Sentenza n. 29 del 1962
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SENTENZA N. 29

ANNO 1962

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Avv. Giuseppe CAPPI, Presidente

Prof. Gaspare AMBROSINI

Dott. Mario COSATTI

Prof. Francesco Pantaleo GABRIELI

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 630, primo comma, prima parte, del Codice di procedura penale, degli artt. 135 e 136 del Codice penale e dell'art. 586, ultimo comma, del Codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 17 dicembre 1960 dal Pretore di Cantù nel procedimento penale a carico di Puppo Benedetto, iscritta al n. 7 del Registro ordinanze 1961 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44 del 18 febbraio 1961.

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 24 gennaio 1962 la relazione del Giudice Biagio Petrocelli;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Chiarotti, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.  

Ritenuto in fatto 

Nel corso dell'incidente di esecuzione promosso da Puppo Benedetto a seguito dell'ordinanza che convertiva in giorni 100 di reclusione la multa di lire 40.000 inflittagli per emissione di assegno a vuoto, il Pretore di Cantù ha sollevato di ufficio, con ordinanza del 17 dicembre 1960, due questioni di legittimità costituzionale. La prima riguarda la legittimità dell'art. 630, primo comma, prima parte, del Codice di procedura penale che sarebbe in contrasto con la norma dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione la quale dichiara la difesa diritto inviolabile in ogni stato e grado del giudizio. Secondo il Pretore, infatti, posto che la norma impugnata prevede l'obbligo del giudice di nominare un difensore di ufficio soltanto per l'interessato che sia stato ammesso al gratuito patrocinio, ne deriva che se tale ammissione manca e l'interessato non ha nominato un difensore di fiducia, difetta la assistenza difensiva in sede di incidente di esecuzione.

La seconda questione concerne la conversione della pena pecuniaria in pena detentiva ai sensi degli artt. 135, 136 del Cod. pen. e 586, ultimo comma, del Cod. proc. penale. Tali norme sarebbero in contrasto con gli artt. 2, 3 e 13, primo comma, della Costituzione, in quanto la conversione della pena pecuniaria per insolvibilità del condannato si risolverebbe in una violazione del principio di eguaglianza dei cittadini, dei quali verrebbe operata una discriminazione in base a criteri meramente economici. Da una parte cioè sarebbero posti gli abbienti, in grado di assolvere l'obbligo della pena pecuniaria, e dall'altra tutti coloro, più numerosi, che, versando in stato di indigenza, vedono ingiustamente aggravata la loro posizione di condannati, col subire la reclusione o l'arresto in sostituzione della pena pecuniaria.

Nell'ordinanza si assume anche che siano violati i precetti di cui agli artt. 2 e 13 della Costituzione, non potendosi considerare la libertà personale dell'uomo come un quid valutabile con criteri prettamente monetari, oggettivamente arbitrari. Altro é la irrogazione immediata della pena detentiva per un certo reato, del quale un singolo si é reso responsabile, ed altro é la irrogazione della stessa pena "in sostituzione" di quella pecuniaria e che il condannato non é in grado di pagare.

L'ordinanza, notificata e comunicata, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 18 febbraio 1961, n. 44.

Il 18 gennaio si é costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, con atto di intervento e deduzioni dell'Avvocatura generale dello Stato. In queste deduzioni si sostiene essere infondate entrambe le questioni proposte. Quanto alla prima si osserva che il diritto di difesa deve intendersi come potestà effettiva dell'assistenza tecnica e professionale nello svolgimento del processo, mentre le modalità dell'esercizio sono regolate dalle specialità dei singoli procedimenti. Ne consegue che la norma dell'art. 630 del Cod. proc. pen. prevede la nomina del difensore di ufficio soltanto per chi é ammesso al gratuito patrocinio: ciò riguarda la modalità dell'esercizio del diritto di difesa, non il diritto stesso. Il diritto di difesa deve intendersi assicurato se sia rimesso alla determinazione della parte il farsi assistere da un difensore, il che, nella specie, non può essere posto in dubbio.

Circa la seconda questione l'Avvocatura, stabilito che, per il rapporto di specialità, l'art. 13 é assorbente in relazione all'art. 2 della Costituzione, sostiene, in relazione all'art. 3, che la ratio della conversione della pena pecuniaria in pena detentiva non può ricercarsi nell'intento del legislatore di determinare una disuguaglianza dei cittadini alla stregua delle loro condizioni sociali, alle quali, lato sensu, possono riferirsi le condizioni economiche. L'istituto della conversione tende a garantire il carattere di afflittività della pena, il quale viene meno in tutti i casi in cui la pena pecuniaria non é eseguita. É anzi da tener presente, secondo la Avvocatura, che proprio se si rifiutasse l'istituto della conversione si rischierebbe di violare l'art. 3 della Costituzione, in quanto la pena sarebbe eseguita soltanto per alcuni e non per altri. Di più: verrebbe costituzionalmente in discussione lo stesso istituto del la pena pecuniaria, il che spingerebbe il legislatore ad eliminare tale specie di pena, e il giudice ad irrogare soltanto pene detentive. Il principio di eguaglianza é da ritenersi osservato allorché certe norme sono poste non a privilegio di alcune categorie di cittadini o in odio ad altre, bensì per regolare situazioni che esigenze sociali vogliono siano ordinate in un certo modo.

Circa la presunta violazione dell'art. 13 l'Avvocatura osserva che la conversione della pena pecuniaria é disciplinata in astratto dalla legge ed é applicata con atto motivato del giudice, per cui non sussiste alcuna violazione del detto articolo.

Il 13 novembre 1961 l'Avvocatura ha depositato memoria illustrativa in cui vengono ribadite le argomentazioni di cui innanzi.  

Considerato in diritto 

1. - La prima delle due questioni, relativa alla legittimità costituzionale dell'art. 630 del Codice di procedura penale, é dalla ordinanza esplicitamente fondata sul concetto che l'assistenza del difensore sia "una componente indefettibile del diritto di difesa in senso ampio"; con la conseguenza che il difetto di tale assistenza nel procedimento per l'incidente di esecuzione sarebbe in contrasto col precetto del secondo comma dell'art. 24 della Costituzione.

La Corte ritiene che il diritto di difesa in senso ampio non si identifichi con la indefettibile assistenza del difensore. É da premettere che la invocata norma della Costituzione riguarda la difesa non soltanto nel procedimento penale, ma in ogni specie di procedimento, come chiaramente si desume dall'intero contenuto dell'art. 24, e poi in particolare dal comma terzo, concernente la assicurazione ai non abbienti dei mezzi per agire e difendersi davanti "ad ogni giurisdizione". Ora, nei vigenti nostri ordinamenti processuali il diritto alla difesa non si identifica sempre con la necessità dell'assistenza del difensore. Infatti, per tacere di altri casi, nel procedimento penale tale assistenza é obbligatoria nella fase del giudizio, ma non lo é nella istruzione (art. 124, 125 Cod. proc. pen.); e nel procedimento civile lo stare in giudizio senza l'assistenza del difensore é consentito per i giudizi davanti ai conciliatori, ed anche, a date condizioni, in quelli davanti ai pretori (art. 82 Cod. proc. civ.). Tali possibili limitazioni alla obbligatoria assistenza del difensore non costituiscono, a giudizio di questa Corte, violazioni del diritto alla difesa, il quale deve ritenersi garantito dalle norme in virtù delle quali é assicurata la possibilità di tutelare in giudizio le proprie ragioni e di farsi assistere dal difensore, salvi i casi in cui il legislatore ordinario disponga la obbligatorietà di tale assistenza. La nomina del difensore di ufficio nel procedimento penale é da porre in relazione con questo principio, onde l'avviso costante della dottrina e della giurisprudenza che tale nomina sia da ritenere obbligatoria soltanto nelle fasi di procedimento nelle quali é obbligatoria l'assistenza del difensore, a parte le disposizioni particolari relative alla nomina del difensore di ufficio nel primo atto del procedimento in cui é presente l'imputato, e, per la istruzione sommaria, in occasione dell'interrogatorio (artt. 304 e 390 Cod. proc. pen.).

L'incidente di esecuzione é, appunto, una fase del procedimento penale in cui l'assistenza del difensore é facoltativa. Il che non toglie che il diritto alla difesa sia assicurato dall'impugnato art. 630 del Cod. proc. pen., e ciò mediante le disposizioni nelle quali, a pena di nullità, si fa obbligo di comunicare il giorno fissato per la deliberazione a chiunque vi abbia interesse, si dà facoltà al condannato e agli altri interessati di farsi udire personalmente o a mezzo del difensore, si dà facoltà di presentare memorie, direttamente o a mezzo del difensore. La nomina del difensore di ufficio limitata dall'art. 630 per l'interessato ammesso al gratuito patrocinio non costituisce per gli altri soggetti una violazione del diritto alla difesa, sia perché questo é assicurato nel modo di cui innanzi, sia perché la nomina di un difensore é connaturale all'istituto del gratuito patrocinio e alle concrete possibilità del suo funzionamento.

La prima delle due questioni proposte dall'ordinanza deve, pertanto, ritenersi non fondata.

2. - Identica decisione la Corte ritiene di dover adottare per la seconda questione, riguardante la legittimità costituzionale delle norme che prevedono la conversione della multa e dell'ammenda in pena detentiva. Tale questione investe parte cospicua dell'ordinamento penale, numerosissime essendo, come é noto, nel Codice e nelle leggi speciali, le figure di reato per le quali é preveduta la sola pena pecuniaria, senza contare tutte le altre per le quali le pene pecuniarie sono disposte insieme alle pene detentive con funzione aggiuntiva o alternativa.

É da premettere che la questione sulla legittimità delle norme impugnate (artt. 135, 136 Cod. pen.; 586, ultimo comma, Cod. proc. pen.) non può essere posta in riferimento agli artt. 2 e 13 della Costituzione: non al primo, in quanto, nel riconoscere e garantire in genere i diritti inviolabili dell'uomo, esso necessariamente si riporta alle norme successive in cui tali diritti sono particolarmente presi in considerazione; non al secondo, che riguarda propriamente la tutela contro le restrizioni arbitrarie della libertà personale, tra le quali non é da annoverare la carcerazione a seguito di conversione della pena pecuniaria, eseguita per atto motivato dall'Autorità giudiziaria e nei casi e modi previsti dalla legge.

La questione da decidere consiste, dunque, soltanto nello stabilire se le norme impugnate, e più propriamente l'art. 136 del Cod. pen., nel disporre che le pene della multa e dell'ammenda, non eseguite per insolvibilità del condannato, si convertono rispettivamente nella reclusione e nell'arresto, siano in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, per effetto di una ingiusta e arbitraria situazione di disuguaglianza nella quale, secondo l'ordinanza, verrebbero a trovarsi i condannati, alcuni in grado di provvedere al pagamento, altri, per il loro stato di indigenza, costretti a subire la conversione.

É da escludere in primo luogo che le norme impugnate possano essere ritenute illegittime per la diversa qualità della pena che a seguito della conversione viene applicata, invece di quella che - come é detto nell'ordinanza - si ritenne dallo stesso legislatore di adottare e dal giudice di irrogare. Non é la surrogazione, in sé e per sé, dell'una pena all'altra che é rilevante, trattandosi di surrogazione dal legislatore espressamente preveduta, ben cognita al giudice all'atto della irrogazione della pena pecuniaria, e implicita nella sua stessa decisione. Quanto al trattamento che ne deriva, é ancora una volta da richiamare la giurisprudenza di questa Corte, la quale, come é noto, in numerose sentenze, ha escluso che con l'art. 3 della Costituzione si sia inteso stabilire un principio di eguaglianza in senso assoluto, ritenendo non illegittima una diversa disciplina quando diverse siano le situazioni cui le norme si riferiscono. Una considerazione analoga si impone anche per quelle particolarità di trattamento che inevitabilmente derivano dalla natura stessa di un istituto giuridico; il che, appunto, si verifica per la pena, la cui funzione é tale che deve poter trovare attuazione a carico di chiunque abbia commesso violazione di una norma penale.

Non sembra esatto, a tal proposito, il richiamo che fa l'Avvocatura dello Stato al principio della afflittività della pena. Esso, invero, riguarda la pena nel suo contenuto e nella fase della sua attuazione, mentre la conversione riguarda il momento anteriore del procedimento per la esecuzione della pena, ed é da riportare ad altro principio.

Quando si deve procedere alla esecuzione, ove si accerti la insolvibilità del condannato, se necessariamente si arresta la esecuzione di altre sanzioni pecuniarie, non altrettanto può avvenire delle sanzioni pecuniarie a carattere propriamente penale, cioè le multe e le ammende. L'ordinamento giuridico, il nostro come quello in genere di tutti i paesi, dispone che si proceda oltre, e che si attui sulla libertà personale del condannato quella esecuzione della pena che é risultata impossibile sui suoi averi; affermandosi con ciò il principio che alla esecuzione effettivamente si addivenga, sia pure in forma diversa, affinché la pena non resti minacciata ed irrogata a vuoto, ed agisca, invece, secondo, la propria natura e funzione. Un tal carattere non contrasta - é appena il caso di rilevarlo - né col principio del perdono e con gli istituti relativi (sospensione condizionale della pena, perdono giudiziale, ecc.), né tanto meno, con la esigenza della individualizzazione della pena, sia al momento della sua irrogazione (in base ai criteri dettati per il nostro ordinamento dall'art. 133 del Cod. pen.), sia nella fase della sua esecuzione.

Questo carattere di inderogabilità, che é insito nella stessa natura della pena, non può non riguardare insieme e la pena detentiva e la pena pecuniaria (multa e ammenda): forme diverse di una categoria unica, e però necessariamente subordinate ad unico principio. Ora, nel caso di multa o ammenda non eseguibile, il principio della inderogabilità si attua, appunto, con la conversione in pena detentiva. La funzione che la conversione assume nelle pene pecuniarie si manifesta nel modo più evidente se si considerano le conseguenze di una eliminazione della relativa norma dall'ordinamento giuridico. Prive della possibilità della conversione, le multe e le ammende verrebbero nettamente destituite della funzione preventiva e repressiva che é specificamente della pena in senso stretto; la effettiva incidenza della pena sul colpevole rimarrebbe subordinata alla sua capacità economica, in modo che quella disuguaglianza che ora si lamenta per i condannati insolvibili certamente si manifesterebbe a carico di quelli solvibili; e, infine, il legislatore, per i casi nei quali ritenesse tuttora necessaria una effettiva tutela penale, sarebbe inevitabilmente indotto a sostituire sempre con pene detentive le multe e le ammende non più convertibili; e ciò in pieno contrasto con la tendenza attuale a ridurre al massimo le brevi pene carcerarie, per le note ragioni di ordine morale, sociale e pratico.

3. - In base alle considerazioni che precedono, la questione sottoposta all'esame della Corte viene a puntualizzarsi nel senso che ciò che bisogna propriamente stabilire é se il particolar modo di attuarsi del principio della inderogabilità in relazione alle pene pecuniarie non sia tale da determinare, in ragione del trattamento che ne deriva per i condannati insolvibili, una violazione dell'art. 3 della Costituzione. Ora, che con l'art. 3 non si sia inteso spingere a tal punto il principio di eguaglianza si può chiaramente dedurre dalle norme della Costituzione dedicate all'ordinamento penale.

Risulta da esse ben chiaro il proposito di fissare i cardini costituzionali del sistema punitivo. Principio di legalità, irretroattività della norma penale, personalità della pena, divieto della pena di morte, divieto di trattamenti penali contrari al senso di umanità, necessità di indirizzare la pena verso la rieducazione del condannato: sono altrettanti punti fondamentali, che esprimono una visione integrale del sistema punitivo. Se, come appare evidente, é a tale visione che furono ispirate le norme degli artt. 25 e 27 della Costituzione, é da escludere che gli altri punti non esplicitamente considerati siano sfuggiti all'esame del legislatore costituente; e tutto, invece, lascia ragionevolmente ritenere che là dove un intervento esplicito non si é verificato gli istituti, e in particolare quello della pena, sono stati recepiti col principio e con la funzione già loro propri e accolti nelle leggi. L'esigenza logica che la pena, in senso proprio, sia ordinata in modo da poter giungere alla effettiva sua applicazione, anche eventualmente in forma vicaria, per tutti i soggetti responsabili e per tutte le accertate violazioni della norma penale; l'estensione e la importanza dei precetti giuridici garantiti con pene pecuniarie, data la complessità sempre crescente, nella vita contemporanea, dei rapporti economici e sociali cui quei precetti si riferiscono; l'istituto della conversione delle pene pecuniarie, ricevuto nel nostro e di regola nell'ordinamento di tutti i paesi, sono elementi tali che non potevano sfuggire al legislatore costituente. É chiaro, pertanto, che, nel porre i cardini costituzionali dell'ordinamento penale, la conversione delle pene pecuniarie per i condannati insolvibili non é apparsa punto lesiva del principio di eguaglianza dichiarato in altra norma della Costituzione. D'altra parte, se talora in qualche modo diversa si manifesta in concreto la incidenza della pena, un coefficiente fondamentale ricompone e livella ogni disparità, ed é la necessità che tutti i soggetti, di qualunque condizione (e fatte salve le particolarità di ciascun caso), siano pari nella responsabilità di fronte al reato: riaffermazione, non negazione del principio di eguaglianza.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara non fondate le questioni, sollevate con ordinanza del Pretore di Cantù del 17 dicembre 1960, sulla legittimità costituzionale dell'art. 630, primo comma, del Codice di procedura penale, in riferimento all'art. 24, secondo comma, della Costituzione; e degli artt. 135, 136 del Codice penale, 586, ultimo comma, del Codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 2, 3 e 13, primo comma, della Costituzione.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 marzo 1962.

Giuseppe CAPPI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco Pantaleo GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI

 

Depositata in cancelleria il 27 marzo 1962.