Ordinanza n.324 del 1994

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ORDINANZA N. 324

ANNO 1994

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici

Prof. Gabriele PESCATORE Presidente

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Avv. Massimo VARI

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 310, comma 3, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 16 marzo 1993 dal Tribunale della libertà di Reggio Calabria sull'appello proposto dal pubblico ministero presso il Tribunale di Reggio Calabria avverso l'ordinanza del giudice per le indagini preliminari nei con fronti di Pannuti Luigi, iscritta al n. 808 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 1994.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell'8 giugno 1994 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello.

Ritenuto che il Tribunale di Reggio Calabria, in sede di appello proposto dal pubblico ministero avverso un'ordinanza del giudice per le indagini preliminari con la quale era stata rigettata la richiesta di applicazione di una misura cautelare coercitiva nei confronti di un indagato, ha sollevato, con ordinanza del 16 marzo 1993 (pervenuta a questa Corte il 27 dicembre 1993), questione di legittimità costituzionale dell'art.310, comma 3, del codice di procedura penale, in riferimento agli artt.3, 13 e 76 della Costituzione;

che ad avviso del rimettente la norma impugnata, la quale stabilisce che "l'esecuzione della decisione con la quale il tribunale, accogliendo l'appello del pubblico ministero, dispone una misura cautelare è sospesa fino a che la decisione non sia divenuta definitiva", sarebbe in contrasto:

a) con l'art. 76 della Costituzione, per violazione della delega quanto al principio della equiparazione delle posizioni tra accusa e difesa (art. 2, direttiva 3) della legge-delega n.81 del 1987), nel raffronto con l'opposta eseguibilità immediata dei provvedimenti che pongono in libertà l'imputato (o indagato);

b) con l'art. 76 della Costituzione, per violazione della delega quanto alla direttiva 59) della legge n. 81 del 1987 citata, che, prevedendo solo il principio dell'esecuzione immediata dei provvedimenti liberatorii, non avrebbe autorizzato il legislatore delegato a introdurre l'opposta norma impugnata quanto ai provvedimenti restrittivi, ed anzi lo avrebbe implicitamente escluso, avuto riguardo alla novità di simile previsione nel sistema processuale e alla sua notevole incidenza sulle esigenze fondamentali di acquisizione probatoria e sviluppo delle indagini sottese alla cautela, la cui finalità verrebbe ad essere di fatto vanificata da un provvedimento inutile e addirittura incentivante la fuga o l'inquinamento dell'indagine;

c) con l'art. 3 della Costituzione, perchè "si registra un'assurda disparità di poteri tra il giudice per le indagini preliminari ed il tribunale della libertà" accordandosi l'esecutività alla misura disposta dal giudice per le indagini preliminari (giudice monocratico), senza previo contraddittorio, e viceversa negandola alla misura disposta dall'organo collegiale in sede di appello, all'esito di contraddittorio;

d) con l'art. 13 della Costituzione, per la distorsione che la norma impugnata, con la riferita prospettiva di vanificazione del provvedimento, può indurre, nell'ambito delle determinazioni del giudice d'appello, che devono essere correlate alla complessiva valutazione del quadro delle esigenze cautelari da effettuarsi al momento della decisione medesima, pena l'adozione di una misura svincolata dai criteri (adeguatezza, proporzionalità) legali e dunque di una restrizione di libertà non giustificata;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per una declaratoria di infondatezza delle questioni.

Considerato che, in relazione all'asserito contrasto con l'art. 76 della Costituzione per violazione della legge- delega, la norma impugnata rappresenta un adeguato elemento di riempimento e di completamento delle scelte del legislatore delegante (sentt. nn. 237 del 1993, 4 del 1992) costituendo espressione del principio generale del processo penale, tradizionalmente definito come effetto sospensivo dell'impugnazione (art. 588, comma 1, del nuovo codice di procedura penale);

che l'esplicitazione di detta regola in apposita norma all'interno della disciplina dell'appello de libertate risulta, nel nuovo codice, necessitata in ragione della formulazione dell'antitetica previsione di cui all'art. 588, comma 2, del codice medesimo; norma, quest'ultima, del tutto nuova ed originata dall'opportuno intento di concentrare in un principio e ricondurre ad unità il frammentario quadro della precedente disciplina delle impugnazioni dei provvedimenti in materia di libertà personale;

che, in questa prospettiva, la norma del nuovo codice impugnata non risulta innovativa, nel senso dedotto dal giudice a quo, giacchè l'impostazione di sintesi delle norme sopra richiamate, in termini di regola (effetto sospensivo dell'impugnazione), eccezione (art. 588, comma 2) e ritorno alla regola (art. 310, comma 3), non differisce, per questo aspetto, dal precedente sistema: in questo, infatti, la giurisprudenza, così anteriore come successiva alla legge n.532 del 1982 istitutiva del tribunale della libertà e del rimedio del riesame, ha pressochè costantemente affermato l'operatività dell'effetto sospensivo dell'appello in caso di accoglimento del gravame del pubblico ministero avverso un provvedimento - del giudice istruttore - di contenuto favorevole all'imputato (revoca del titolo detentivo; scarcerazione per qualsiasi motivo; concessione della libertà provvisoria o remissione in libertà), in applicazione dell'art. 205 del codice di procedura penale abrogato, corrispondente all'art. 588, comma 1, del codice vigente;

che i rilievi che precedono, indicativi di una continuità di disciplina sugli effetti sostanziali dell'impugnazione di un provvedimento sullo status libertatis, fanno venir meno la premessa da cui muove l'ordinanza di rinvio, circa l'asserita "novità" della norma impugnata, per sostenere la violazione del divieto desumibile dal silenzio del legislatore delegante nella direttiva n. 59) della legge n. 81 del 1987; difatti la norma impugnata si atteggia come coerente con il meccanismo delle impugnazioni in generale e altresì come funzionalmente orientata nella stessa direzione della norma alla quale fa eccezione (art. 588, comma 2), poichè entrambe si fondano sul principio del favor libertatis e sull'eccezionalità del ricorso agli strumenti di restrizione della libertà personale (sent. n. 349 del 1993), desumibile proprio dalla direttiva n.59) citata;

che le considerazioni da ultimo formulate orientano altresì nel senso della esclusione del profilo di contrasto con il principio di parità delle parti nel processo penale, poichè, diversamente da quanto sostiene il giudice rimettente, l'accordato rilievo al favor libertatis costituisce motivo idoneo e sufficiente alla diversificazione di disciplina quanto alla eseguibilità immediata o meno dei provvedimenti di contenuto rispettivamente liberatorio o restrittivo adottati in sede di appello; non è invero imposta, dal principio di parità fra le parti invocato, l'assoluta identità di poteri e posizioni del pubblico ministero e dell'imputato (o indagato), ed anzi sono consentite quelle alterazioni della parità necessarie a dare completo sviluppo a esigenze o finalità anch'esse costituzionalmente rilevanti (sentt. nn. 98 del 1994, 363 del 1991, 110 del 1986);

che, per quanto concerne il riferimento all'art. 3 della Costituzione, l'ordinanza, sia pur con formulazione incerta, sembra prospettare due profili, entrambi infondati, e cioé uno di disparità di trattamento ed uno di irragionevolezza;

che, sotto il primo profilo, va rilevato che tra organi giurisdizionali non sono configurabili problemi di disparità di trattamento costituzionalmente rilevanti perchè l'art. 3 della Costituzione concerne l'eguaglianza fra soggetti, un aspetto cioè non apprezzabile nel confronto tra organi giurisdizionali i cui poteri sono determinati dalle scelte del legislatore, sindacabili in riferimento all'art. 3 della Costituzione solo sotto il profilo della ragionevolezza;

che, sotto questo profilo, va rilevato che il diverso regime di eseguibilità dei provvedimenti cautelari concernenti la libertà personale non si basa su una arbitraria determinazione del legislatore nel connotare i provvedimenti adottati dal giudice per le indagini preliminari (a quo) in modo difforme da quelli di competenza del tribunale della libertà (ad quem) in sede di appello, bensì trova ragionevole spiegazione nella ontologica diversità che sussiste tra il momento genetico della cautela ed il momento - necessariamente successivo - del controllo sul suo diniego;

che, infatti, diversa risulta nei due casi l'intensità dell'urgenza della esecuzione del provvedimento, in ragione della presenza solo nel primo caso, e non nel secondo, dell'elemento della c.d. "sorpresa", cui consegue coerentemente un diverso atteggiarsi delle regole del contraddittorio (sent. n. 219 del 1994) ed una differenziata scansione temporale del procedimento (i termini ex artt. 310 e 311 c.p.p. essendo di carattere ordinatorio);

che, quindi, in modo non irragionevole il legislatore delegato, in presenza di questa divaricazione di fondo, ha valorizzato - a differenza che nel provvedimento del giudice per le indagini preliminari - la ratio di favore per l'indagato o imputato, ritenendola prevalente, non sussistendo l'esistenza di quella "sorpresa" che costituisce la ragione fondante l'esecuzione immediata, ed esercitando così una opzione, non censurabile in sede di sindacato di costituzionalità, nel bilanciamento tra - ormai affievolite - esigenze di operatività della cautela e ragioni di garanzia, sottolineate, queste ultime, dal dato non indifferente di una preesistente pronuncia di un organo giurisdizionale reiettiva della "domanda cautelare" sollecitata dal pubblico ministero;

che, infine, il richiamo del parametro di cui all'art. 13 della Costituzione risulta inconferente, una volta rispettato - come nella specie - il canone di riserva alla legge dei presupposti e delle condizioni di restrizione della libertà personale, non potendo venire in rilievo, per questo para metro, se non come patologie di fatto, considerazioni soggettive dell'organo giudicante dissonanti rispetto a detti presupposti e condizioni.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 310, comma 3, del codice di procedura penale, sollevata dal Tribunale della libertà di Reggio Calabria, con ordinanza del 16 marzo 1993, in riferimento agli artt. 3, 13 e 76 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 07/07/94.

Gabriele PESCATORE, Presidente

Vincenzo CAIANIELLO, Redattore

Depositata in cancelleria il 20 Luglio 1994.