Sentenza n.108 del 1987

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SENTENZA N. 108

ANNO 1987

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

Prof. Antonio LA PERGOLA, Presidente

Prof. Virgilio ANDRIOLI

Prof. Giuseppe FERRARI

Dott. Francesco SAJA

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Prof. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco P. CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

        ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 101, 102, 103, 105, 106 e 107 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale); artt. 136 del cod. pen. e 586 del cod. proc. pen. promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 3 luglio 1982 dal magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Firenze nel procedimento per la esecuzione di pena pecuniaria convertita nei confronti di Rabizzi Vero iscritta al n. 593 del registro ordinanze 1982 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18 dell'anno 1983;

2) ordinanza emessa il 14 dicembre 1982 dal Pretore di Foligno nel procedimento penale a carico di Mocerino Vincenzo iscritta al n. 112 del registro ordinanze 1983 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 191 dell'anno 1983;

3) ordinanza emessa il 22 novembre 1984 dal Pretore di Prato nel procedimento esecutivo nei confronti di Ariani Giuliana iscritta al n. 12 del registro ordinanze 1985 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 125-bis dell'anno 1985;

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

Udito nell'udienza pubblica del 25 novembre 1986 il Giudice relatore Ugo Spagnoli;

Udito l'Avvocato dello Stato Antonio Bruno per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza in data 3 luglio 1982 (r.o. 593/82) il magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Firenze, chiamato a determinare le modalità di esecuzione della pena pecuniaria (L. 125.000 di multa) inflitta a Rabizzi Vero e convertita con provvedimento 10 maggio 1982 per l'accertata insolvibilità di costui, sollevava, su eccezione del difensore, in riferimento all'art. 3 Cost., una questione di legittimità costituzionale "dell'art. 107 della legge 24 novembre 1981 n. 689, nella parte in cui prevede che si applichi la libertà controllata e che si determinino le modalità di esecuzione a seguito della trasmissione del provvedimento di conversione di pena pecuniaria". Osservato che la questione avrebbe potuto più tempestivamente essere sollevata innanzi all'organo dell'esecuzione (nella specie, Pretore di Viareggio) che emise il provvedimento di conversione, il giudice a quo assumeva, in punto di rilevanza, che essa era correttamente proponibile e rilevante - peraltro limitatamente all'art. 107, e non anche agli artt. 102, 103 e 105 l. cit. - anche nella fase successiva, dato che in essa, a seguito di un procedimento giurisdizionalizzato, si dà contenuto concreto alla pena sostitutiva, determinandone le modalità di esecuzione in modo così rilevante da incidere sulla sua stessa essenza.

Ciò premesso, il magistrato rimettente richiamava la sentenza n. 131/1979 di questa Corte, con la quale era stata dichiarata l'illegittimità costituzionale della conversione della pena pecuniaria in detentiva (artt. 136 c.p. e 586 c.p.p.), osservando che la nuova normativa si differenzia da questa unicamente per il tipo di sanzione che viene sostituita (non più pena detentiva, ma libertà controllata o lavoro sostitutivo). La situazione resta peraltro - secondo il giudice a quo - "non solo analoga ma identica" a quella censurata dalla Corte, in quanto le predette sanzioni sostitutive hanno sostanzialmente natura di pena e comportano (specie la libertà controllata) notevoli limitazioni della libertà personale (art. 56 l. cit.) che, oltre a renderle certamente più afflittive della pena pecuniaria, sono addirittura suscettibili di riconvertirsi nella totale privazione di essa (e cioè in pena detentiva) nel caso di inosservanza degli obblighi con esse imposti (art. 108). Di qui la dedotta violazione del principio di uguaglianza, dato che "sulla base dell'unico elemento dell'accertata insolvibilità del condannato derivano disuguali conseguenze sanzionatorie da responsabilità di pari intensità nella violazione della medesima norma incriminatrice".

2. - L'Avvocatura dello Stato, intervenuta nel giudizio così instaurato in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri, chiedeva dichiararsi l'infondatezza della questione, assumendo che la nuova normativa modifica profondamente la disciplina censurata con la sentenza n. 131/1979, ed anzi sviluppa la linea di tendenza da questa indicata. Con l'art. 102 l. cit., infatti, "non si converte una pena in altra pena, ma in un provvedimento analogo ad una misura amministrativa di sicurezza, né si incide sulla libertà personale del soggetto in modo così radicale come avviene con la reclusione e l'arresto"; e le nuove sanzioni sostitutive "comportano delle limitazioni alla libertà personale in adempimento di un obbligo imposto dall'ordinamento".

3. - Con ordinanza del 14 dicembre 1982 (r.o. 112/83) il Pretore di Foligno, rilevato che la pena di L. 400.000 di ammenda inflitta a Mocerino Vincenzo con decreto penale 24 giugno 1982 doveva essere convertita in libertà controllata o lavoro sostitutivo, stante l'accertata insolvibilità del condannato, sollevava d'ufficio, in riferimento all'art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale "degli artt. 136 c.p., 586 c.p.p., 101, 102, 103, 105, 106 e 107" legge n. 689/1981. Premesso che le predette sanzioni sostitutive sono, agli artt. 56 e 57 della medesima legge, espressamente qualificate come pene, il pretore rimettente osservava che il carattere afflittivo del lavoro sostitutivo si desume dall'essere stata la sua applicazione subordinata alla richiesta del condannato, onde differenziarlo dal c.d. lavoro forzato; e che ancor più afflittiva é la libertà controllata, atteso che le prescrizioni ad essa inerenti (art. 56) sono "fortemente limitative persino di alcuni diritti soggettivi pubblici connessi alla libertà personale e costituzionalmente garantiti, come i diritti di soggiorno, di circolazione nel territorio nazionale e del diritto di emigrazione". La nuova normativa rappresenta perciò, ad avviso del giudice a quo, un "irrazionale e ingiustificato" ritorno alla situazione anteriore alla sentenza n. 131/1979, atteso che il rilevante aggravamento, in sede esecutiva, delle condizioni del condannato sembra ancora dipendere unicamente dalla sua insolvibilità - con conseguente discriminazione rispetto agli abbienti - e che la conversione é ancora una volta configurata come conseguenza indifferibile ed automatica dell'impossibilità di adempimento.

4. - Intervenendo nel giudizio così instaurato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri, l'Avvocatura dello Stato negava che il Pretore fosse legittimato a sollevare la predetta questione, non esercitando tale organo, nel provvedere ex art. 586, sesto co., c.p.p., alcuna funzione decisoria - bensì un mero compito esecutivo demandato al p.m. - e potendo la questione essere proposta solo nella successiva fase (sicuramente giurisdizionale) dell'opposizione al provvedimento di conversione.

Nel merito, l'Avvocatura sosteneva che il nuovo sistema ha contemperato in modo costituzionalmente corretto le opposte esigenze messe in evidenza dalla citata sentenza n. 131/1979: di non far pagare con un pesante sacrificio della libertà personale la pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità e di apprestare, però, un meccanismo che, pur tenendo conto delle disagiate condizioni economiche, eviti la formazione di aree di sostanziale impunità. La Corte ha infatti riconosciuto che il principio di uguaglianza richiede che si approntino dei meccanismi per rendere ineludibile l'esecuzione della pena, anche quando questa sia di natura pecuniaria, perché altrimenti si realizzerebbe un sistema in cui la multa e l'ammenda in concreto risulterebbero applicabili solo nei confronti delle persone abbienti, o peggio di quelle che abbiano determinato o simulato una loro situazione di insolvibilità; ed ha essa stessa indicato le "linee di tendenza" del meccanismo costituzionalmente corretto appunto nel disegno di legge da cui é scaturita la l. n. 689/1981. Nel nuovo sistema, inoltre, la sanzione sostitutiva non é privativa della libertà personale, e, d'altra parte, le disagiate condizioni economiche consentono la diminuzione della pena fino ad un terzo e la rateazione fino a trenta rate mensili.

5. - Con sentenza in data 24 gennaio 1983 il Pretore di Prato condannava Ariani Giuliana alla pena di L. 2.000.000 di multa, frazionata in quattro rate mensili, per il reato di emissione continuata di assegni a vuoto. Avendo costei omesso di pagare una delle rate, il medesimo Pretore, con ordinanza del 20 settembre 1984, disponeva la conversione della pena inflitta ai sensi dell'art. 586, 4ø cpv., c.p.p.. Avverso tale provvedimento l'interessata proponeva incidente di esecuzione, allegando che, essendo stata dichiarata fallita con sentenza del 19 dicembre 1983, si trovava nell'impossibilità giuridica di pagare e sostenendo che, alla stregua della sentenza di questa Corte n. 149/1971, si sarebbe dovuto procedere alla conversione solo previo accertamento dell'insolvenza, a seguito della chiusura del fallimento.

Con ordinanza del 22 novembre 1984 (r.o. 12/85) il Pretore di Prato, investito dell'incidente, sollevava, in riferimento all'art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 586, quinto comma, c.p.p. (nel testo sostituito con l'art. 106 l. n. 689/1981) in quanto - diversamente dal comma successivo - impone l'automatica pronuncia dell'ordinanza di conversione della pena pecuniaria rateale per il solo fatto dell'inutile decorso del tempo fissato nel precetto per il pagamento di essa, senza che debba procedersi ad alcun accertamento sulla situazione patrimoniale del condannato e nonostante che costui, per essere sottoposto a procedura fallimentare, non possa giuridicamente disporre dei propri beni e legittimamente provvedere al pagamento, incorrendo altrimenti nel reato di bancarotta fraudolenta (art. 216 l. fall.).

Ad avviso del giudice a quo, non sarebbe invocabile la citata sent. n. 149/1971, essendo essa intervenuta in una fattispecie che "aveva richiesto l'accertamento dell'insolvibilità all'inizio del procedimento d'esecuzione forzata".

Il dubbio d'incostituzionalità nascerebbe invece dal rapporto tra la posizione dei condannati a pena rateale, che si trovano in stato fallimentare dichiarato in epoca posteriore alla pronuncia di condanna, e quella degli altri genericamente inadempienti, cui sia stata parimenti concessa la rateazione: equiparazione che - secondo il Pretore rimettente - sarebbe illegittima, in quanto questi ultimi si sottraggono volontariamente al pagamento della pena pecuniaria, mentre i primi sono nella giuridica impossibilità di farlo, atteso che per giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione il credito dell'Erario per le pene pecuniarie non viene generalmente ammesso al passivo fallimentare.

6. - Intervenendo sul giudizio così instaurato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri, l'Avvocatura dello Stato svolgeva rilievi analoghi a quelli enunciati nel precedente par. 4.

Nel quadro della nuova normativa sarebbe, ad avviso dell'interveniente, pienamente giustificato un meccanismo di conversione automatica, che prescinde dall'accertamento delle ragioni dell'inadempienza e quindi della causa della insolvibilità del condannato.

Considerato in diritto

1. - Le tre ordinanze di rimessione sottopongono alla Corte questioni analoghe o comunque connesse, sì che i relativi giudizi possono essere riuniti e decisi con un'unica sentenza.

2. - Il magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Firenze impugna, in riferimento all'art. 3 Cost., l'art. 107 della legge 24 novembre 1981, n. 689, "nella parte in cui prevede che si applichi la libertà controllata e che si determinino le modalità di esecuzione a seguito della trasmissione del provvedimento di conversione di pena pecuniaria".

Come risulta chiaramente dalla parte motiva dell'ordinanza, però, la censura concerne in realtà non la disciplina - contenuta nel citato art. 107 - attinente alla determinazione delle modalità di esecuzione della libertà controllata o del lavoro sostitutivo, demandata al magistrato di sorveglianza, bensì la previsione della conversione in dette misure della pena pecuniaria, di cui agli artt. 101, ultima parte e 102 della medesima legge. Ciò che il giudice a quo lamenta é, infatti, che "sulla base dell'unico elemento dell'accertata insolvibilità del condannato" sia prevista l'irrogazione di una misura, come la libertà controllata, "decisamente più afflittiva della pena pecuniaria originaria". Poiché i compiti attribuiti al magistrato di sorveglianza presuppongono che la conversione sia già stata disposta, e poiché competente a provvedere al riguardo - ai sensi dell'art. 586, sesto comma, c.p.p. (nel testo sostituito con l'art. 106 l. cit.) - é l'organo dell'esecuzione (pubblico ministero o pretore), la questione sollevata, in quanto investe la legittimità di un provvedimento già da altri emanato in via definitiva, é palesemente irrilevante e va perciò dichiarata inammissibile.

3. - Quanto all'ordinanza 14 dicembre 1982 del Pretore di Foligno, va anzitutto esaminata l'eccezione sollevata dall'Avvocatura dello Stato, la quale contesta la legittimazione di tale organo a proporre la questione, assumendo che il pretore, nel provvedere ai sensi del citato art. 586, sesto comma, c.p.p., eserciterebbe una funzione meramente esecutiva e non decisoria e che un dubbio di costituzionalità al riguardo potrebbe essere prospettato solo nella successiva fase, sicuramente giurisdizionale, dell'opposizione al provvedimento di conversione della pena pecuniaria.

Siffatta tesi é stata già implicitamente disattesa con le sentenze nn. 149/1971 e 131/1979, in quanto in esse la Corte esaminò nel merito questioni concernenti (tra l'altro) l'originario testo dell'art. 586, quarto comma, c.p.p. - sostanzialmente corrispondente, per quanto qui interessa, al sesto comma del medesimo articolo, nel testo oggi vigente - che erano state sollevate da pretori chiamati a provvedere alla conversione.

Tale indirizzo va qui ribadito e esplicitato. Il provvedimento di conversione non può ritenersi atto meramente esecutivo della pronuncia giurisdizionale di condanna, posto che questa ne costituisce solo uno dei presupposti. Perché la conversione possa essere legittimamente disposta occorre, infatti, che si verifichino due ulteriori condizioni, formanti entrambe oggetto di accertamento da parte dell'organo dell'esecuzione: e cioè, da un lato, che la pena pecuniaria irrogata sia rimasta insoluta e, dall'altro, che si sia verificata - con le modalità che saranno meglio precisate più oltre - la sussistenza di una effettiva condizione di insolvibilità del condannato. É perciò innegabile la natura decisoria del provvedimento che a tali accertamenti consegue, dato da un giudice a seguito di un procedimento svoltosi innanzi a lui (cfr. sent. n. 53/1968).

4. - Il Pretore di Foligno impugna l'intero complesso normativo risultante dagli artt. 136 c.p. e 586 c.p.p. (nel testo sostituito, rispettivamente, con gli artt. 101, ultima parte, e 106 della legge n. 689/1981), 102, 103, 105 e 107 della medesima legge "nei termini delineati nella parte motiva" dell'ordinanza di rimessione. Le censure in questa prospettate si incentrano sul "contenuto fortemente afflittivo" che, ad avviso del giudice a quo, caratterizza "tanto il lavoro sostitutivo quanto soprattutto la libertà controllata": alla quale ultima ineriscono prescrizioni che sarebbero "fortemente limitative persino di alcuni diritti soggettivi pubblici connessi alla libertà personale e costituzionalmente garantiti, come i diritti di soggiorno, di circolazione nel territorio nazionale e del diritto di emigrazione, sanciti dall'art. 16 della Costituzione". Anche le nuove modalità di esecuzione dell'istituto della conversione della pena pecuniaria - quali configurate dalla legge n. 689/1981 a seguito della declaratoria d'illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 131 del 1979 di questa Corte - darebbero luogo, quindi, ad un "aggravamento delle condizioni del condannato" rispetto alla valutazione fatta dal giudice di cognizione: sicché si sarebbe in presenza di "uno strano quanto irrazionale ed ingiustificato ritorno... alla situazione legislativa" preesistente a tale sentenza.

Più specificamente, la dedotta violazione del principio di cui all'art. 3 Cost. rileverebbe, secondo il Pretore rimettente, sotto un duplice profilo: da un lato, perché il denunziato aggravamento delle condizioni del condannato dipenderebbe "ancora una volta... unicamente dalla sua insolvibilità", sicché costui sarebbe discriminato "rispetto ai cittadini abbienti" in ragione della sua condizione sociale; dall'altro lato, perché, anche con la nuova disciplina, la conversione si configurerebbe "come conseguenza indifferibile ed automatica della impossibilità di adempimento", cosicché sarebbe censurabile, in riferimento all'anzidetto parametro, anche il "meccanismo processuale" configurato dalle norme impugnate.

Procedendo - alla stregua delle motivazioni addotte nell'ordinanza - all'enucleazione delle censure in riferimento all'indistinto complesso delle disposizioni impugnate, deve concludersi che esse si sostanziano in un triplice ordine di questioni, che vanno perciò partitamente esaminate.

In primo luogo, é impugnata la normativa sostanziale della conversione, quale disciplinata dagli artt. 136 c.p., 102, 103 e 105 l. n. 689/1981.

Per quanto attiene al meccanismo processuale, la cui disciplina é contenuta negli artt. 586 c.p.p. (nuovo testo) e 107 l. cit., le censure coinvolgono specificamente, per un verso, il sesto comma dell'art. 586, in quanto ritenuto implicante l'automatica operabilità della conversione in conseguenza dell'impossibilità di adempimento; per un altro verso, oltre al sesto, anche il settimo comma del medesimo articolo, dovendosi logicamente ritenere che col riferimento all'indifferibilità della conversione il giudice a quo abbia inteso censurare anche l'eseguibilità del provvedimento di conversione pur in pendenza di una proposta opposizione (che, come detta disposizione precisa, non ha effetto sospensivo).

5. - L'assunto del Pretore rimettente secondo cui la nuova disciplina sostanziale della conversione, prevedendo l'irrogazione di sanzioni pur sempre limitative della libertà personale e perciò più afflittive dell'originaria pena pecuniaria, segnerebbe un sostanziale ritorno alla disciplina ritenuta costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 131/1979, muove da una considerazione parziale, e per ciò stesso errata e fuorviante, della motivazione che sorregge quella pronuncia. La quale, invero, perviene alla declaratoria d'illegittimità costituzionale degli artt. 136 c.p. e - in via conseguenziale - 586, quarto comma, c.p.p., in base alla conclusiva considerazione per cui "appare insanabilmente contraddittorio pretendere di fondare la soddisfazione del principio di uguaglianza di fronte al reato e alla pena, proprio sul sacrificio dell'uguaglianza stessa, introducendo una discriminazione determinata unicamente dalle condizioni economiche del condannato". Ma poco dopo, e nello stesso contesto (par. 8), la sentenza precisa che "con ciò non si vuole certamente escludere la possibilità di garantire l'effettiva uguaglianza dei cittadini di fronte alla sanzione penale, in particolare pecuniaria. Spetterà al legislatore assicurarla, adottando, nella sua discrezionalità, gli opportuni strumenti normativi, ad esempio secondo le linee di tendenza sopra richiamate e che il legislatore stesso ha già dimostrato di voler prendere in considerazione".

É, questo, un esplicito richiamo ad un progetto di riforma (d.l. n. 1799 - VII legislatura) che, unitamente ad altre misure - tra le quali anche l'ammissione al lavoro libero - la Corte aveva analiticamente illustrato (par. 4) quali strumenti di un possibile, tendenziale adeguamento al principio d'uguaglianza. Tale progetto, e quelle misure, furono poi, come é noto, tradotte nella legge n. 689/1981, nei cui lavori preparatori la considerazione delle indicazioni della Corte é largamente presente e che contiene, appunto, una serie di strumenti volti a realizzare quell'adeguamento: dalla valutazione delle condizioni economiche del reo in sede di commisurazione della pena pecuniaria, alla riduzione sino ad un terzo del minimo di questa, alla possibilità di pagamento rateale fino a 30 mesi (art. 100); dalla sostanziale modificazione degli indici di ragguaglio tra pena pecuniaria e detentiva (art. 101), alla previsione della conversione non più in pena detentiva, ma in libertà controllata o lavoro sostitutivo, con la fissazione di tetti massimi di durata di tali misure (artt. 102 e 103); alla previsione, ancora, in caso d'insolvibilità del condannato, di un'obbligazione civile in capo alle persone ed enti sotto la cui autorità, direzione o vigilanza, ovvero nel cui interesse il reato sia stato commesso (art. 116. modificativo degli artt. 196 e 197 c.p.), ecc.

6. - Il vero é che la sentenza n. 131/1979 non considerò costituzionalmente illegittima ogni forma di conversione; ciò che, dato il sostanziale svuotamento della funzione intimidatrice della pena pecuniaria che conseguirebbe ad una previsione d'inconvertibilità, sarebbe stato in contrasto con la positiva considerazione degli "indubbi vantaggi" (par. 8; ma cfr. anche par. 4) che l'adozione di essa comporta. Illegittima fu ritenuta quella particolare configurazione della conversione, "retaggio di concezioni arcaiche", contenuta nel codice del 1930: e ciò sia per i suoi effetti sostanziali di privazione della libertà personale, sia per l'automatismo del meccanismo processuale adottato. Né fu estranea alle valutazioni della Corte la considerazione delle esigenze connesse al carattere di inderogabilità della pena, essendosi anzi espressamente fatto richiamo tanto alla "doverosa salvaguardia del fondamentale interesse dello Stato ad un uguale possibilità di funzionamento del sistema penale nei confronti di tutti i destinatari", quanto alla necessità della "minaccia di conversione" "a fine di prevenzione generale e speciale" (par. 8).

Ma, atteso "l'inconveniente di una disuguale afflittività" tra pena pecuniaria e pena convertita, la decisione in esame - in ciò discostandosi notevolmente dalla precedente sentenza n. 29/1962 - ritenne che il principio di inderogabilità non potesse far premio sul fondamentamentale principio d'uguaglianza fino al punto di legittimare la conversione della pena (pecuniaria) meno afflittiva in quella (detentiva) che lo é in ben maggiore grado: ed all'uopo indicò appunto - quali esempi di un più equilibrato bilanciamento - altre misure alternative alla pena detentiva, come quelle poi previste nella legge n. 689/1981.

Nemmeno, poi, la Corte trascurava il pericolo - particolarmente evidente in riferimento a taluni reati tradizionalmente puniti con pene pecuniarie proporzionali anche elevate, come il contrabbando - che, mancando la minaccia di conversione, "il condannato possa essere indotto a precostituire volontariamente una situazione d'insolvenza" (par. 8); anzi a tal riguardo é espressamente additata nella sentenza un'ipotesi di fattispecie sanzionatoria poi puntualmente recepita dal legislatore (cfr. art. 109 l. n. 689/1981).

7. - Una considerazione complessiva della disciplina contenuta nella legge n. 689/1981 porta dunque a concludere che essa - lungi dal riprodurre sostanzialmente la situazione anteriore alla sentenza n. 131/1979 - costituisce in buona misura attuazione del bilanciamento di valori costituzionali prefigurato da questa.

Vero é che il legislatore non ha ritenuto di adottare quei "meccanismi di adeguamento alle concrete condizioni economiche dei condannati" (par. 8) che meglio potrebbero - ad avviso della Corte (par. 4) - "tendere ad una uguaglianza sostanziale della pena pecuniaria perché proporzionale alle risorse" dei medesimi. Ma é anche vero, da un lato, che ciò fu dovuto a difficoltà pratiche - quali la mancanza di efficaci e rapidi strumenti di accertamento del reddito effettivo dei cittadini - che non possono ragionevolmente essere sottovalutate; e, dall'altro, che una riconsiderazione del problema non é stata affatto esclusa, ma esplicitamente considerata nel caso che quelle difficoltà siano avviate a soluzione (cfr. la Relazione della Commissione ministeriale per la riforma della normativa in materia di conversione di pene pecuniarie).

Per quanto, poi, più specificamente attiene alle censure svolte nell'ordinanza di rimessione, la complessiva considerazione dei valori in gioco - quale risulta dalle sopra illustrate enunciazioni della sentenza n. 131/1979, e che va qui ribadita - comporta che non sia concretamente evitabile né la previsione di misure succedanee alla pena pecuniaria non corrisposta per insolvibilità, né che queste possano incorporare, rispetto a quella, un margine di maggiore afflittività. Il preminente rilievo che, nel bilanciamento, va assegnato al principio d'uguaglianza implica però che si debbano adottare misure sostituitive che riducano al minimo possibile tale divario, e che nel contempo si adottino disposizioni che, agevolando l'adempimento della pena pecuniaria e rendendo effettivo il controllo sulla sussistenza di reali situazioni d'insolvibilità, circoscrivano nella massima misura possibile l'area di concreta operatività della conversione: il che si rende necessario anche al fine di pervenire ai risultati additati dal secondo comma dell'art. 3 Cost., il cui essenziale rilievo nella materia in questione é stato già sottolineato nella sentenza n. 131/1979 (par. 8).

8. - Del secondo degli aspetti ora accennati si dirà in seguito. Quanto al primo, é da ricordare che nella sentenza n. 131/1979 - anche in base alle valutazioni della dottrina ed alle esperienze straniere - si indicò nel lavoro sostitutivo, poi previsto dall'art. 105 l. n. 689/1981, la misura che restringe al massimo l'aggravio di pena connesso alla conversione, e che nel contempo - si aggiunge - é in grado di esplicare una funzione rieducativa. Nella stessa sentenza si avvertiva però che tale misura - già contemplata nell'ordinamento penitenziario (art. 21 l. n. 354/1975) ed ancor prima nel codice del 1889 (art. 19) - "é rimasta sin qui totalmente inattuata per mancanza dei necessari supporti organizzativi" (par. 4). Porre rimedio a tali deficienze é, per le ragioni anzidette, un preciso dovere delle autorità competenti. Ma per l'intanto, ed allo stato, non può ritenersi ingiustificato che il legislatore del 1981, dato il perdurare di quelle carenze, si sia indotto ad affiancare al lavoro sostitutivo una misura, come la libertà controllata, che - anche per certe discutibili previsioni della sua concreta disciplina (art. 56) - é certo di esso maggiormente afflittiva, ed alla quale dovrà perciò competere un ruolo sussidiario e non, come oggi accade, prevalente.

Alla stregua delle considerazioni svolte, ed al di là di eventuali diversi giudizi su singole previsioni non costituenti qui oggetto di specifica impugnativa, le censure mosse alle disposizioni finora esaminate vanno, perciò, dichiarate infondate.

9. - Le due ulteriori censure, attinenti al meccanismo processuale (art. 586, sesto e settimo comma, c.p.p. cfr. par. 4), vanno esaminate alla stregua del secondo dei criteri enunciati alla fine del par. 7.

Al riguardo, va ricordato che la Corte, nella sentenza n. 131/1979, non esaminò ex professo le censure mosse al vecchio testo dell'art. 586 c.p.p. e che allora specificamente concernevano la mancata previsione di un procedimento in contraddittorio con il condannato: l'inscindibile nesso tra la norma sostanziale (art. 136) e quella processuale comportò infatti che tali impugnative dovessero ritenersi assorbite per effetto della caducazione della prima.

Sulle censure ora in esame (automatismo ed indifferibilità della conversione), la Corte si pronunziò esplicitamente: e considerò che " nel momento in cui, esclusivamente per la accertata insolvibilità del condannato, si deve procedere, in sede di esecuzione, indifferibilmente ed in modo automatico, alla conversione della pena pecuniaria in pena detentiva, viene a prospettarsi una lesione del principio di uguaglianza in materia penale" (par. 6). Tale giudizio va qui ribadito, pur se oggi la disciplina complessiva é mutata e, soprattutto, ben diverse sono le pene (alternative alla detenzione) in cui quella pecuniaria é convertita: ed é in riferimento ad esso, ed alla stregua del criterio su enunciato, che vanno esaminate le disposizioni impugnate.

10. - Se ci si limita al suo tenore letterale, il nuovo testo dell'art. 586 c.p.p. non differisce da quello previgente, salvo le variazioni connesse all'introduzione del pagamento rateale della pena pecuniaria e di differenti misure sostitutive di essa, ed all'attribuzione al magistrato di sorveglianza delle determinazioni concernenti le modalità di esecuzione di queste.

Inoltre, la normativa tuttora vigente in tema di conversione di pena pecuniaria prevede, nel caso di mancato pagamento, ed a seguito di pignoramento negativo, che il cancelliere del giudice dell'esecuzione proceda ad ulteriori accertamenti, consistenti nell'acquisizione di certificati dell'autorità comunale, del procuratore delle imposte e dell'ufficio di polizia tributaria del luogo ove il condannato o la persona civilmente obbligata per l'ammenda ha il domicilio o la residenza o del luogo ove si ritiene che l'uno o l'altro abbia beni o cespiti di reddito (art. 40 disp. att. c.p.p.). Se si tratti di persona "notoriamente insolvibile anche per tenue somma", l'ufficiale giudiziario ne rilascia al cancelliere apposita attestazione (art. 115 d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229).

Alla stregua dell'ordinamento previgente, ben poteva affermarsi che il provvedimento di conversione seguisse automaticamente a siffatti accertamenti e si risolvesse in un'acritica ricognizione del loro esito: a favore di tale conclusione deponevano e la ritenuta natura amministrativa del provvedimento ed il suo carattere meramente esecutivo della sentenza di condanna.

A diversa conclusione si perviene, invece, inquadrando le disposizioni in discorso nel nuovo sistema normativo ed interpretandole alla stregua dei principi dianzi affermati.

Innanzitutto, che il provvedimento di conversione non sia meramente esecutivo della sentenza di condanna lo si arguisce agevolmente - come già rilevato - dal fatto che esso, alla stregua dello stesso tenore dell'art. 586, sesto comma, presuppone non solo la condanna ma anche l'accertamento del mancato pagamento della pena pecuniaria irrogata e, soprattutto, quello dell'insolvibilità del condannato. Dipendendo la legittimità del provvedimento dalla effettiva sussistenza di tali presupposti, non é concepibile che il compito dell'organo dell'esecuzione si risolva in un'acritica presa d'atto dell'operato di altri organi: e che quindi gli sia precluso, ad esempio, il sindacato sulla sufficienza degli elementi posti a base dell'attestazione dell'ufficiale giudiziario di notorietà dell'insolvibilità, ovvero sulla congruità delle indagini volte a verificare l'eventuale esistenza di altri luoghi, diversi dal domicilio e dalla residenza, ove "si deve ritenere" che il condannato possieda beni o cespiti di reddito. Basterebbe, del resto, por mente ai problemi che può comportare la stessa identificazione delle persone od enti civilmente obbligati per l'ammenda alla stregua del nuovo testo degli artt. 196 e 197 c.p. - la cui accertata insolvibilità é pure presupposto di legittimità della conversione - per rendersi conto che non può non spettare all'autorità giudiziaria il sindacato sull'eventuale erroneità dell'attività del cancelliere. E del resto, la legittimità del provvedimento comporta anche accertamenti di ordine diverso, quali ad es. quelli relativi all'eventuale estinzione del reato o della pena pecuniaria o all'eventuale computo della pena presofferta a titolo diverso.

Tutto ciò da un lato dà ragione del già rilevato carattere decisorio del provvedimento (cfr. par. 3), del resto confermato dal suo assoggettamento al rito degli incidenti di esecuzione (art. 586, ult. comma); dall'altro concorre a far ritenere - secondo quanto sostenuto dalla più recente dottrina - che ad esso debba assegnarsi natura giurisdizionale: conclusione, questa, che trova conferma non tanto nel fatto che dalle suesposte considerazioni discende che il provvedimento deve essere motivato (e che esso assume, quindi, la forma dell'ordinanza); quanto, soprattutto, nell'assorbente rilievo che trattasi di provvedimento dell'autorità giudiziaria limitativo della libertà personale.

All'anzidetta natura del provvedimento di conversione si connette, d'altra parte, un'ulteriore precisazione in ordine al potere-dovere dell'organo dell'esecuzione, visto, questa volta, alla luce del principio d'inderogabilità della pena. Poiché questo impone, innanzitutto, che si dia esecuzione alla pena normativamente prevista e concretamente irrogata, e che alla pena sostitutiva si faccia luogo solo ove ciò risulti effettivamente impossibile per insolvibilità del condannato, é chiaro che deve ritenersi demandata a tale organo - preposto all'applicazione della legge - e non certo all'organo ausiliario, l'indagine sul se di insolvibilità reale si tratti, ovvero se per avventura essa non sia simulata e fraudolenta. La rilevante differenza rispetto alla passata disciplina in termini sia di afflittività delle misure sostitutive, sia di parametri di ragguaglio tra queste e la pena pecuniaria, sia di limiti massimi delle misure medesime rendono concreto il pericolo che, in certi casi (si pensi a talune ipotesi di pene proporzionali), il condannato possa ritenere preferibile soggiacere alla pena sostitutiva piuttosto che a quella pecuniaria. Il problema é stato considerato dal legislatore del 1981, che ha all'uopo configurato la nuova fattispecie criminosa di cui all'art. 388 ter c.p.; ma ciò, lungi dall'attenuare l'esigenza di siffatte indagini, pone in risalto la necessità che ad esse si addivenga prima della conversione, onde impedire che siano frustrate le esigenze di effettiva esecuzione della pena primaria irrogata e di integrale soddisfazione del conseguente credito erariale.

11. - Tanto precisato in riferimento alla censura concernente l'automatismo della conversione, deve ancora rilevarsi che non meno importanti sono i riflessi che la nuova normativa induce in relazione alla dedotta indifferibilità della conversione.

Al riguardo, nella sentenza n. 131/1979 si é precisato che occorre "evitare di confondere il concetto di inderogabilità della pena" con quello "della sua differibilità in presenza di situazioni che appaiono meritevoli di considerazione", concetti dalla cui "pratica equiparazione" "deriva la valutazione statica ed immutabile dell'insolvibilità".

Rispetto alla situazione normativa allora considerata dalla Corte, il legislatore del 1981 ha introdotto una rilevante modificazione, consentendo al giudice di cognizione di disporre il pagamento rateale (da tre a trenta mesi) della pena pecuniaria: con ciò correggendo, in questa fase, la staticità della valutazione dell'insolvibilità ed introducendo l'opposto criterio - ispirato al principio di uguaglianza - della distinzione tra insolvibilità e temporanea difficoltà di pagamento.

Analoga distinzione il legislatore non ha ritenuto di prevedere espressamente per quanto attiene alla fase esecutiva. Ma ha mantenuto in vita una norma (art. 237 della Tariffa penale: r.d. 23 dicembre 1865, n. 1701) che consente all'Intendenza di Finanza - su parere dell'organo dell'esecuzione (Procuratore della Repubblica o Pretore) - ovvero al Ministro - ove l'Intendente dissenta da tale parere - di dilazionare o rateizzare (fino a sei anni) il pagamento della pena pecuniaria, sia pur soltanto in favore di chi dimostri la propria solvibilità "con certificati di catasto o di ipoteche" ovvero presenti un fideiussore.

Trattasi evidentemente - come si osservò nella sentenza n. 131/1979 - di norma ancorata "ad una prospettazione ottocentesca del patrimonio personale, propriamente tale solo se consistente in beni immobili"; ed é bene ricordare che essa fu a suo tempo impugnata, in riferimento all'art. 3 Cost., proprio in quanto richiedeva tali garanzie immobiliari o personali; senza che peraltro questa Corte potesse pronunciarsi nel merito, in ragione della natura amministrativa del procedimento e della carenza di potere decisorio dell'organo dell'esecuzione rimettente, ivi chiamato ad esprimere un parere (sent. n. 81/1970).

Che tale disposizione sia stata mantenuta nel sistema é significativo segno dell'intenzione del legislatore di consentire che il pagamento della pena pecuniaria sia dilazionato nella fase esecutiva e di non porre ciò in alternativa rispetto alla rateizzazione prevista in fase di cognizione; e d'altra parte, é verosimile che la sua mancata modifica sia almeno in parte frutto dell'allora prevalente concezione del procedimento di conversione della pena pecuniaria come procedimento amministrativo e meramente esecutivo, con il quale poteva dunque ritenersi armonizzabile la procedura testé descritta.

Il problema va ora riesaminato in chiave sistematica, alla luce della già chiarita presenza di elementi di giurisdizionalità nel procedimento di conversione, della natura giurisdizionale del relativo provvedimento conclusivo e del sopraenunciato criterio - discendente dal principio d'uguaglianza - che impone di agevolare l'adempimento della pena pecuniaria onde circoscrivere nella massima misura possibile l'area di concreta operatività della conversione (cfr. par. 7).

La permanenza nel sistema del principio - deducibile dal citato art. 237 - della concedibilità di dilazioni o rateizzazioni di pagamento nella fase esecutiva comporta che il concetto d'insolvibilità di cui all'art. 586, sesto comma, c.p.p. vada interpretato come distinto da quello di temporanea difficoltà di pagamento - sulla scorta, del resto, di quanto già precisato, a proposito dell'analoga distinzione tra insolvibilità e insolvenza, nella sentenza n. 149 del 1971 - e che, quindi, la conversione possa essere differita in presenza di situazioni di mera insolvenza che appaiano meritevoli di considerazione. Le esigenze di coordinamento con la rateizzabilità in fase di cognizione comportano, naturalmente, che deve trattarsi di difficoltà insorte successivamente alla pronuncia di condanna e da questa non considerate; e tale facoltà va - naturalmente - riconosciuta all'organo dell'esecuzione nei limiti risultanti dai criteri ora enunciati. Ma sarebbe evidentemente irragionevole che una facoltà riconosciuta ad un organo amministrativo sia negata all'autorità giudiziaria investita di potere decisorio in materia di conversione. Anzi, proprio questa circostanza comporta che tale potere non possa ritenersi assoggettato alle condizioni (prestazione di garanzie reali o personali) che circoscrivono quello del primo.

La conclusione cui in tal modo si perviene é coerente ad un indirizzo già altre volte affermato, a diverso proposito, da questa Corte (cfr. sentt. nn. 139/1982 e 249/1983): che cioè, laddove si verifichino variazioni significative delle condizioni essenziali valutate nella fase di cognizione e poste a base della relativa pronuncia, occorre che esse siano riconsiderate nella fase successiva affinché la sanzione irrogata risulti adeguata al modello legale nel momento in cui vi si dà effettiva esecuzione: il che comporta che, entro i limiti posti dal principio di legalità, debbano ritenersi consentite - anzi, imposte - quelle modificazioni o quegli adattamenti idonei a soddisfare in concreto l'esigenza di individualizzazione della pena (art. 27, terzo comma, Cost.).

Alla stregua delle suesposte considerazioni, le censure mosse al sesto comma dell'art. 586 c.p.p. in punto di automaticità ed indifferibilità della conversione vanno dichiarate infondate.

12. - A diversa conclusione deve invece pervenirsi in ordine al settimo comma dell'art. 586 c.p.p., il quale prevede - con una formula rimasta inalterata rispetto al testo previgente - che avverso il provvedimento di conversione l'interessato possa proporre opposizione secondo il rito degli incidenti di esecuzione, senza che però essa abbia effetto sospensivo.

L'esclusione - in deroga alle regole generali - dell'effetto sospensivo dell'opposizione é la manifestazione estrema della rigida e meccanicistica concezione del principio di inderogabilità della pena tipico dell'ordinamento previgente, principio che dall'insolvibilità fa discendere in modo automatico ed immediato non solo la conversione ma anche l'esecutività immediata di essa, in coerenza, del resto, con l'allora ritenuto carattere amministrativo ed esecutivo del provvedimento. Riproducendola pedissequamente, il legislatore del 1981 ha, per questa parte, contraddetto i principi ispiratori della riforma, quali discendevano dalle enunciazioni della sentenza n. 131/1979 e che si sono più sopra precisati: non avvertendo, oltretutto, l'incongruenza di prevedere il contemporaneo svolgimento di due procedimenti dagli esiti potenzialmente opposti, l'uno davanti al giudice degli incidenti di esecuzione e l'altro davanti al magistrato di sorveglianza, con la conseguenza che la pronuncia resa nell'uno può vanificare quella adottata nell'altro.

La discriminazione cui la disposizione dà luogo non appare sorretta da alcuna apprezzabile ragione: innanzitutto, perché nessun serio pregiudizio alla realizzazione della pretesa punitiva dello Stato può derivare dalla dilazione conseguente all'incidente; in secondo luogo, perché il contorto richiamo alla relativa procedura operato attraverso il rinvio all'art. 582 c.p.p. appare diretto a scoraggiare l'opposizione con la minaccia - di certo grave per chi versi in disagiate condizioni economiche - dell'irrogazione di una (ulteriore) sanzione pecuniaria nel caso in cui l'incidente appaia manifestamente infondato (cfr. il terzo comma, ultima parte, dell'art. cit.); in terzo luogo, e soprattutto, perché i tempi tecnici di definizione della procedura incidentale possono avere effetti irreparabilmente pregiudizievoli per l'interessato laddove - come spesso accade - la pena sostitutiva da espiare sia di breve durata: il che é tanto più grave, in quanto é nell'incidente che il condannato può per la prima volta esporre le proprie ragioni.

Il settimo comma dell'art. 586 c.p.p. deve perciò essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui esclude che l'opposizione al provvedimento di conversione della pena pecuniaria abbia effetto sospensivo.

13. - Deve ora esaminarsi la questione di legittimità costituzionale del quinto comma del medesimo art. 586 c.p.p. (nel testo sostituito con l'art. 106 l. n. 689/1981) sollevata in riferimento all'art. 3 Cost. dal Pretore di Prato con ordinanza del 22 novembre 1984 (r.o. 12/85).

La nuova disciplina, come già si é accennato, ha introdotto nell'ordinamento il nuovo istituto del pagamento rateale delle pene pecuniarie, che può essere disposto dal giudice della cognizione "in relazione alle condizioni economiche del condannato". Le rate possono essere da tre a trenta, ma ciascuna non inferiore a lire trentamila (art. 133 ter c.p.p.). In relazione a tale ipotesi, il nuovo testo dell'art. 586 c.p.p. prevede, al secondo comma, che le vigenti disposizioni nell'esecuzione delle pene pecuniarie si osservino solo "in quanto applicabili" e che l'avviso di pagamento ed il precetto contengano anche l'indicazione dell'importo e della scadenza delle singole rate; ed al quarto comma, che, nel caso in cui la pena pecuniaria rateizzata sia applicata con decreto, il precetto dovrà ingiungere di pagare entro cinque giorni dalla scadenza di ogni singola rata. Il precetto é quindi unico, e non deve essere ripetuto per ogni singola rata.

Il quinto comma della disposizione prevede poi che, "quando sia decorso inutilmente il tempo fissato per il pagamento della pena rateale, il pubblico ministero od il pretore ordina la conversione della pena pecuniaria per la parte corrispondente".

Secondo quanto é stato rilevato in dottrina, quest'ultima norma, anche in collegamento con la riserva contenuta nel secondo comma, comporta:

a) che alla conversione si proceda senza previo esperimento della procedura di esecuzione forzata;

b) che la conversione segua al mancato pagamento di ogni singola rata mensile e limitatamente a questa, sicché l'eventuale conversione dell'intero é disposta con più provvedimenti successivi;

c) che, in deroga alle regole generali (artt. 136 e 586, sesto comma, c.p.p.), la conversione, in questo caso, non presuppone l'insolvibilità del condannato ed avviene quindi a prescindere dall'accertamento di essa, sulla sola base del mancato pagamento.

In altri termini, qui presupposto della conversione non é più l'insolvibilità ma l'insolvenza.

14. - Questa Corte, con la sentenza n. 149 del 1971, ha escluso che possano legittimamente equipararsi, essendo "situazioni del tutto diverse", "l'insolvibilità - che é un dato di fatto oggettivo" - "e l'insolvenza - mera situazione contingente, condizionata e, talvolta, provvisoria": ed ha perciò statuito che, nei confronti di chi, come il fallito, si trovi nell'impossibilità giuridica di pagare, la conversione non può operare prima della chiusura del fallimento.

La Corte ha osservato, al riguardo, che la conversione sarebbe subita a torto se il fallimento venisse in seguito revocato; e che in varie ipotesi - chiusura rapida del fallimento, concordato, possibilità di pagare grazie ai guadagni conseguiti in pendenza del fallimento - la dilazionata convertibilità "consentirebbe allo Stato di realizzare quanto dovutogli, sia pure con qualche ritardo".

In riferimento ad una fattispecie di omesso pagamento di una rata di pena pecuniaria da parte di persona fallita in epoca successiva alla condanna, il Pretore di Prato dubita che il citato quinto comma dell'art. 586 c.p.p. violi il principio di uguaglianza in quanto "impone la pronuncia di ordinanza di conversione della pena pecuniaria automaticamente di seguito dell'omissione del pagamento nel termine rateale"; e ciò - osserva il Pretore - anche nel caso di sopravvenuta impossibilità giuridica di pagare, conseguente a fallimento, il che comporta un'ingiustificata discriminazione rispetto a chi si sottrae volontariamente all'esecuzione della pena pecuniaria rateizzata.

La questione, così come prospettata, solo apparentemente si incentra su quest'ultimo profilo. Ponendo un problema di accertamento delle cause del mancato pagamento (per impossibilità giuridica, od altro), il giudice a quo contesta che ad esso possa seguire "automaticamente" la conversione; e nel contempo, rappresentando la particolare situazione di chi sia fallito successivamente alla condanna, pone in questione l'indifferibilità della conversione che a quell'automatismo necessariamente consegue nel congegno predisposto dalla norma impugnata; e, correlativamente, prospetta in positivo l'esigenza che si possa far luogo a dilazioni di pagamento in relazione a situazioni meritevoli di tutela (nel caso, il fallimento) intervenute dopo la pronuncia di condanna.

In definitiva, l'ordinanza pone il quesito se anche per le pene rateizzate non debba richiedersi l'accertamento, oltre che del mancato pagamento, anche dell'insolvibilità e se pur in tal caso l'insolvibilità non debba essere distinta dalla temporanea difficoltà al pagamento; se, quindi, la disciplina della conversione delle pene pecuniarie rateali non debba essere ricondotta nell'ambito della regola generale dettata dal sesto comma dell'art. 586 c.p.p., secondo il significato di questo più sopra precisato.

15. - La questione, così prospettata, é fondata.

Questa Corte é consapevole che la disciplina della conversione della pena pecuniaria rateale risponde all'esigenza di evitare appesantimenti delle relative procedure: ciò é comprensibile, ma non é sufficiente a giustificare che si prescinda in tal caso dall'accertamento dell'effettiva insolvibilità.

La rateizzazione, invero, é un meccanismo necessario per individualizzare la pena pecuniaria sì da adeguarne l'esecuzione al principio generale d'uguaglianza: non, quindi, un beneficio che possa trovare una sorta di compensazione in una disciplina processuale deteriore per chi versi in disagiate condizioni economiche.

Né può ritenersi che l'accertamento dell'insolvibilità sia da omettere in quanto già effettuato dal giudice di cognizione per il fatto stesso di aver disposto la rateizzazione, giacché questa, al contrario, presuppone che il condannato si trovi in difficoltà economiche ma non sia insolvibile.

D'altra parte, stante la già rilevata necessità di distinguere tra insolvibilità ed insolvenza, tra insolvibilità e temporanea difficoltà sopravvenuta di adempimento, é del tutto irragionevole che di ciò si tenga conto nei confronti di chi all'epoca della condanna risultava solvibile - e non abbia perciò fruito della rateizzazione - e non anche nei confronti di chi già allora si trovava in precarie condizioni economiche, e abbia perciò avuto frazionata l'esecuzione della pena.

Il disporre proprio nei confronti di questi una conversione immediata, automatica ed indifferibile contraddice palesemente al principio di uguaglianza.

Il quinto comma dell'art. 586 c.p.p. va perciò dichiarato costituzionalmente illegittimo, e conseguentemente la disciplina della conversione della pena rateale va ricondotta nella regola generale dettata nel comma successivo, con ciò restando assorbita la più specifica questione concernente la conversione nei confronti del fallito pure prospettata dal Pretore di Prato.

16. - La Corte é consapevole che, pur a seguito della presente sentenza, nella disciplina processuale della conversione permangono difetti che la rendono non pienamente adeguata ai principi costituzionali in materia, e che possono indirettamente frenare un più ampio ricorso alla pena pecuniaria, da molti auspicato: basti pensare, oltre a quanto già osservato, all'incongruenza, giustamente rilevata in dottrina, di una distinzione delle fasi della conversione - provvedimento di conversione e determinazione delle modalità esecutive di essa - demandate ad organi diversi, in cui la garanzia del contraddittorio é inversamente proporzionale all'incidenza dei provvedimenti da adottare sui diritti soggettivi del condannato; il che non sembra in armonia con la tendenza ad una piena giurisdizionalizzazione della fase esecutiva che emerge dai più recenti indirizzi legislativi (cfr. legge 10 ottobre 1986, n. 663). Una revisione in tal senso dell'attuale disciplina esula però dai limiti del presente giudizio incidentale, rientrando nella sfera di competenza del legislatore.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 107 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), sollevata in riferimento all'art. 3 Cost. dal magistrato di sorveglianza presso il Tribunale di Firenze con ordinanza del 3 luglio 1982 (r.o. 593/82);

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 136 c.p., 102, 103, 105 e 107 della legge 24 novembre 1981, n. 689 - il primo nel testo sostituito con l'art. 101 di detta legge - nonché dei primi quattro commi dell'art. 586 c.p.p., nel testo sostituito con l'art. 106 della medesima legge, sollevate in riferimento all'art. 3 Cost. dal Pretore di Foligno con ordinanza del 14 dicembre 1982 (r.o. 112/83);

3) dichiara la illegittimità costituzionale del quinto comma dell'art. 586 c.p.p., nella parte in cui non prevede che la conversione della pena pecuniaria rateale ivi disciplinata avvenga previo accertamento dell'insolvibilità del condannato e, se ne é il caso, della persona civilmente obbligata per l'ammenda;

4) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale del sesto comma dell' art. 586 c.p.p., sollevata in riferimento all'art. 3 Cost. dal Pretore di Foligno con la predetta ordinanza;

5) dichiara la illegittimità costituzionale del settimo comma dell'art. 586 c.p.p., nella parte in cui esclude che l'opposizione promossa avverso il provvedimento che ordina la conversione della pena pecuniaria abbia effetto sospensivo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 marzo 1987.

 

Il Presidente: LA PERGOLA

Il Redattore: SPAGNOLI

Depositata in cancelleria il 7 aprile 1987.

Il direttore della cancelleria: VITALE