Sentenza n. 149 del 1971
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SENTENZA N. 149

ANNO 1971

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 136 del codice penale e dell'art. 586, ultimo comma, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 6 maggio 1969 dal pretore di Catanzaro nel procedimento di esecuzione penale a carico di Furriolo Armando, iscritta al n. 317 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 243 del 24 settembre 1969.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 3 giugno 1971 il Giudice relatore Enzo Capalozza;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Michele Savarese, per il Presidente del Consiglio dei ministri.  

Ritenuto in fatto 

Nel corso di un procedimento di esecuzione per la conversione di una pena pecuniaria in detentiva a carico di Armando Furriolo, essendo risultato che questi era stato dichiarato fallito, il pretore di Catanzaro, con ordinanza del 6 maggio 1969, ha ritenuto rilevante e, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, non manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale degli artt. 136 del codice penale e 586 del codice di procedura penale, nei limiti in cui non prevedono che, nell'ipotesi di fallimento del condannato, si attenda l'esito della procedura concorsuale prima di far luogo alla conversione.

Nel richiamare la sentenza n. 29 e la successiva ordinanza n. 59 del 1962, con le quali questa Corte ebbe a dichiarare non fondata analoga questione diretta a porre in discussione, in via generale, l'istituto della conversione, il pretore afferma che la questione attuale, per il profilo sotto il quale é ora prospettata, appare meritevole di riesame, in considerazione della particolare posizione nella quale viene a trovarsi il fallito.

Al riguardo, dopo aver fatto presente come, secondo la giurisprudenza, la pena pecuniaria, per la sua speciale natura, non possa essere inserita nel passivo fallimentare e vada, pertanto, convertita, il pretore osserva che, dovendosi, di regola, eseguire la punizione nel tipo in cui é stata inflitta ed essendo, d'altro canto, la libertà personale un bene primario rispetto a quello del patrimonio, la norma denunziata darebbe luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti del fallito, posto, come egli é, per la sua particolare situazione giuridica, nell'impossibilità di difendere, con il pagamento, la sua libertà. La sentenza dichiarativa di fallimento, oltre ad essere suscettiva di opposizione e di revoca, priva l'imprenditore soltanto dell'amministrazione e non della titolarità del suo patrimonio. Parte del quale può, d'altronde, tornare nella sua piena disponibilità anche nell'ipotesi di residuo attivo della procedura concorsuale.

Afferma il pretore che l'eventuale pericolo del maturare del termine di prescrizione per il differimento della conversione all'esito dell'anzidetta procedura, é da attribuire ad un difetto del sistema, che non potrebbe in nessun caso risolversi nella violazione di diritti costituzionalmente protetti; ed aggiunge che, ad eliminare il sospetto di illegittimità, non gioverebbe neppure richiamarsi al principio della stretta personalità della sanzione penale, dato che la somma dovuta a titolo di pena pecuniaria può essere corrisposta sia dal civilmente obbligato per l'ammenda, sia da qualsiasi altro soggetto, ai sensi dell'art. 220 del r.d. 28 maggio 1931, n. 602, contenente disposizioni di attuazione del codice di procedura penale.

Dopo le notificazioni e comunicazioni e la pubblicazione di rito dell'ordinanza, nel giudizio dinanzi a questa Corte é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 9 settembre 1969, nel quale si chiede che la questione sia dichiarata non fondata.

L'Avvocatura generale, nel richiamare le citate decisioni di questa Corte, rammenta che il fallito - la cui posizione non é diversa da quella di ogni altro soggetto che sia stato privato dell'immediata disponibilità dei suoi beni per effetto di una misura cautelare - rimane in possesso dei suoi beni e diritti di natura personale; e sostiene che il principio dell'inderogabilità, e quindi anche dell'indifferibilità, della pena, non potrebbe subire eccezioni, senza che ne risulti compromessa la sua stessa funzione preventiva e repressiva.  

Considerato in diritto 

1. - Il dubbio di legittimità costituzionale, sollevato dall'ordinanza pretoria in epigrafe, con riferimento all'art. 3 della Costituzione, investe gli artt. 136, primo comma, del codice penale e 586, quarto comma, del codice di procedura penale, nella misura in cui non escludono che, nei confronti del fallito, debba attendersi l'esaurimento della procedura concorsuale prima di addivenire alla conversione della pena pecuniaria a cui egli sia stato condannato.

2. - É da premettere che la norma effettivamente attinente alla censura va individuata in quella di diritto sostanziale (art. 136, primo comma, cod. pen.), rispetto alla quale la norma di diritto processuale (art. 586, quarto comma, cod. proc. pen.) é solo una derivazione ed una applicazione, i cui confini vengono (e restano) delimitati dal contenuto e dalla significazione della prima.

3. - La questione non sorgerebbe, se le pene pecuniarie fossero ritenute un debito verso l'erario, argomentando dall'art. 189, primo comma, n. 1, e terzo comma, cod. pen. (che prevede le garanzie dell'ipoteca legale e del sequestro in favore dello Stato); dall'art. 191 del codice penale (che pone le pene pecuniarie al n. 6, nell'ordine dei crediti garantiti con ipoteca o sequestro); dall'art. 620, primo comma, del codice di procedura penale (che fa salva l'azione civile per ottenere con le norme ordinarie il pagamento delle somme ancora dovute dopo la ripartizione del ricavato della vendita dei beni ipotecati o sequestrati); dagli artt. 196 e 197 del codice penale (che dispongono la previa escussione delle persone rivestite dell'autorità o incaricate della direzione o vigilanza sul condannato e, rispettivamente, di determinate persone giuridiche di cui il condannato abbia la rappresentanza o l'amministrazione o con cui sia in rapporto di dipendenza); dall'art. 40 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale approvate con r.d. 28 maggio 1931, n. 602 (che determina come vada accertata l'insolvibilità del condannato).

Ché, in tale caso, le pene pecuniarie, una volta insinuate, entrerebbero a far parte del passivo del fallimento: e la conversione sarebbe scongiurata in caso di completo soddisfacimento; sarebbe ridotta al residuo in caso di soddisfacimento parziale e resterebbe integra in caso di totale mancato realizzo in sede di liquidazione e ripartizione dell'attività fallimentare o di mancanza di attivo.

Tuttavia, la Corte di cassazione é, per consolidata giurisprudenza, di contrario avviso: sicché al condannato che sia dichiarato fallito, la pena pecuniaria non pagata viene subito convertita in detentiva.

4. - Non deve questa Corte smentire la sua precedente giurisprudenza circa la legittimità costituzionale dell'istituto della conversione alla stregua del principio della inderogabilità della pena (sent. n. 29 del 1962 e ord. n. 59 del 1962), bensì prendere in esame la questione sotto il nuovo e diverso profilo, che si palesa fondato, dell'art. 3 della Costituzione.

5. - L'art. 3 della Costituzione risulta violato, in quanto si equiparano due situazioni del tutto diverse, quali sono la insolvibilità - che é un dato di fatto oggettivo - richiesta dall'art. 136 del codice penale per la conversione in pena detentiva della pena pecuniaria non eseguita, e l'insolvenza - mera situazione contingente, condizionata e, talvolta, provvisoria - nella quale viene a trovarsi il fallito, posto nella impossibilità giuridica di disporre dei suoi beni e, quindi, di pagare.

Il condannato, contro il quale si procedesse subito alla conversione, subirebbe a torto la pena detentiva se il fallimento venisse in seguito revocato.

La dilazionata convertibilità, invece, consentirebbe allo Stato di realizzare quanto dovutogli, sia pure con qualche ritardo (e, nel contempo, resterebbero ferme la finalità e la stessa ragion d'essere, sul piano di politica criminale, della pena pecuniaria), tanto se, per la chiusura del fallimento, ne cessino gli effetti sul patrimonio del fallito (e la chiusura può essere assai rapida: art. 120 r.d. 16 marzo 1942, n. 267, in relazione all'art. 118, n. 1 e n. 2), o il fallimento sia rimosso con la esecuzione del concordato (art. 136, terzo comma, stesso r.d.); quanto se il fallito, cui é permessa un'attività remunerativa anche in pendenza del fallimento (art. 46, n. 2, stesso r.d.), fosse, poi, in grado di pagare (ed é risaputo che l'erario é abilitato ad esperire gli atti esecutivi per il realizzo contro un fallito che abbia disponibilità).

6. - Né rileva l'obiezione che la pena pecuniaria, una volta che ne sia sospesa la convertibilità in pendenza del fallimento, possa, nel frattempo, prescriversi, dappoiché, da un lato, la estinzione per decorso del tempo richiede non meno di dieci anni per la multa e di cinque anni per l'ammenda e, talora, non ha affatto luogo (artt. 172 e 173 cod. pen.); dall'altro, non é lecito addurre un siffatto (eventuale) inconveniente a suffragio della legittimità costituzionale di una norma.

7. - Deve, per altro, aversi riguardo all'impossibilità giuridica sopravvenuta e, pertanto, contenersi il divieto di conversione alle condanne a pena pecuniaria anteriori alla dichiarazione di fallimento, perché sarebbe irrazionale - e finirebbe coll'apparire un incentivo alla violazione della legge penale - che la inderogabilità della pena trovasse un correttivo a favore di chi, essendo in stato di fallimento, commetta dei reati per i quali riporti condanna alla multa o alla ammenda.

8. - La declaratoria di parziale illegittimità dell'art. 136, primo comma, del codice penale esaurisce la materia del contendere: l'accolta accezione dell'insolvibilità si trasferisce automaticamente nell'art. 586, quarto comma, del codice di procedura penale e va utilizzata per la interpretazione di questo, nei sensi di cui sopra, e per la sua portata applicativa.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

a) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 136, primo comma, del codice penale, nella parte in cui ammette, per i reati commessi dal fallito in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento, la conversione della pena pecuniaria in pena detentiva, prima della chiusura della procedura fallimentare;

b) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 586, quarto comma, del codice di procedura penale, sollevata, con l'ordinanza indicata in epigrafe, in riferimento all'art. 3 della Costituzione.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 giugno 1971.

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 30 giugno 1971.