SENTENZA N. 168
ANNO 1972
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Prof. Michele FRAGALI, Presidente
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI
Avv. Ercole ROCCHETTI
Prof. Enzo CAPALOZZA
Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI
Prof. Vezio CRISAFULLI
Dott. Nicola REALE
Prof. Paolo ROSSI, Giudici,
Avv. LEONETTO AMADEI
Prof. GIULIO GIONFRIDA, Giudici,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale degli artt. 636, 637, 642, secondo comma, 645 e 646 del codice di procedura penale e degli artt. 102 e 109, secondo comma, del codice penale, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 15 febbraio 1971 dal giudice di sorveglianza del tribunale di Pisa nel procedimento per misure di sicurezza a carico di Librera Gennaro, iscritta al n. 118 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 112 del 5 maggio 1971;
2) ordinanze emesse il 24 maggio 1971 dal giudice di sorveglianza del tribunale di Firenze nei procedimenti per misure di sicurezza a carico di D'Alessandro Vincenzo e di Conti Luigi, iscritte ai nn. 431 e 432 del registro ordinanze 1971 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16 del 19 gennaio 1972;
3) ordinanza emessa il 22 novembre 1971 dal giudice di sorveglianza del tribunale di Firenze nel procedimento per misure di sicurezza a carico di Carrabs Guido, iscritta al n. 467 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37 del 9 febbraio 1972;
4) ordinanza emessa il 31 gennaio 1972 dal giudice di sorveglianza del tribunale di Torino nel procedimento per misure di sicurezza a carico di Cadin Renzo, iscritta al n. 102 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 110 del 26 aprile 1972;
5) ordinanze emesse l'8 e il 20 marzo 1972 dal giudice di sorveglianza del tribunale di Firenze nei procedimenti per misure di sicurezza rispettivamente a carico di Pandi Giorgio e di Bruni Giancarlo, iscritte ai nn. 138 e 154 del registro ordinanze 1972 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 134 del 24 maggio 1972 e n. 158 del 21 giugno 1972.
Visti gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del'11 ottobre 1972 il Giudice relatore Nicola Reale;
udito il sostituto avvocato generale dello Stato Umberto Coronas, per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
Con ordinanza emessa il 15 febbraio 1971 il giudice di sorveglianza presso il tribunale di Pisa, nel corso del procedimento per la revoca della misura di sicurezza a carico di Librera Gennaro, ha sollevato d’ufficio, in riferimento agli artt.3, primo comma, 13, primo e secondo comma, 27, secondo comma, 102, primo comma, e 112 della Costituzione, la questione di legittimità degli artt. 646 e 642, secondo comma, del codice di procedura penale, nelle parti in cui rispettivamente dispongono che l'efficacia del provvedimento del giudice di sorveglianza resti sospesa in pendenza del termine stabilito per il ricorso del pubblico ministero, nonché a seguito della proposizione e sino alla definizione del ricorso medesimo. E ciò diversamente da quanto preveduto per l'impugnazione dell'interessato, alla quale il secondo comma dell'art. 642 non attribuisce, invece, un'analoga efficacia, a meno che lo stesso p.m. consenta la sospensione della esecuzione del provvedimento predetto.
Nell'ordinanza si assume che la rilevanza della questione é da cogliere nel fatto che essa investe la legittimità di norme limitative della efficacia esecutiva al provvedimento di revoca di misura detentiva, contro il quale, sebbene non ancora pronunziato, é tuttavia da presumere verrà proposta impugnazione dal p.m., nel caso la decisione in esso contenuta risulti difforme dal parere negativo già espresso dall'organo predetto.
Nel merito si premettono alcune considerazioni volte a dimostrare l'analogia fra i provvedimenti di libertà provvisoria nei confronti d’imputati in attesa di giudizio (per i quali peraltro, la legge 5 novembre 1970, n. 824, ispirata a favor libertatis, ha negato l'effetto sospensivo all'impugnazione del p.m., contro le ordinanze di scarcerazione) e quelli concernenti la revoca di misure di sicurezza detentiva, sotto l'aspetto comune della garanzia della libertà personale. E ciò al fine di dimostrare che, al lume dei principi costituzionali, non può ammettersi, nel procedimento per misure di sicurezza, la preminenza della potestà del p.m., avente qualificazione di parte processuale, su quella del giudice di sorveglianza, in ordine all'efficacia di provvedimenti attinenti a restrizioni della libertà della persona internata. Preminenza risultante così dall'art. 646 c.p.p., il quale stabilisce non avere effetto la pronunzia del giudice circa la revoca della misura di sicurezza in pendenza del termine d’impugnazione del p.m., come dall'art. 642 che sospende l'esecuzione della pronunzia suddetta, nel caso l'impugnazione venga proposta. Tali norme sarebbero, quindi in contrasto col sistema processuale vigente, in quanto escludono nel procedimento in questione l'attuazione del principio, secondo cui la libertà personale può essere ristretta soltanto con provvedimento del giudice, e non in conseguenza di un atto di parte, quale é appunto il pubblico ministero.
In contrasto con la garanzia costituzionale della libertà della persona e con elusione dei principi di cui agli artt. 3 e 27, comma secondo, della Costituzione, si osserva, risulta inoltre diversamente disciplinato in confronto dell'analogo mezzo esperibile dal p.m., il ricorso della parte privata.
Con altre ordinanze come in epigrafe specificate, d’identico contenuto, emesse il 24 maggio 1971 nel corso di procedimenti promossi dal p.m. per la dichiarazione d’abitualità a delinquere e per la conseguente applicazione di misure di sicurezza, il giudice di sorveglianza presso il tribunale di Firenze ha denunziato d’ufficio l'illegittimità costituzionale delle seguenti norme:
a) dell'art. 636 c.p.p., concernente l'intervento nel procedimento dell'interessato, nella parte in cui si limita a prescrivere che, prima di provvedere, il giudice invita l'interessato stesso a fare le dichiarazioni che ritiene opportune a sua difesa; non impone invece la formale contestazione dei fatti per i quali si intende dichiararne la delinquenza abituale o sottoporlo a misure di sicurezza; in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 3, primo comma, della Costituzione;
b) dell'art. 637 c.p.p., nella parte in cui stabilisce che il giudice di sorveglianza ha facoltà di disporre gli opportuni accertamenti, senza prescriverne alcun limite di forma, di provenienza e di contenuto, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 3, primo comma, Cost.;
c) dell'art. 645 c.p.p. (in relazione anche all'art. 643), nella parte in cui disciplina la dichiarazione d’irreperibilità dell'interessato ai fini delle comunicazioni d’atti o provvedimenti, in riferimento agli artt. 24, secondo comma, e 3, primo comma, Cost.;
d) dell'art. 642, secondo comma, c.p.p., recante la disposizione che il ricorso proposto dall'interessato non sospende l'esecuzione del provvedimento del giudice di sorveglianza, a meno che il p.m. vi consenta, in violazione dell'art. 24, secondo comma, nonché dell'art. 3, primo comma, Cost., e in relazione al diverso regime del ricorso del p.m.;
e) dell'art. 109, secondo comma, c.p., nella parte in cui dispone che la dichiarazione di delinquenza abituale può essere pronunziata in ogni tempo, anche dopo l'esecuzione della pena; in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.;
f) dell'art. 102 c.p., concernente l'abitualità nel delitto presunta dalla legge, in riferimento all'art. 3, secondo comma, della Costituzione.
Circa la non manifesta infondatezza di tali censure, oltre a rilievi analoghi a quelli svolti nella precedente ordinanza, si osserva, in sostanza, che lo speciale carattere del procedimento per misure di sicurezza non esclude la possibilità della contestazione dei fatti per i quali é promosso il procedimento in questione. E non sembra possa eludersi l'obbligo della formale e dettagliata contestazione, quando in particolare si proceda, dopo la pronunzia della condanna, alla declaratoria d’abituale delinquenza anche in considerazione di motivi d’eguaglianza, posto che l'ordinamento riconosce al prevenuto, nel corso del giudizio ordinario di cognizione, il diritto alla contestazione delle circostanze costituenti il presupposto della declaratoria medesima, così come d’ogni altro elemento d’accusa.
In particolare, si precisa, il diritto alla difesa non potrebbe ritenersi soddisfatto dalla disposizione dell'art. 636, che si limita a richiedere che il giudice inviti, senza garanzie e formalità, l'interessato a fare dichiarazioni nel suo interesse.
Analoga carenza di requisiti e limiti legali inciderebbe anche sulla costituzionalità sia della norma che autorizza genericamente il giudice a compiere investigazioni (art. 637 c.p.p.), senza l'osservanza dei criteri e delle modalità che sono invece imposte nell'istruttoria penale, in situazioni e per finalità sostanzialmente identiche, sia della disciplina della irreperibilità (art. 645), diversa da quella preveduta dall'art. 170 dello stesso codice.
In merito alla denunzia d’incostituzionalità dell'art. 109, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui si prevede che la dichiarazione d’abitualità a delinquere può essere pronunziata dal giudice di sorveglianza in ogni tempo, anche dopo l'esecuzione della pena, il giudice a quo pone in rilievo come il giudizio di pericolosità criminale possa formularsi diversamente in dipendenza del decorso del tempo.
Donde l'inattualità e la non adeguatezza di una pronunzia tardiva, dalla quale dipenderebbe anche la restrizione della libertà personale a seguito di misure di sicurezza, ed il vizio d’incostituzionalità della norma in oggetto, sia in riferimento al principio d’eguaglianza, nei confronti di situazioni nelle quali la dichiarazione d’abitualità nel delitto e le conseguenti misure intervengono tempestivamente, sia in riferimento all'art. 27, terzo comma, della Costituzione, il quale afferma che "le pene devono tendere alla rieducazione del condannato", senza comunque costituire (alla stregua del secondo comma dell'art. 3 Cost.) ragione d’emarginazione sociale o di limitazione del pieno sviluppo della personalità.
Tali ultime considerazioni, secondo il giudice di sorveglianza presso il tribunale di Firenze valgono anche ad escludere la costituzionalità dell'art. 102 c.p., concernente la presunzione legale d’abitualità a delinquere.
Gli artt. 102 e 109 del codice penale sono stati, infine, denunziati anche dal giudice di sorveglianza presso il tribunale di Torino, in riferimento, peraltro, al solo art. 3, primo comma, della Costituzione.
In rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri l'Avvocatura generale dello Stato si é costituita soltanto nei procedimenti promossi con le ordinanze iscritte ai nn. 431, 432 e 467 del 1971 e in merito alla costituzionalità degli artt. 636, 637, 642 e 645 del c.p.p., nonché degli artt. 102 e 109, secondo comma, del codice penale, ha richiesto una decisione di non fondatezza.
Peraltro, ricordato che degli artt. 636 e 637 questa Corte, con sentenza n. 53 del 1968, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale nella parte in cui é disposto che i provvedimenti del giudice di sorveglianza possano essere adottati senza l'osservanza del diritto di difesa, ha precisato che, alla luce degli stessi principi, deve essere interpretata altresì la disposizione dell'art. 636, oggetto di questo giudizio, concernente l'invito all'interessato ad esporre quanto ritenga opportuno a propria difesa. All'uopo, si aggiunge, l'invito in questione deve essere formulato analogamente al decreto di citazione, in modo cioé da adeguare il trattamento della persona da assoggettare a misure di sicurezza alla normativa della contestazione dell'accusa nel giudizio ordinario di cognizione, non senza garanzia per la difesa.
Ed agli stessi criteri garantistici va altresì informata l'interpretazione degli artt. 637 e 645 dello stesso codice, uniformandosi così il procedimento per l'applicazione delle misure di sicurezza alle regole più favorevoli del procedimento istruttorio e della disciplina della irreperibilità dell'imputato.
Per quanto, invece, concerne l'art. 642 del c.p.p., la ragione della infondatezza, precisa l'Avvocatura, dovrebbe rinvenirsi nel carattere sostanzialmente amministrativo e nelle finalità d’interesse sociale cui sono volte le misure di sicurezza. Interesse che giustificherebbe la diversa incidenza delle impugnative proposte dal p.m. contro quei provvedimenti del giudice di sorveglianza, che possano apparire lesivi della sicurezza sociale.
In merito alla dichiarazione di abitualità del reato, in ogni tempo, anche dopo l'esecuzione della pena, l'Avvocatura rileva come la norma dell'art. 109, secondo comma, del codice penale non contrasti con gli artt. 3 e 27, secondo comma, della Costituzione, ma ne rispetti lo spirito, in quanto diretta a disporre, per i delinquenti socialmente pericolosi, un trattamento rieducativo differenziato da quello preveduto per chi non versi in istato di pericolosità.
Né il principio di eguaglianza osta alla legittimità della presunzione di abitualità nel reato, desunta da circostanze all'uopo valutate dal legislatore.
Considerato in diritto
1. - Con ordinanze dei giudici di sorveglianza presso i tribunali di Pisa, Firenze e Torino sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale concernenti profili, fra loro connessi, della disciplina sostanziale e processuale delle misure di sicurezza. Le cause possono essere, quindi, riunite e decise con unica sentenza.
2. - In alcune di tali ordinanze é prospettato il dubbio circa la compatibilità coi principi di cui agli artt. 3, 13, 27, secondo comma, 102, primo comma, e 112 della Costituzione, dell'art. 642 del codice di procedura penale, nella parte in cui é disposto che il ricorso dell'interessato non sospende l'esecuzione del decreto del giudice di sorveglianza, a meno che il pubblico ministero vi consenta, mentre ne impone la sospensione a seguito della impugnazione del pubblico ministero. Correlativamente é denunziata altresì l'incostituzionalità dell'art. 646 dello stesso codice, in quanto prevede che, nelle ipotesi di revoca delle misure di sicurezza, é sospesa l'esecutorietà del provvedimento del giudice di sorveglianza, in pendenza del termine stabilito per la proposizione del ricorso da parte di quest'ultimo.
Nei termini accennati le questioni così sollevate, nel corso di procedimenti pendenti davanti ai giudici di sorveglianza di Pisa e Firenze, debbono dichiararsi inammissibili per palese difetto di rilevanza.
Nelle ordinanze in esame, invero, si assume la pregiudizialità necessaria, nel corso della fase di primo grado del procedimento per l'applicazione di misure di sicurezza demandata al giudice di sorveglianza, di questioni riguardanti l'efficacia di provvedimenti non ancora pronunziati, in relazione all'eventuale contenuto dispositivo degli stessi e alla loro supposta incidenza sull'interesse delle parti; in relazione, cioé, a circostanze ed a requisiti futuri ed incerti e comunque attinenti a fasi ulteriori del procedimento, condizionate a specifiche statuizioni, presentemente soltanto ipotizzabili, dei provvedimenti da emanarsi dai giudici che hanno sollevato dette questioni.
Esse non rivestono, pertanto, i caratteri di pregiudizialità ed incidentalità quali sono richiesti dall'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e devono in conseguenza dichiararsi inammissibili.
3. - Con le ordinanze iscritte ai nn. 431, 432 e 467 del registro 1971 ed ai nn. 138 e 154 del registro 1972, le disposizioni del codice di procedura penale concernenti l'intervento della persona interessata nel procedimento per misura di sicurezza (art. 636), le investigazioni del giudice di sorveglianza (art. 637) e la disciplina delle comunicazioni all'interessato irreperibile (art. 645) sono state impugnate per violazione degli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione.
A sostegno dell'impugnativa si assume che nel procedimento per l'applicazione di misure di sicurezza, diversamente dalla normativa dettata dallo stesso c.p.p. per il processo ordinario, le ricordate disposizioni degli artt. 636 e 637 disciplinerebbero rispettivamente in modo non conforme alle garanzie della difesa la contestazione dei fatti per i quali si procede e la ricerca delle prove, in ordine alle quali non sono prescritti limiti di forma, di provenienza e di contenuto dei singoli mezzi di investigazione. L'art. 645 non impone, infine, che siano disposte dal giudice di sorveglianza nuove indagini, in analogia con quanto é disposto, invece, dall'art. 170, per le fasi del procedimento ordinario, ai fini della identificazione del luogo idoneo alla notificazione all'interessato, quando questi risulti irreperibile alle ricerche svolte da un ufficiale o agente di pubblica sicurezza incaricato delle comunicazioni di atti o provvedimenti.
Tali questioni investono momenti fra loro complementari del processo di sicurezza e si riassumono nella prospettazione comune della garanzia della difesa dell'interessato nella cornice del principio di eguaglianza.
4. - Questa Corte, per vero, con la sentenza n. 53 del 9 maggio 1968, ha già dichiarato, in riferimento all'art. 24 Cost., l’illegittimità degli artt. 636 e 637 c.p.p., nella parte in cui comportano che i provvedimenti del giudice di sorveglianza siano adottati senza la tutela del diritto di difesa, sul presupposto che la dimensione di tale diritto nel procedimento in esame va considerata in relazione all'interesse che ne é oggetto, vale a dire quello supremo della libertà personale. Ed ha espressamente chiarito in motivazione che, secondo lo spirito della norma costituzionale, si deve ritenere necessaria la conoscenza delle investigazioni e degli accertamenti compiuti dal giudice e dei loro risultati relativamente all'intero corso del procedimento e mediante l'assistenza tecnica di un difensore, da rendersi, oltretutto, obbligatoria e non facoltativa. Ha concluso, poi, che a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dei ricordati artt. 636 e 637 c.p.p., l'esercizio della difesa, in attesa di un intervento del legislatore, potrà svolgersi sulla base delle norme stabilite per la difesa nell'istruzione, secondo le estensioni operate dalla giurisprudenza di questa Corte.
Secondo la ratio della precedente decisione, quindi, devono oggi ritenersi operanti nel procedimento in esame, per logica necessaria estensione, le parallele disposizioni dettate per il processo ordinario, nei limiti in cui le disposizioni stesse risultino, con prudente interpretazione, compatibili con la peculiare struttura, con l'oggetto e con le finalità dello speciale giudizio per l'applicazione delle misure di sicurezza.
Limiti derivanti anzitutto dalla posizione che l'interessato assume, non quale imputato di fatti penalmente perseguibili, in riferimento ai quali ne va accertata e valutata la responsabilità, ma, di regola, in quanto sottoposto a misure di sicurezza per effetto, in genere, di un provvedimento che ne abbia accertato la responsabilità penale o comunque una personalità suscettibile di creare situazioni di pericolo.
Ed in relazione, appunto, all'oggetto del procedimento per l'applicazione delle misure di sicurezza, concernente esclusivamente la valutazione, in senso sintomatologico criminale, della condotta del soggetto, quale può essere rivelata, oltre che dai fatti già accertati nella precedente sentenza del giudice penale, da altre circostanze rilevanti ai fini del giudizio circa la personalità sociale del soggetto, il diritto di difesa deve potersi estrinsecare nell'ambito del principio del contraddittorio, in correlazione con i poteri attribuiti al pubblico ministero.
Dal che discende, ovviamente, che gli artt. 636 e 637, nel contenuto normativo risultante dalla precedente pronunzia di questa Corte, resistono alle attuali censure.
Per vero tali disposizioni, conformemente ai precetti degli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, comportano ormai che l'interessato debba essere tempestivamente edotto sui fatti in merito ai quali é chiamato a fare dichiarazioni e sui quali il giudice intende dirigere o ha diretto le investigazioni e gli accertamenti, perché in ordine ad essi ed ai relativi risultati sia posto in grado di svolgere le proprie difese.
E va in proposito riaffermato che al soggetto passivo del procedimento per l'applicazione di misure di sicurezza deve essere assicurato l'esercizio della difesa, sia personalmente sia per mezzo del difensore, con facoltà di esserne assistito in tutti gli atti nei quali ne é ammesso l'intervento dalle disposizioni vigenti.
5. - Il rispetto dei principi esposti conduce, per contro, a confortare l'ulteriore esigenza che le comunicazioni degli atti e dei provvedimenti, indicate nell'art. 645 c.p.p., siano volte ad una reale conoscenza dell'interessato o quanto meno alla conoscenza legale di esse, con le modalità previste a garanzia della difesa.
Ed al riguardo non può non porsi in rilievo l'insufficienza della disciplina contenuta nell'art. 645 sopra richiamato, nella parte in cui affida alla discrezionalità del giudice di sorveglianza (anziché fargliene obbligo) di emanare l'ordine che siano eseguite nuove ricerche dell'interessato, destinatario delle comunicazioni suddette, dopo quelle infruttuosamente svolte dagli organi incaricati delle notificazioni.
E parimenti va accolta l’ulteriore censura di incostituzionalità mossa dai giudici del merito, in riferimento all'ultima parte di detto articolo, nel quale é contenuta la disposizione che, nel caso di dichiarata irreperibilità dell'interessato "la mancanza della comunicazione non impedisce l'emissione dei provvedimenti del giudice e non ne sospende l'esecuzione".
La norma denunziata risulta cioé in contrasto con la Costituzione (artt. 3 e 24) in quanto consente che sia pretermesso il deposito degli atti in cancelleria ed il contestuale avviso al difensore, eventualmente nominato dall'ufficio, previa le nuove ricerche dell'interessato: il tutto secondo le modalità indicate dall'art. 170, secondo comma, del codice di procedura penale, con norma di carattere generale, alla quale non v'é motivo per derogare nel procedimento in oggetto.
6. - Con le stesse ordinanze dei giudici di sorveglianza presso i tribunali di Firenze e di Torino é sollevata la questione circa la rispondenza agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione dell'art. 102 c.p., concernente l'abitualità nel delitto presunta dalla legge.
Sotto il profilo della compatibilità sia con il principio di uguaglianza e delle sue implicazioni di ordine sociale (contraria ad ogni forma di emarginazione legale) sia con quello della funzione rieducativa della pena, si pone in dubbio la costituzionalità della norma, la quale esclude che il giudice proceda al concreto accertamento della pericolosità sociale di chi ope legis deve essere considerato dedito abitualmente al delitto. Situazione che la legge prevede allorché risulti che il soggetto, già condannato alla reclusione in misura superiore complessivamente a cinque anni per tre delitti non colposi, della stessa indole, commessi entro dieci anni, e non contestualmente, riporti altra condanna per un delitto, parimenti non colposo, della stessa indole, e commesso nei dieci anni (computati nei modi stabiliti nel secondo comma) successivi all'ultimo dei precedenti delitti.
La questione non ha fondamento.
La presunzione di pericolosità esprime, invero, le valutazioni, desunte da comune esperienza, secondo indicazioni socio-criminologiche discrezionalmente apprezzate dal legislatore, le quali alla reiterazione di fatti criminosi, già accertati a seguito di giudizi penali, danno significato di probabilità o temibilità di un ulteriore futuro comportamento criminoso (sent. 19/1966 e 68/1967). E ciò anche al fine dell'applicazione, con provvedimento del giudice, di misure di sicurezza, le quali (cit. sent. 68/1967) ex se tendono ad un risultato che eguaglia quella rieducazione cui deve mirare la pena. Con che resta anche superata la censura basata sul disposto dell'art. 27, terzo comma, della Costituzione.
Deve altresì escludersi che l'art. 102 violi il principio di eguaglianza.
Non può, infatti, ritenersi derivi, ai sensi di detto articolo, disparità di trattamento nei confronti di soggetti che, per i precedenti penali, in relazione al tempo, nonché alla gravità ed indole dei delitti commessi, siano passibili di qualificazione penale soggettiva ipso iure (e non a seguito di valutazioni rimesse, caso per caso, al giudice), rispetto ad ipotesi che per la loro minore rilevanza, desumibile dai criteri indicati dall'art. 103 c.p., il legislatore ha ravvisato non suscettibili di generalizzata significazione a fini di prevenzione criminale.
7. - Non ha, da ultimo, fondamento, alla stregua dei principi costituzionali testé esaminati, l'ulteriore questione sollevata dalle ordinanze predette circa la legittimità dell'art. 109, secondo comma, c.p., nella parte in cui si stabilisce che la dichiarazione di delinquenza abituale, a carico del soggetto che versi nelle condizioni prevedute dalle precedenti disposizioni degli artt. 102 e 103, può essere pronunziata in ogni tempo, anche dopo l'esecuzione della pena (e ovviamente non avendo a ciò provveduto il giudice della cognizione) sulla base della condotta già considerata nella sentenza di condanna, senza che possa tenersi conto della condotta successiva del soggetto. E ciò anche quando tale condotta possa far ritenere verificato il ravvedimento di lui e la cessazione della condizione di pericolosità sociale.
Ad escludere la violazione del principio di uguaglianza, ai sensi del primo e del secondo comma dell'art. 3 della Costituzione, valga il considerare che, al contrario, la norma impugnata é informata al rispetto della parità di trattamento. Detta norma, invero, col riferire l'accertamento della qualità di delinquente abituale allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della pronunzia della condanna, ha inteso espressamente sottrarre il trattamento del condannato, ove questo accertamento non sia intervenuto, a successive evenienze, a ritardi oppur anche a disfunzioni dell'apparato giudiziario, escludendo che da questi eventi possa trarsi vantaggio, non altrimenti giustificato che da un fortuito decorso del tempo.
Né da siffatta situazione può ritenersi possa derivare pregiudizio nei confronti di chi, nel tempo intercorso dopo la condanna, ha dato prova di ravvedimento e di reinserimento nell'ordine sociale, in quanto venga assoggettato tardivamente a restrizioni della libertà personale anche con l'imposizione di misure di sicurezza, giacché non mancano nell'ordinamento opportuni temperamenti al rigore delle sopra ricordate disposizioni.
Il che, a prescindere da ogni altra considerazione, vale parimenti ad escludere che, in riferimento ai principi dell'art. 27, terzo comma, Cost., abbiano fondamento le censure formulate, nelle ordinanze di rimessione, alla disposizione in esame, sotto il riflesso che le misure di sicurezza risulterebbero inutili o addirittura dannose.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 642 e 646 del codice di procedura penale, sollevate in riferimento agli artt. 3, 13, 27, secondo comma, 102 e 112 della Costituzione, con le ordinanze n. 118 del 1971 del giudice di sorveglianza presso il tribunale di Pisa; e nn. 431, 432 e 467 del 1971, 138 e 154 del 1972 del giudice di sorveglianza presso il tribunale di Firenze;
2) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 645 del codice di procedura penale, nella parte in cui, nel caso di mancata notifica all'interessato di alcuno degli atti o dei provvedimenti che la legge prevede siano a lui comunicati, stabilisce la facoltà dei giudici di sorveglianza e non l'obbligo di ordinare nuove ricerche, prima di dichiararne l’irreperibilità e di disporre il deposito degli atti o provvedimenti in cancelleria con contestuale avviso del deposito stesso al difensore dell'interessato, di fiducia o da nominarsi dall'ufficio;
3) dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 636 e 637 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, della Costituzione, con le ordinanze nn. 431, 432 e 467 del 1971, 138 e 154 del 1972 del giudice di sorveglianza presso il tribunale di Firenze;
4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 102, 109, secondo comma, del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, con le ordinanze nn.431, 432 e 467 del 1971, 138 e 154 del 1972 del giudice di sorveglianza presso il tribunale di Firenze, nonché n. 102 del 1972 del giudice di sorveglianza presso il tribunale di Torino.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 novembre 1972.
Giuseppe CHIARELLI - Nicola REALE
Depositata in cancelleria il 28 novembre 1972.