SENTENZA N. 422
ANNO 1994
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
Dott. Cesare RUPERTO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 4, quinto comma, del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n.29, sul pubblico impiego), promossi con n. 4 ordinanze emesse il 13 gennaio 1994 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio sui ricorsi proposti da Ioele Giuseppe, Pagano Antonino, Scali Domenico e Marra Pietro Oreste contro il Ministero dell'Interno, rispettivamente iscritte ai nn.267, 383, 384 e 455 del registro ordinanze 1994 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, nn. 20, 27 e 35, prima serie speciale, dell'anno 1994.
Visti gli atti di costituzione di Pagano Antonino e Marra Pietro Oreste, nonchè gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica dell'8 novembre 1994 il Giudice relatore Fernando Santosuosso;
uditi gli avvocati Giuliano Berruti per Pagano Antonino, Giulio Cevolotto per Marra Pietro Oreste e l'Avvocato dello Stato Stefano Onufrio per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di giudizi promossi da dirigenti della Polizia di Stato nei confronti del Ministero dell'Interno, aventi ad oggetto l'annullamento dei provvedimenti di rigetto delle istanze per il trattenimento in servizio per un biennio ai sensi della legge 23 ottobre 1992, n. 421, il T.a.r. del Lazio, con quattro ordinanze di identico contenuto, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, quinto comma, del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, sul pubblico impiego), in riferimento agli artt. 3, 76 e 97 della Costituzione.
A parere del giudice rimettente la questione è sicuramente rilevante, in quanto, trattandosi di norma di interpretazione autentica, e pertanto con efficacia ex tunc, la sua applicazione comporterebbe necessariamente il rigetto dei rispettivi ricorsi.
Quanto alla ritenuta violazione dell'art. 76 della Costituzione, osserva il giudice che la legge da cui trae origine la norma impugnata (legge 23 ottobre 1992, n. 421), contiene due distinte deleghe al Governo: la prima, di cui all'art. 2, riguardante la disciplina del pubblico impiego; la seconda, di cui all'art. 3, attinente alla materia previdenziale. La norma oggetto del presente giudizio si configura come disposizione interpretativa dell'art. 5, terzo comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503; tuttavia, mentre tale ultima disposizione è stata emanata in forza della delega contenuta nell'art. 2 della legge di delega, la norma interpretativa trae invece la propria legittimazione (come indicato nella premessa del decreto) dall'art. 3. Ritiene pertanto il giudice a quo che la potestà legislativa del Governo, per il suo carattere di eccezionalità, in tanto può considerarsi legittima in quanto si dimostri puntualmente rispettosa della delega per ogni specifico oggetto delegato: nella specie, invece, il Governo, utilizzando la delega di cui all'art. 2 (in materia di pubblico impiego), avrebbe travalicato l'oggetto della delega stessa, invadendo quindi il campo della delega di cui all'art. 3 (previdenza), con conseguente violazione dell'art. 76.
Circa la supposta violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, ritiene il giudice rimettente che la norma sarebbe illegittima in quanto discrimina irrazionalmente nell'ambito di una medesima species (dipendenti civili dello Stato) una sottocategoria di essa (il personale appartenente alla Forze di polizia ad ordinamento civile). Tale differenziazione non avrebbe ragione di esistere dal momento che il corpo di Polizia di Stato è stato smilitarizzato, con la conseguenza che i suoi appartenenti rientrano a tutti gli effetti nella categoria dei dipendenti civili: le differenziazioni sono limitate ad alcuni aspetti di specialità operativa, non idonei pertanto ad escluderne lo status di dipendenti civili.
2. - Nel giudizio davanti alla Corte si è costituito Antonio Pagano, parte nel giudizio di cui all'ordinanza iscritta al R.o. n. 383 del 1994, concludendo per la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione.
La parte ribadisce in primo luogo la censura mossa alla disposizione impugnata in riferimento all'art. 76, sottolineando un diverso aspetto della questione. La legge di delega, confermando al Governo la potestà di emanare disposizioni correttive soltanto "nell'ambito dei decreti di cui al primo comma, nel rispetto dei principi e criteri direttivi determinati nel medesimo comma", avrebbe escluso l'ammissibilità di un unico decreto legislativo contenente disposizioni correttive riguardanti più di una materia tra quelle costituenti oggetto di separata delega. Da qui la censura mossa alla disposizione in esame, contenuta in un decreto che corregge un decreto riguardante la materia del pubblico impiego (decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29), ma riferita ad una disposizione inserita in un decreto riguardante la previdenza (decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503).
Quanto alla violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, la parte sottolinea l'avvenuta equiparazione delle forze di polizia ad ordinamento civile alle altre categorie di pubblici dipendenti: onde la irragionevolezza della disparità di trattamento della norma in questione.
Nè varrebbe, sostiene la parte, riferirsi ad una presunta natura eccezionale del beneficio della permanenza in servizio (trattandosi di una norma che deroga rispetto ai limiti di età ordinari), stante la sua generalizzazione nei confronti di tutto il pubblico impiego (tranne ipotesi tassative). E neppure sarebbe possibile ragionare in termini di equiparazione tra il personale di Polizia ad ordinamento civile con quello ad ordinamento militare, attesa la diversità tra le due categorie, recentemente confermata dalla sentenza n. 91 del 1993 di questa Corte.
3. - É intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile ovvero non fondata.
La difesa erariale ritiene preliminarmente la questione inammissibile per difetto di rilevanza nei giudizi a quo, osservando che la norma impugnata ha natura interpretativa, mentre i relativi giudizi vertono sulla legittimità di provvedimenti adottati in ottemperanza a quanto previsto (non già dalla norma impugnata bensì) dall'art. 5 del decreto legislativo n. 503 del 1992. Ne consegue che l'eventuale caducazione (ex art. 76 della Costituzione) dell'impugnato art.4, quinto comma, del decreto legislativo n. 546 del 1993 non farebbe venir meno l'art. 5 richiamato nell'interpretazione imposta dalla norma impugnata, essendo tale interpretazione fatta propria anche dal Ministero competente.
In linea subordinata, l'Avvocatura ritiene che la questione sarebbe non fondata in riferimento all'art. 76, in quanto la norma impugnata non può essere ritenuta una diretta estrinsecazione di quella delega conferita in materia previdenziale al Governo ed attuata con il decreto legislativo n. 503 del 1992.
Ritiene inoltre che l'espletamento della delega può avvenire attraverso una serie di decreti tra loro complementari, purchè siano rispettati i limiti temporali e i principi e criteri direttivi in essa stabiliti.
Per quanto riguarda il rilievo prospettato dal giudice rimettente, osserva la difesa erariale che la norma impugnata, pur essendo stricto sensu di carattere previdenziale, ha rilevanti effetti anche in ordine alla disciplina del lavoro dei dipendenti pubblici, con evidente interconnessione tra la materia oggetto di delega di cui all'art.2 della legge n. 421 del 1992 e quella di cui all'art. 3.
Parimenti infondata sarebbe la questione sollevata in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, in quanto la deroga di cui alla norma impugnata deriverebbe già dall'art. 5, terzo comma, del decreto legislativo n. 503 del 1992, con cui sono stati fatti salvi i limiti di età stabiliti dalle leggi vigenti nei confronti di talune categorie di dipendenti, tra le quali i dipendenti delle Forze di polizia.
Riguardo in particolare a questi ultimi, la legge 1° aprile 1981, n. 121 ha fissato -con la disciplina "a regime"- in sessanta anni i limiti di età per il collocamento a riposo di alcuni ruoli della Polizia, in misura pertanto inferiore rispetto a quelli previsti in via generale per il pubblico impiego: ciò al fine di salvaguardare la salute fisica degli operatori di P.S., logorata da un'attività stressante ed usurante quale quella svolta a tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica. In tale quadro, attribuire la facoltà del prolungamento in servizio ad una sola delle Forze di polizia sarebbe contraddittorio e destabilizzante, tanto più che recentemente la tendenza all'omogeneità degli ordinamenti è stata riconfermata dalla legge 6 marzo 1992, n, 216, con la quale sono stati equiparati i trattamenti economici di tutte le forze di polizia e sono state formulate deleghe per uniformarne l'ordinamento delle carriere.
Considerato in diritto
La questione che il T.A.R. Lazio sottopone all'esame di questa Corte è se l'art. 4, quinto comma, del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, sul pubblico impiego), nella parte in cui, interpretando l'art. 5, terzo comma, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, esclude per il personale appartenente alle Forze di polizia ad ordinamento civile la facoltà di optare per il mantenimento in servizio di un biennio stabilito dall'art. 16 del decreto legislativo n. 503 del 1992, sia in contrasto:
- con l'art. 76 della Costituzione, per eccesso della norma impugnata rispetto alla delega attribuita al Governo con l'art. 3 della legge n. 421 del 1992;
- con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, in quanto discrimina irragionevolmente nell'ambito di una medesima species (dipendenti civili dello Stato) una sottocategoria di essa (gli appartenenti alle "Forze di polizia ad ordinamento civile").
Data l'identità delle questioni sollevate i giudizi possono essere riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.
2. - Con la preliminare eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza, l'Avvocatura dello Stato deduce che oggetto del giudizio dinanzi al T.A.R. era l'illegittimità della revoca dei provvedimenti adottati ai sensi dell'art. 5 del decreto legislativo n. 503 del 1992, norma che non è stata denunziata in questa sede dal giudice rimettente: da ciò deriverebbe che l'eventuale caducazione dell'impugnato art. 4, quinto comma, del decreto legislativo n. 546 del 1993 non travolgerebbe il citato articolo 5, dal momento che tale norma potrebbe ancora essere interpretata nel senso già accolto dal Ministero competente e dall'intervento legislativo ipoteticamente illegittimo.
Irrilevante quindi nel giudizio a quo sarebbe la denunzia di incostituzionalità limitata alla norma interpretativa.
A tale eccezione si replica nella memoria delle parti che questa norma ha in realtà un contenuto innovativo, quindi con una rilevanza autonoma; e quand'anche la norma fosse di natura sostanzialmente interpretativa avrebbe comunque effetti decisivi nell'interpretazione e nell'applicazione dell'art. 5 del decreto legislativo n. 503 del 1993 con la consequenziale rilevanza della denunziata illegittimità anche del solo art. 4 del decreto legislativo n. 546 del 1993 .
3. - L'eccezione non può essere accolta.
Indipendentemente dall'indagine se nella specie si tratti di intervento legislativo di carattere innovativo (e quindi rilevante), può osservarsi che, anche nell'ipotesi di norma di natura realmente interpretativa, questa "non fa venir meno la norma interpretata, poichè l'una e l'altra si saldano fra loro dando luogo ad un precetto normativo unitario" (sentenze n. 397 del 1994; 424 e 39 del 1993; 155 del 1990, 233 del 1988).
Se allora nel giudizio a quo va applicato il "sistema" risultante dalla combinazione delle due disposizioni (interpretativa e interpretata), l'incostituzionalità eventualmente ravvisata in una delle due produce decisivi riflessi anche sull'altra. A ciò si aggiunga il rilievo che, pur quando l'illegittimità costituzionale investa la sola norma interpretativa, ciò determina comunque l'effetto della rimozione dell'impedimento al giudice di scegliere la diversa interpretazione dallo stesso ritenuta più corretta: il che è sufficiente a ravvisare una incidenza (e quindi la rilevanza della questione) nel giudizio a quo.
4. - In ordine al ritenuto eccesso da parte del decreto legislativo rispetto alla legge di delega, è opportuno rilevare anzitutto che differenti sono le prospettazioni della questione operate rispettivamente dal giudice a quo e dalla parte costituita: a) secondo il primo si avrebbe eccesso di delega in quanto la disposizione impugnata sarebbe stata emanata sulla base di una delega riguardante la materia del pubblico impiego, mentre essa interpreta autenticamente una disposizione emanata (a suo tempo) in forza della delega riguardante la materia della previdenza; b) secondo la parte, invece, il legislatore delegato avrebbe utilizzato la delega conferita per correggere un decreto sul pubblico impiego al fine di interpretare autenticamente un decreto, in materia di previdenza, già emanato in forza di diversa delega.
Devono altresì notarsi le particolari vicende parlamentari relative alla disposizione in esame; e cioé il Governo in un primo tempo propose l'introduzione della disposizione interpretativa ora impugnata con la presentazione di uno specifico disegno di legge al Parlamento (n.1364): le Commissioni competenti avevano espresso parere favorevole, pur con precisazioni diverse tra le due Camere. Tale disegno di legge non ebbe poi seguito in sede assembleare. Successivamente, il Governo ha introdotto la stessa disposizione all'interno di un decreto legislativo "correttivo" di precedente decreto in materia di pubblico impiego.
Non appare necessario approfondire i rilievi non decisivi che potrebbero farsi circa il particolare iter formativo della disposizione e circa la diversa prospettazione della questione, dal momento che questa Corte è chiamata ad esaminare in sostanza la denunziata violazione dell'art. 76 della Costituzione sotto il profilo della non identità tra l'oggetto della disposizione interpretativa e l'ambito della delega utilizzata per emanare la norma stessa.
Posta in questi ristretti termini, la questione non è fondata.
Va preliminarmente ricordato che l'inserimento di una norma avente ad oggetto una determinata disciplina in un testo relativo ad una diversa materia, pur configurandosi come esercizio non corretto di tecnica legislativa, non è tuttavia motivo di per sè sufficiente a determinare una illegittimità costituzionale (v. sentenza n. 108 del 1987), e che al legislatore delegato è consentito in linea di massima anche l'utilizzazione frazionata e ripetuta di una stessa delega (v. sentenza n.156 del 1985), purchè nel rispetto dell'art. 76 della Costituzione.
Più specificamente deve rilevarsi che la "delega" (enunciata al singolare nella rubrica della legge n. 421 del 1992) pur se distintamente articolata in quattro materie (sanità, pubblico impiego, previdenza e finanza territoriale) in ragione dell'ampiezza e complessità della riforma, deve tuttavia considerarsi fondamentalmente unitaria, tanto più che alcuni aspetti delle anzidette materie risultano tra loro strettamente connessi. In particolare, la complementarietà si rivela tra il pubblico impiego e la relativa disciplina previdenziale; e, nella misura in cui queste due ultime materie sono distinguibili, l'eccesso delle corrispondenti deleghe potrebbe porre problemi di costituzionalità, non per un erroneo richiamo a particolari disposizioni o per l'inesatta loro collocazione, ma solo nel caso in cui la discordanza incida sui limiti stabiliti (ai sensi dell'art. 76 della Costituzione) dalla legge di delegazione, con riguardo cioé ai principi e criteri direttivi ed all'ambito temporale in cui la delega deve esercitarsi.
Nella specie, non è ravvisabile la violazione di detti limiti costituzionali per essersi riferita la legge interpretativa alla norma delegante relativa al pubblico impiego anzichè a quella della previdenza, ovvero in quanto essa è contenuta in un decreto "correttivo" riguardante il pubblico impiego.
Con specifico riguardo all'art. 2 della legge di delegazione n.421 del 1992, è stato recentemente affermato da questa Corte (sentenza.n. 343 del 1994) che tale norma, pur inserita a proposito della materia del pubblico impiego, si estende alla disciplina unitaria del sistema di controllo sugli atti amministrativi regionali nella loro globalità.
5. - Con il secondo profilo della questione, il giudice a quo denunzia la violazione degli articoli 3 e 97 della Costituzione, rilevando che gli appartenenti alla Polizia di Stato, anche dopo la loro smilitarizzazione, sono stati irrazionalmente discriminati circa i limiti di età per il collocamento a riposo rispetto agli altri dipendenti civili dello Stato.
Si fa osservare ex adverso che gli appartenenti alla Polizia non sono da parificarsi pienamente ai dipendenti civili; e d'altra parte risulta che i d.P.R. 24 aprile 1982, n. 335 e n. 336 prevedono in via transitoria (art. 45 d.P.R. n. 336 del 1982) che "il personale in servizio alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo, inquadrato nei ruoli dei dirigenti e dei commissari di Polizia di Stato, è collocato a riposo d'ufficio al compimento del sessantacinquesimo anno di età".
6. - Anche sotto il predetto profilo di costituzionalità la questione sollevata dal T.A.R. Lazio non è fondata.
Va premesso che nella fattispecie -oggetto del giudizio dinanzi al giudice a quo- non viene in considerazione la disciplina "a regime" della cessazione dal servizio del personale della Polizia di Stato per il quale sono previsti diversi limiti di età (58 e 60 anni a seconda dei ruoli), nè l'omogeneità tra le varie Forze dell'ordine, ma soltanto la disparità di trattamento fra i dipendenti civili dello Stato e degli enti pubblici non economici (che hanno la facoltà di permanere in servizio per un biennio oltre i limiti di età per essi previsti) e quei dirigenti della Polizia di Stato (tra i quali coloro che hanno proposto ricorso al T.A.R.), che si trovano nelle condizioni stabilite dalla citata norma transitoria (con il limite cioè di 65 anni di età per il loro collocamento a riposo).
Orbene, in ordine a tale situazione, il differente trattamento previsto, così come precisato dalla norma interpretativa denunziata dal giudice a quo, deve ritenersi costituzionalmente legittimo anzitutto perchè il legislatore ha contemplato nella normativa di delegazione la possibilità di introdurre deroghe alla nuova disciplina per determinate categorie di dipendenti; e, con particolare riguardo alla cessazione dal servizio del personale di Polizia "ad ordinamento civile" e del Corpo dei vigili del fuoco, il citato decreto legislativo n. 503 (art. 5 terzo comma) stabilisce che "restano ferme le particolari norme dettate dai rispettivi ordinamenti". In secondo luogo non appare macroscopicamente irragionevole la censurata preclusione (almeno per quanto riguarda la situazione delle parti in causa che si giovano della citata norma transitoria), tenuto anche conto della natura di particolare impegno inerente all'attività del mantenimento dell'ordine pubblico svolta dalle Forze di Polizia.
Tale circostanza, del resto, emerge indirettamente dalla stessa legge n.121 del 1981 che ha esteso al predetto personale le norme previste per i pubblici dipendenti solo "in quanto compatibili" e per "quanto non previsto dalla presente legge", statuendo nel contempo (art. 16 legge n.121 del 1981) che ai fini dell'ordine e della sicurezza pubblica sono da ritenersi "Forze di Polizia" non solo la Polizia di Stato ma anche l'Arma dei Carabinieri, il Corpo di Guardia di Finanza, il Corpo degli agenti di custodia ed il Corpo Forestale dello Stato, categorie queste escluse dall'operatività del beneficio della permanenza in servizio per un biennio in quanto ad "ordinamento militare".
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, quinto comma, del decreto legislativo 23 dicembre 1993, n. 546 (Ulteriori modifiche al decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, sul pubblico impiego), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 76 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo del Lazio con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 05/12/94.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente
Fernando SANTOSUOSSO, Redattore
Depositata in cancelleria il 14/12/94.