impugnata, il soggiorno cautelare. Tale norma attribuisce al procuratore nazionale antimafia il potere di "disporre il soggiorno cautelare di coloro nei cui confronti abbia motivo di ritenere che si accingano a compiere taluno dei delitti indicati nell'articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale avvalendosi delle condizioni previste nell'articolo 416-bis del codice penale o al fine di agevolare l'attività delle associazioni indicate nel medesimo articolo 416- bis" (comma 1). Lo stesso articolo stabilisce (comma 5) che, entro dieci giorni dalla notificazione del provvedimento, l'interessato può proporre richiesta di riesame al giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma, il quale provvede nei dieci giorni successivi alla ricezione della richiesta, "sentito il procuratore nazionale antimafia il quale trasmette senza ritardo gli elementi su cui si fonda il decreto".
Contro la decisione del giudice è ammesso il ricorso per cassazione.
Peraltro "la richiesta di riesame e il ricorso per cassazione non sospendono l'esecuzione del decreto".
Ciò posto, il giudice a quo rileva che la problematica delle misure di prevenzione è stata più volte affrontata dalla Corte costituzionale.
Nella lunga serie di pronunce, con l'affermazione della legittimità costituzionale di "un sistema di misure di prevenzione dei fatti illeciti", a difesa "dell'ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti fra i cittadini", risultano consolidati alcuni importanti principi, quali l'obbligo della garanzia giurisdizionale per ogni provvedimento limitativo della libertà personale e il netto rifiuto del sospetto come presupposto per l'applicazione di siffatti provvedimenti, in tanto legittimi in quanto motivati da fatti specifici: norme costituzionali di riferimento, gli articoli 13, 16 e 25, comma 3 (stante il riconosciuto parallelismo, per i dedotti profili, fra misure di prevenzione e misure di sicurezza), della Costituzione.
Vengono, in particolare, menzionate al riguardo le sentenze nn. 2 e 11 del 1956 (secondo cui "in nessun caso l'uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà (personale) se questa privazione o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi sia un provvedimento dell'autorità giudiziaria che ne dia le ragioni"); n. 23 del 1964, in cui la Corte escluse che "le misure di prevenzione possano essere adottate sul fondamento di semplici sospetti", richiedendosi invece "una oggettiva valutazione di fatti ...
che siano manifestazione concreta" della proclività delinquenziale del soggetto "e che siano stati accertati in modo da escludere valutazioni puramente soggettive e incontrollabili da parte di chi promuove o applica le misure di prevenzione"; e soprattutto la n. 177 del 1980, nella quale si affermò che "il principio di legalità in materia di prevenzione ... implica che l'applicazione della misura, ancorchè legata, nella maggioranza dei casi, ad un giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in fattispecie di pericolosità previste - descritte - dalla legge: fattispecie destinate a costituire il parametro dell'accertamento giudiziale e, insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosità, che solo su questa base può dirsi legalmente fondata";
su questa base, la Corte dichiarò incostituzionale la norma dell'articolo 1, n. 3, della legge 27 dicembre 1956 n. 1423, nella parte in cui elencava fra i soggetti passibili di misure di prevenzione "coloro che, per la manifestazioni cui abbiano dato luogo, diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere", mentre ritenne legittima la norma dell'articolo 18, n. 1, della legge 22 maggio 1975 n. 152, che prevede la sottoposizione a misure di prevenzione di "coloro che...pongono in essere atti preparatori obiettivamente rilevanti, diretti a sovvertire l'ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati" ivi elencati tassativamente, poichè "l'atto preparatorio consiste in una manifestazione esterna" di rilevabilità obiettiva, per cui sufficientemente determinata ne risulta la fattispecie di pericolosità.
In coerenza con le indicate decisioni - prosegue la Corte remittente - non può non prospettarsi la incostituzionalità del citato articolo 25-quater sotto vari profili.
Anzitutto quello inerente al principio di legalità, incorporato negli articoli 13, primo e secondo comma, e 25, terzo comma, della Costituzione, in quanto la formula legale "coloro nei cui con fronti (il procuratore nazionale antimafia) abbia motivo di ritenere che si accingano a compiere taluno dei delitti indicati" non sembra rispondere all'inderogabile esigenza costituzionale dell'individuazione di una fattispecie determinata, tale da escludere valutazioni puramente soggettive e da poter formare oggetto di concreto accertamento giudiziario. Parrebbe infatti che la formula "abbia motivo di ritenere" offra al procuratore nazionale antimafia uno spazio di incontrollabile discrezionalità, ancorato ad una valutazione essenzialmente soggettiva, e ciò tanto più in rapporto all'estrema genericità dell'indicazione ("si accinga") della condotta, apparentemente svincolata da qualsiasi manifestazione esteriore, cui si riferisce la valutazione anzidetta.
Vi è poi - prosegue il giudice a quo -, non meno rilevante e forse anche più marcato, il profilo della violazione della garanzia giurisdizionale, quale prevista dallo stesso articolo 13, secondo comma ("per atto motivato dell'autorità giudiziaria"), e necessariamente integrata dal riconoscimento del diritto di difesa, di cui all'articolo 24, secondo comma, della Costituzione. Invero, la "garanzia giurisdizionale", quale requisito di legittimità del procedimento di applicazione delle misure di prevenzione, implica una decisione del giudice conseguente ad accertamento nel contraddittorio delle parti, che dia spazio anche all'esercizio della difesa. Per contro, secondo la norma in esame: 1) il potere di disporre il soggiorno cautelare è attribuito al procuratore nazionale antimafia, organo non giurisdizionale, in assenza di qualsiasi formalità o prescrizione procedurale; 2) l'intervento del giudice è previsto solo in sede di riesame su ricorso, perciò in via meramente eventuale, comunque in una fase successiva all'adozione del provvedimento, e oltretutto senza che il ricorso abbia effetti sospensivi; 3) la decisione del g.i.p., in sede di riesame, segue la procedura c.d. "de plano", sentito il procuratore nazionale antimafia e in base agli elementi da esso forniti, perciò senza contraddittorio e senza possibilità di esplicazione del diritto di difesa.
Vi è infine - conclude la Corte di cassazione - un terzo profilo per cui sembra potersi configurare una illegittimità della norma considerata, ed è quello che attiene al principio di inderogabilità del giudice naturale, affermato dall'articolo 25, primo comma, della Costituzione, in quanto il giudizio di riesame è affidato in esclusiva al g.i.p. presso il Tribunale di Roma ("tribunale del luogo ove ha sede il procuratore nazionale antimafia") per tutto il territorio nazionale: ciò che, anche per la brevità dei termini concessi, può rappresentare un'ulteriore e non secondaria limitazione, sul piano pratico, del diritto di difesa degli interessati.
2. É intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo per l'infondatezza della questione.
Osserva l'Avvocatura generale dello Stato che una lettura della norma impugnata in armonia con i principi che emergono proprio dalle sentenze richiamate nelle ordinanze salva la norma stessa dal sospetto di incostituzionalità.
Non v'è dubbio, anzitutto, che il soggiorno cautelare si inscriva nel novero delle misure preventive degli illeciti penali, reputate legittime dal giudice delle leggi.
Il giudizio prognostico demandato al procuratore nazionale antimafia ha per oggetto non il semplice sospetto, ma alcuni elementi presuntivi che sono identificabili obiettivamente; il giudice, dal canto suo, può controllarne la sussistenza nei termini ritenuti necessari dalla giurisprudenza costituzionale.
In questo senso, prosegue l'Avvocatura, l'art. 25-quater va interpretato come se fosse una norma analoga all'art. 18 della legge n. 152 del 1975 (reputato legittimo da questa Corte), in quanto il pericolo preso in considerazione dal p.n.a. attiene ad un antefatto che, pur non sfociando necessariamente in un tentativo di reato penalmente punibile, si pone come "ultima soglia" prima della configurazione di una fattispecie tentata o consumata di reato. In altre parole, la fattispecie presa in esame dal p.n.a. è sufficientemente predeterminata, per cui il controllo (tempestivo) del giudice interviene su "casi" e non sulla manifestazione di una discrezionalità pressochè pura. Nè è da dubitarsi che il "quasi-reato" previsto dal comma 1 dell'art. 25-quater sia la manifestazione concreta di una proclività delinquenziale.
Non sarebbe violato, poi, ad avviso dell'Avvocatura, neanche il parametro dell'art. 13, sotto il profilo dell'intervento dell'"autorità giudiziaria". É pur vero che il p.n.a. non è un organo giurisdizionale in senso stretto, ma è parte dell'ordine giudiziario (sent. n. 190 del 1970).
É del resto controverso, in dottrina, se il pubblico ministero possa essere annoverato nel concetto di "autorità giudiziaria" di cui all'art. 13 della Costituzione: potrebbe avvalorare la conclusione affermativa la constatazione che il pubblico ministero, seppure nell'ambito di un codice di procedura penale che gli assegnava una veste ad un ruolo ben diversi dall'attuale, esercitava in passato dei poteri che indubbiamente rilevavano quale "atto motivato" o "convalida" dell'autorità giudiziaria.
Parimenti infondato, inoltre, sarebbe anche il profilo inerente il diritto di difesa, visto che, sebbene nell'ambito di una procedura "de plano", l'interessato ha la possibilità di esplicare appieno le sue doglianze sia dinanzi al g.i.p. che in sede di successiva impugnazione.
Da ultimo - conclude l'interveniente - la competenza radicata presso il g.i.p. di Roma si giustifica in ragione della necessità di ricostruire, per quanto possibile, un collegamento funzionale e territoriale tra l'organo del pubblico ministero (nella fattispecie, il p.n.a.) e il giudice, collegamento che assicura anche una tendenziale uniformità d'indirizzo nel sindacato dei giudizi operati dal medesimo p.n.a.. In ogni caso, il giudice risulta pur sempre precostituito per legge in rapporto alla generalità delle controversie in materia: non è, del resto, pacifica la tesi secondo la quale il giudice è "naturale" solo quando è assicurato il collegamento con il locus commissi delicti.
Considerato in diritto
1. La Corte di cassazione, con quattro ordinanze di contenuto sostanzialmente identico, dubita, sotto vari profili, della legittimità costituzionale dell'art. 25-quater del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, con il quale è stato introdotto nell'ordinamento, nell'ambito di una serie di misure di contrasto alla criminalità mafiosa, l'istituto denominato "soggiorno cautelare".
Data l'identità delle questioni sollevate, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza.
2. Le censure della Corte di cassazione si incentrano esclusivamente sul primo e sul quinto comma dell'articolo citato, i quali rispettivamente prevedono, per quanto qui interessa, che: il procuratore nazionale antimafia "può disporre il soggiorno cautelare di coloro nei cui confronti abbia motivo di ritenere che si accingano a compiere taluno dei delitti indicati nell'articolo 275, comma 3, del codice di procedura penale avvalendosi delle condizioni previste nell'articolo 416-bis del codice penale od al fine di agevolare l'attività delle associazioni indicate nel medesimo art. 416-bis" (primo comma); entro dieci giorni dalla notificazione del decreto motivato applicativo della misura, l'interessato "può proporre richiesta di riesame al giudice per le indagini preliminari presso il tribunale del luogo ove ha sede il procuratore nazionale antimafia"; "il giudice provvede entro dieci giorni dalla ricezione della richiesta, sentito il procuratore nazionale antimafia il quale trasmette senza ritardo gli elementi su cui si fonda il decreto"; la richiesta di riesame e il successivo eventuale ricorso per cassazione "non sospendono l'esecuzione del decreto" (quinto comma).
Avverso detta normativa la Corte remittente solleva tre distinte questioni di legittimità costituzionale.
In primo luogo, è prospettata, in riferimento agli artt.13, primo e secondo comma, e 25, terzo comma, della Costituzione, la violazione del principio di legalità ad opera del primo comma della disposizione impugnata, nella parte in cui detta i presupposti per l'applicazione della misura. La formula adoperata dal legislatore ("abbia motivo di ritenere che si accingano a compiere...") non risponderebbe ai requisiti più volte indicati dalla giurisprudenza costituzionale, in quanto non individua una fattispecie sufficientemente determinata tale da escludere valutazioni puramente soggettive da parte dell'autorità competente, finendo così con l'attribuire a questa uno spazio di incontrollabile discrezionalità.
In secondo luogo, viene denunciata la violazione della garanzia giurisdizionale, prevista negli artt. 13, secondo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione - cui è subordinata la legittimità del procedimento di applicazione delle misure di prevenzione -, che implica l'intervento di un giudice nel rispetto del principio del contraddittorio tra le parti. La censura in questo caso finisce con l'investire l'intera sequenza procedimentale delineata dal legislatore nella normativa impugnata, la quale, ad avviso del giudice a quo, sarebbe illegittima poichè: a) il potere di disporre il soggiorno cautelare è attribuito ad un organo non giurisdizionale, in assenza di qualsiasi procedura; b) l'intervento del giudice è meramente eventuale, su iniziativa dell'interessato, la quale peraltro non produce effetti sospensivi della misura; c) la decisione del giudice è adottata senza contraddittorio e quindi senza possibilità di esplicazione del diritto di difesa.
Infine, è oggetto di censura anche quella parte del quinto comma della norma in esame in cui si individua il giudice competente per il riesame: l'aver accentrato tale giudizio esclusivamente in capo al giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma (luogo ove ha sede il procuratore nazionale antimafia), viola, ad avviso della Corte remittente, il principio del giudice naturale (art. 25, primo comma, della Costituzione) e determina, anche in considerazione della brevità dei termini per proporre ricorso, un'ulteriore limitazione del diritto di difesa.
3.1. Occorre premettere che, come esattamente ritiene il giudice a quo, l'istituto in esame (al di là dei dubbi che può suscitare il nomen iuris adoperato: "soggiorno cautelare") costituisce indubbiamente una vera e propria nuova misura di prevenzione, la quale viene ad aggiungersi, con presupposti e struttura procedimentale del tutto peculiari, al vigente sistema delle misure di prevenzione personali, che trova la sua regolamentazione essenziale nella legge 27 dicembre 1956, n. 1423, e successive modificazioni, nonchè nelle leggi 31 maggio 1965, n. 575 e 22 maggio 1975, n. 152.
Va anche aggiunto che l'istituto ha successivamente perso, a seguito dell'abrogazione - disposta con l'art. 1 della legge 24 luglio 1993, n.256 - del sesto comma dell'articolo che ne prevedeva una durata triennale, l'originario carattere temporaneo ed eccezionale, entrando così in via permanente a far parte dell'ordinamento giuridico.
L'esame delle questioni va pertanto inquadrato nella complessa tematica della legittimità costituzionale delle misure di prevenzione, che ha costituito oggetto di numerose pronunce di questa Corte, sin dal 1956.
3.2. Deve altresì preliminarmente osservarsi che l'istituto, così com'è concretamente disciplinato, integra senza dubbio - ad avviso di questa Corte - una restrizione della libertà personale e non una mera limitazione della libertà di circolazione e soggiorno, e cade, quindi, sotto il disposto dell'art. 13 della Costituzione (esattamente invocato dal remittente) e non già nell'ambito di operatività dell'art. 16 della Carta.
Partendo dalla considerazione che i due precetti costituzionali ora richiamati presentano una diversa sfera di operatività, nel senso che la libertà di circolazione e soggiorno non costituisce un mero aspetto della libertà personale, ben potendo quindi configurarsi istituti che comportano un sacrificio della prima ma non per ciò solo anche della seconda (cfr. sentt. nn. 2 del 1956, 45 del 1960, 68 del 1964, ord.384 del 1987), questa Corte ha individuato nella "degradazione giuridica" dell'individuo l'elemento qualificante della restrizione della libertà personale, chiarendo che "per aversi degradazione giuridica ...occorre che il provvedimento provochi una menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona, tale da poter essere equiparata a quell'assoggettamento all'altrui potere, in cui si concreta la violazione del principio dell'habeas corpus" (cit. sent. n. 68 del 1964). Sulla base di detti principi, che devono intendersi qui pienamente ribaditi, mentre si è ritenuto (con le citate sentenze) che non presentasse tali caratteri l'ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio (sia in quanto non suscettibile di coercitiva esecuzione, sia poichè l'intimato, una volta raggiunta la nuova sede, è libero di trasferirsi altrove, tranne che nel luogo dal quale è stato allontanato), con la sentenza n. 11 del 1956 la Corte rilevò, invece, che l'istituto dell'ammonizione (disciplinato negli artt. da 164 a 176 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931) concretava una restrizione della libertà personale, in quanto si risolveva appunto in una sorta di degradazione giuridica in cui taluni individui venivano a trovarsi per effetto della sorveglianza di polizia cui erano sottoposti, attraverso tutta una serie di obblighi di fare e di non fare, tra cui quello di non uscire prima e di non rincasare dopo di una certa ora.
Ciò posto, non può negarsi che anche l'istituto ora in esame presenti, nel complesso delle sue prescrizioni (obbligo di soggiorno in una località determinata - peraltro normalmente, anche se non necessariamente, diversa da quella di residenza o di dimora abituale -; serie di prescrizioni che, in assenza di specifiche indicazioni, non possono che essere quelle tipiche delle ordinarie misure di prevenzione), un contenuto afflittivo tale da integrare senz'altro una menomazione della dignità della persona e che, quindi, ricada pienamente sotto la sfera precettiva dell'art. 13 della Costituzione.
4.1. Passando all'esame delle censure nell'ordine in cui sono prospettate dal giudice remittente, va per prima affrontata quella relativa alla presunta violazione del principio di legalità ad opera del primo comma della disposizione impugnata, là dove delinea i presupposti applicativi della misura.
La questione non è fondata nei sensi di seguito esposti.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la legittimità costituzionale delle misure di prevenzione - in quanto limitative, a diversi gradi, della libertà personale - è necessariamente subordinata, innanzitutto, all'osservanza del principio di legalità, individuato nell'art. 13, secondo comma, della Costituzione, nonchè nell'art. 25, terzo comma, della Carta medesima, nel quale, pur se riferito espressamente alle "misure di sicurezza", è stata solitamente rinvenuta la conferma di tale principio anche per la categoria delle misure di prevenzione, data l'identità del fine (prevenzione dei reati) perseguito da entrambe (ritenute due species di un unico genus), aventi a presupposto la pericolosità sociale dell'individuo.
Con la sentenza n. 23 del 1964, questa Corte ebbe modo di affermare - esplicitando principi già insiti in precedenti pronunce - che dalla natura e dalle finalità delle misure di prevenzione discende che "nella descrizione delle fattispecie il legislatore debba normalmente procedere con criteri diversi da quelli con cui procede nella determinazione degli elementi costitutivi di una figura criminosa, e possa far riferimento anche a elementi presuntivi, corrispondenti però sempre a comportamenti obiettivamente identificabili. Il che non vuol dire minor rigore, ma diverso rigore nella previsione e nella adozione delle misure di prevenzione, rispetto alla previsione dei reati e alla irrogazione delle pene".
Nella sentenza n. 177 del 1980 si sottolineò ulteriormente l'esigenza che "l'applicazione della misura, ancorchè legata, nella maggioranza dei casi, ad un giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in < < fattispecie di pericolosità>>, previste - descritte - dalla legge "; per cui l'accento cade sul sufficiente o insufficiente grado di determinatezza della descrizione legislativa di tali fattispecie (destinate a costituire il parametro dell'accertamento del giudice), descrizione che "permetta di individuare la o le condotte dal cui accertamento nel caso concreto possa fondatamente dedursi un giudizio prognostico, per ciò stesso rivolto all'avvenire". E si aggiunse che la descrizione di tali condotte non può non involgere il riferimento, esplicito o implicito, ai reati, o alle categorie di reati, della cui prevenzione si tratta, per cui essa acquista tanto maggiore determinatezza quanto più consenta di dedurre dal verificarsi delle condotte indicate la ragionevole previsione che quei reati potrebbero venir consumati.
4.2. Nel ribadire pienamente i principi richiamati, va osservato che la norma impugnata, pur potendo essere formulata più chiaramente, si presta, tuttavia, ad essere interpretata in modo aderente ai principi medesimi.
In primo luogo, la formula adoperata soddisfa l'esigenza della tassativa indicazione dei reati che si intendono prevenire, mediante il rinvio a quelli, di particolare gravità, indicati nell'art. 275, terzo comma, del codice di procedura penale. Nè assume rilevanza, in senso contrario, il fatto che trattasi di una pluralità di reati eterogenei.
Va anzi sottolineato che la norma impugnata, là do ve richiede che i soggetti interessati si accingano a compiere tali delitti "avvalendosi delle condizioni previste nell'art.416-bis del codice penale od al fine di agevolare l'attività delle associazioni indicate nel medesimo art. 416-bis", introduce un elemento unificante delle varie figure delittuose richiamate e nel contempo contiene il riferimento ad ulteriori modalità o finalità della condotta criminosa, che indubbiamente contribuiscono ad una migliore ricostruzione della fattispecie di pericolosità.
In secondo luogo, costituisce ormai un dato da tempo acquisito nella materia de qua, sia, come si è visto, nella giurisprudenza di questa Corte, sia a livello normativo (cfr.l'art. 1 della legge n. 1423 del 1956, come sostituito dalla legge 3 agosto 1988, n. 327), quello secondo cui il giudizio prognostico deve fondarsi sulla sussistenza di elementi di fatto, in ossequio al principio del ripudio del mero sospetto come presupposto per l'applicazione delle misure in esame. Ne deriva che l'omesso riferimento, nella norma censurata, a tale requisito non impedisce che esso possa - e debba - considerarsi implicito nella stessa.
In conclusione, la formula adoperata dal legislatore consente di interpretare la norma nel senso che la valutazione del procuratore nazionale antimafia debba ancorarsi a fatti e comportamenti oggettivi, che egli ragionevolmente ritenga, sulla base di adeguata motivazione, strumentalmente collegati alla commissione di una o più delle fattispecie criminose tassativamente indicate: ciò è sufficiente - analogamente a quanto ritenne questa Corte nella citata sentenza n. 177 del 1980 in relazione alla formula di cui all'art. 18, n. 1, della legge 22 maggio 1975, n. 152 - a far sì che la norma medesima sfugga ad una pronuncia di incostituzionalità.
5.1. La seconda censura prospettata dalla Corte di cassazione attiene, come s'è detto, alla violazione della garanzia giurisdizionale, che trova la sua radice nel disposto, intimamente collegato, degli artt. 13, secondo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione; essa investe nel suo complesso la struttura procedimentale dettata nel primo e nel quinto comma della norma impugnata.
La questione è fondata.
Accanto all'osservanza del principio di legalità, la giurisprudenza di questa Corte nella materia in esame - già in gran parte più volte richiamata - ha costantemente individuato anche nel rispetto della garanzia giurisdizionale l'altro indefettibile requisito, del resto connesso al primo, della legittimità delle misure di prevenzione.
Nella sentenza n. 11 del 1956 si è affermato che "in nessun caso l'uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà se questa privazione o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi sia provvedimento dell'autorità giudiziaria che ne dia le ragioni"; con le sentenze nn. 3 del 1974 e 113 del 1975 si è esclusa la illegittimità costituzionale della reiterazione della misura della sorveglianza speciale (art. 11 della legge n. 1423 del 1956), in quanto non automatica, ma subordinata ad un provvedimento del giudice emanato all'esito di un procedimento rispettoso dei principi del contraddittorio e del diritto di difesa; con le sentt. nn. 53 del 1968, 76 del 1970, 168 del 1972 e 69 del 1975 si è confermata l'esigenza che, con riguardo a tutte le misure che incidono sulla libertà personale, sia garantito al soggetto il diritto allo svolgimento di una integrale difesa; infine, nella sentenza n.177 del 1980 si è ancora una volta ribadita l'indefettibilità dell'intervento del giudice nel procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione, con le necessarie garanzie difensive.
Dalle anzidette pronunce deve trarsi la conseguenza non solo che il pubblico ministero (organo non giurisdizionale, ma pur sempre autorità giudiziaria) possa - com'è ovvio - assumere la veste di semplice soggetto proponente la misura (come è del resto previsto nella rimanente normativa in mate ria), ma anche che deve altresì ritenersi compatibile con i richiamati principi una disciplina che attribuisca ad esso il potere di disporre la misura medesima, purchè però con carattere di provvisorietà, e quindi esclusivamente nell'ambito di un procedimento che, entro brevi termini, conduca necessariamente all'adozione del provvedimento definitivo da parte di un giudice, con il rispetto delle garanzie della difesa.
Ciò posto, appare evidente come la normativa impugnata non risponda assolutamente ai delineati requisiti, e si ponga, pertanto, in insanabile contrasto con gli artt. 13 e 24 della Costituzione. Basta osservare al riguardo che, in base ad essa (la quale costituisce, d'altronde, un unicum nel vigente sistema di prevenzione, che riserva all'organo giurisdizionale anche l'adozione del provvedimento in via provvisoria: v. art. 6 della legge n. 1423 del 1956 e succ. mod.), il procuratore nazionale antimafia dispone la misura del "soggiorno cautelare" in via definitiva, come chiaramente discende dal fatto che il provvedimento è soggetto soltanto ad un riesame meramente eventuale da parte del giudice, su iniziativa del soggetto interessato; nè assume, ovviamente, alcuna rilevanza in contrario la temporaneità della misura (che non può avere durata superiore ad un anno), essendo evidente che la durata della misura non ha nulla a che vedere con la natura, potenzialmente definitiva, del provvedimento che la dispone.
5.2. L'accertato vizio di costituzionalità inficia - com'è evidente - in radice l'iter procedimentale dell'istituto, così come delineato, nella sua sequenza essenziale (adozione del provvedimento - riesame su ricorso), negli impugnati commi primo e quinto dell'articolo in esame.
Ma ciò non comporta che ne consegua inevitabilmente la pura e semplice caducazione dell'anzidetta disciplina - che finirebbe col travolgere integralmente l'istituto -, ove sia possibile rinvenire nell'ordinamento una soluzione che, riconducendo la disciplina stessa nell'alveo della legittimità, assicuri nel contempo la perdurante operatività di uno strumento di prevenzione della criminalità mafiosa e, quindi, di tutela di interessi di primario rilievo costituzionale.
Ritiene al riguardo questa Corte che tale soluzione vi sia, e consista nel ricondurre il procedimento in esame, con il necessario correttivo di cui si dirà, nell'ambito della disciplina processuale dettata dall'art.4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e successive modificazioni.
Detta disciplina è quella ordinaria del vigente sistema di prevenzione, nel quale si inserisce l'istituto in esame, per cui il riferimento ad essa discende anche dall'applicazione del normale criterio ermeneutico della riespansione della norma generale in caso di venir meno di quella speciale.
Ne consegue che alla emanazione del provvedimento motivato con cui il procuratore nazionale antimafia dispone il "soggiorno cautelare", dato il suo necessario carattere di provvisorietà, debba contestualmente associarsi la richiesta di adozione del provvedimento definitivo al tribunale indicato nel citato art. 4 della legge n. 1423 del 1956, cui seguirà la procedura di cui ai commi quinto e seguenti del medesimo articolo 4. Poichè, tuttavia, occorre, in conseguenza della natura provvisoria del provvedimento, per di più incidente sulla libertà personale, che la decisione del giudice intervenga entro un termine perentorio, il termine di trenta giorni indicato nella norma summenzionata deve necessariamente operare, in questo caso, a pena di decadenza del provvedimento medesimo.
5.3. In conclusione, ferma rimanendo la possibilità di intervento del legislatore - beninteso nel rispetto dei richiamati principi costituzionali -, va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 25-quater, primo comma, del d.l. n. 306 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 356 del 1992, nella parte in cui non prevede che il procuratore nazionale antimafia può disporre, con decreto motivato, il soggiorno cautelare soltanto in via provvisoria, con l'obbligo di chiedere contestualmente l'adozione del provvedimento definitivo al tribunale, ai sensi dell'art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e successive modificazioni, il quale decide, a pena di decadenza, nei termini e con le procedure previste dall'anzidetto art. 4 della legge medesima; a ciò consegue necessariamente la dichiarazione di illegittimità costituzionale del quinto comma del medesimo articolo 25-quater.
Ogni altra censura prospettata dal remittente resta assorbita.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
a) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 25- quater, primo comma - nella parte in cui definisce i presupposti per l'applicazione dell'istituto -, del decreto- legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, in riferimento agli artt. 13, primo e secondo comma, e 25, terzo comma, della Costituzione, sollevata dalla Corte di cassazione con le ordinanze in epigrafe;
b) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 25- quater, primo comma, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n.356, nella parte in cui non prevede che il procuratore nazionale antimafia può disporre, con decreto motivato, il soggiorno cautelare soltanto in via provvisoria, con l'obbligo di chiedere contestualmente l'adozione del provvedimento definitivo al tribunale, ai sensi dell'art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e successive modificazioni, il quale decide, a pena di decadenza, nei termini e con le procedure previste dall'anzidetto art. 4 della legge medesima;
c) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 25- quater, quinto comma, del decreto-legge 8 giugno 1992 n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992 n.356.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24/11/94.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Mauro FERRI, Redattore
Depositata in cancelleria il 07/12/94.