SENTENZA N. 98
ANNO 1994
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente
Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
Giudici
Prof. Gabriele PESCATORE
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Avv. Massimo VARI
Dott. Cesare RUPERTO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 443 e 595 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 19 febbraio 1993 dalla Corte di appello di Torino nel procedimento penale a carico di Cendretto Carmelo, iscritta al n. 339 del registro ordinanze 1993 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.27, prima serie speciale, dell'anno 1993.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 1994 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello.
Ritenuto in fatto
l.- Nel corso di un giudizio penale la Corte d'appello di Torino, in camera di consiglio, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt.443 (terzo comma) e 595 del codice di procedura penale, nella parte in cui detti articoli non consentono al pubblico ministero, all'esito del giudizio abbreviato, di proporre impugnazione incidentale nel caso in cui - come è avvenuto nel giudizio a quo - l'imputato proponga appello avverso la sentenza di condanna, per contrasto con gli artt. 3 e 112 della Costituzione.
2.- Il giudice rimettente solleva la questione attraverso il richiamo testuale di eccezione formulata dal pubblico ministero, il cui interesse ad appellare - perlomeno in via incidentale - la sentenza, resa al termine del rito speciale, deriva dal fatto che il giudice di primo grado ha condannato l'imputato ad una pena inferiore a quella proposta all'atto delle conclusioni, pena ritenuta dall'accusa non congrua rispetto ai criteri dettati dall'art. 133 del codice penale.
3.- Tuttavia, l'impugnazione del pubblico ministero, in concreto proposta, dovrebbe essere dichiarata inammissibile, non essendo consentito l'appello dall'art. 443 c.p.p., il cui terzo comma stabilisce che "il pubblico ministero non può pro porre appello contro le sentenze di condanna, salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato".
4.- La prospettazione del (pubblico ministero, fatta propria dal) giudice a quo muove dalla decisione n. 363 del 1991 della Corte costituzionale (che ha già affrontato questione analoga, seppure riferita al solo art. 443 c.p.p. e in riferimento a parametri costituzionali in parte diversi).
La statuizione di conformità a Costituzione dei limiti all'appellabilità, da parte dell'organo di accusa, delle sentenze di condanna emesse al termine del giudizio abbreviato, contenuta nella decisione richiamata, può essere condivisa, ad avviso della corte rimettente, solo se correlata alla originaria configurazione del rito speciale quale data nel codice di procedura penale del 1988.
Ma successivamente sono intervenute decisioni della Corte costituzionale che hanno notevolmente trasformato il rito speciale, nella sua struttura e nella sua funzione.
5.- Nell'impostazione originaria, infatti, il pubblico ministero poteva dissentire rispetto alla richiesta di giudizio abbreviato senza doverne enunciare le ragioni, e comunque senza che tali ragioni fossero sindacabili dal giudice, per cui era logico che allo stesso organo fossero posti limiti alla facoltà di impugnazione delle sentenze, in funzione della esigenza di deflazione dei processi che era alla base del nuovo istituto, ed in un calibrato bilanciamento delle posizioni dell'accusa e dell'imputato.
6.- Questo quadro si è alterato, prosegue il rimettente, già con la sentenza n. 81 del 1991 della Corte costituzionale, che ha stabilito l'obbligo di motivazione del dissenso del pubblico ministero all'adozione del rito abbreviato e conseguentemente il potere del giudice di applicare a favore dell'imputato la riduzione di pena ex art.442, secondo comma, c.p.p., allorchè all'esito del dibattimento il dissenso venga ritenuto ingiustificato: in questa mutata configurazione del rito, viene individuato un fattore di "sbilanciamento" a svantaggio dell'accusa, giacchè, dopo quella sentenza, i limiti entro i quali il pubblico ministero può validamente rifiutare il consenso al rito alternativo sono estremamente ridotti, coincidendo in definitiva con l'elemento della non definibilità allo stato degli atti; un elemento, quest'ultimo, di rara verificazione, tanto più nei casi in cui il rito abbreviato sia richiesto in sede di giudizio direttissimo a seguito di arresto in flagranza, come è nel processo a quo.
7.- I connotati del rito abbreviato hanno poi subìto ulteriori modificazioni in altri due interventi della Corte costituzionale: la già citata sentenza n. 363 del 1991, che ha dichiarato illegittimo l'art. 443 c.p.p. nella parte in cui escludeva l'appello dell'imputato contro le sentenze di condanna ad una pena detentiva che non deve essere eseguita;nonchè la sentenza n. 23 del 1992 con la quale si è dichiarata l'illegittimità costituzionale delle disposizioni che regolano il rito speciale, nella parte in cui non prevedono che il giudice del dibattimento possa sindacare la decisione del giudice per le indagini preliminari contraria all'adozione del rito e, conseguentemente, applicare la riduzione di pena di un terzo.
8.- Gli interventi del giudice delle leggi, quindi, hanno fatto perdere al giudizio abbreviato la sua originaria configurazione di strumento deflattivo del carico penale, nel quale le posizioni dell'accusa e della difesa erano in condizioni sostanzialmente paritarie;parallelamente, il rito in parola ha concretamente incontrato scarsa applicazione, a vantaggio del "patteggiamento" (artt. 444 e segg. c.p.p.), in particolare nei processi di competenza del pretore: sono soprattutto imputati che non possono fruire della sospensione condizionale della pena che, in luogo del patteggiamento e della conseguente rapida esecuzione della sentenza, preferiscono avvalersi del giudizio abbreviato, il quale consente sempre l'appello e perciò allontana nel tempo l'esecutività della condanna.
9.- In conclusione, il giudizio abbreviato non svolge più, ad avviso del rimettente, alcun ruolo deflattivo, posto che alla diminuzione dei dibattimenti si contrappone la "pressione" sul giudice di appello, attraverso impugnazioni sovente dilatorie; mentre, correlativamente, si accentua un marcato disequilibrio dell'accusa rispetto all'imputato, a vantaggio di quest'ultimo: il rito speciale è rimesso, in buona sostanza, alla volontà dell'imputato, poichè il pubblico ministero non può "praticamente" opporsi a tale rito, e ciò senza alcun rischio di reformatio in peius quanto alla pena, sottratta al controllo dell'accusa in sede di impugnazione.
10.- Il rimettente pone in rapporto, quindi, le osservazioni sopra illustrate con i principali passaggi argomentativi della citata sentenza n. 363 del 1991, rilevando come questi siano, alla luce dei profili detti, suscettibili di ripensamento.
Richiamata, in particolare, la motivazione di quella decisione, nel punto in cui si valorizza la fondamentale esigenza di deflazione dei processi quale razionale giustificazione del diverso trattamento accordato ad accusa e imputato sul piano delle facoltà di impugnazione, il giudice a quo propone il proprio dissenso rispetto alla decisione del la Corte, proprio perchè incentrata su una finalità che, come detto, non risponde a realtà; più che strumento di riduzione del carico penale, il giudizio abbreviato è un meccanismo di riduzione della pena rimesso alla volontà e al controllo di una sola parte del processo, e cioé all'imputato.
1l.- In questa prospettiva, occorre allora consentire al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di condanna; e se può mantenersi la preclusione all'appello principale, proprio in nome di quelle esigenze di sollecita definizione dei processi più volte accennate, si deve tuttavia consentire l'appello incidentale allorchè l'imputato a sua volta ha proposto appello, onde ricollocare le parti su un terreno di parità nel processo, anche sul piano del controllo della correttezza della pena.
Tale ultimo profilo, del resto, si riconnette alla posizione istituzionale del pubblico ministero e al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, che postula "il doveroso esercizio della pretesa punitiva dello Stato", valore costituzionale che può essere sacrificato solo quando l'imputato ha accettato gli effetti sostanziali del rito prescelto, non nel caso in cui ciò non avvenga.
12.- É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato;richiamata la sentenza n. 363 del 1991 di questa Corte, l'Avvocatura osserva che le argomentazioni in essa sviluppate sono tuttora valide, e che, se è vero che gli interventi della Corte costituzionale hanno inciso notevolmente sul rito abbreviato, sarà il legislatore a dover riesaminare l'intera disciplina proprio per adeguare la normativa alle indicazioni fornite in quelle decisioni.
Le prospettazioni del giudice a quo possono essere apprezzabili sul piano del merito di una possibile riforma legislativa, ma non inficiano - per l'Avvocatura - la pertinenza degli argomenti posti a base della citata sentenza n. 363 del 1991, essendo tuttora quello originario il fondamento del rito alternativo; l'interveniente conclude pertanto per una declaratoria di infondatezza della questione.
Considerato in diritto
l.- É stata sollevata questione di legittimità costituzionale degli artt. 443 e 595 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, nella parte in cui non consentono al pubblico ministero, in esito al giudizio abbreviato, di proporre impugnazione incidentale nel caso in cui l'imputato proponga appello avverso la sentenza di condanna.
L'ordinanza di rimessione muove dall'interpretazione delle norme impugnate che, nel contrasto della giurisprudenza e discostandosi da quella prevalente, è stata confermata di recente in sede di giurisdizione di legittimità. In base a detta interpretazione si ritiene che l'appello incidentale, in mancanza di espresse norme che lo consentano, non può essere proposto nei casi in cui quello principale non è ammesso.
Ad avviso del giudice rimettente, una volta che con la sentenza di questa Corte n. 363 del 1991 è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale delle norme che impedivano all'imputato di proporre appello principale avverso le sentenze di condanna "ad una pena che comunque non deve essere eseguita" emanate a conclusione del giudizio abbreviato, ed una volta che con la stessa sentenza è stata disattesa la questione di legittimità costituzionale delle norme che escludono l'analogo potere di appello per il pubblico ministero - salvo che si tratti di sentenza che modifichi il titolo del reato - l'esclusione per l'organo di accusa anche della possibilità di proporre appello incidentale de terminerebbe "un clamoroso disequilibrio dell'accusa con l'imputato... in quanto [se] l'imputato ha proposto appello, logica e giustizia vogliono che le parti siano poste sullo stesso piano, ovvero che ad entrambe sia attribuito il potere di controllare la correttezza della pena irrogata".
2.- La questione non è fondata.
Questa Corte, pur avendo affermato (sentenza n. 177 del 1971) che, in riferimento all'art. 112 della Costituzione, il potere di impugnazione "è un'estrinsecazione ed un aspetto dell'azione penale, un atto conseguente [...] al promovimento dell'azione penale", ha tuttavia escluso (arg. ex sent. n. 363 del 1991) che esso debba configurarsi in modo simmetrico rispetto al diritto di difesa dell'imputato.
Difatti nell'ultima delle sentenze citate, mentre si è affermato che il potere di impugnazione riconosciuto in via di principio all'imputato quale esplicazione del diritto di difesa e dell'interesse a far valere la propria innocenza non può essere sacrificato in vista delle finalità deflattive cui si affida la previsione del giudizio abbreviato, non si è ritenuto che tale riconoscimento ne comporti uno corrispondente per il pubblico ministero, le cui funzioni non sono assistite da garanzie di intensità pari a quelle assicurate all'imputato dall'art. 24 della Costituzione il quale non riguarda l'organo di accusa.
La configurazione dei poteri del pubblico ministero rimane perciò affidata alla legge ordinaria, che potrebbe essere censurata per irragionevolezza solo se i poteri stessi, nel loro complesso, dovessero risultare inidonei all'assolvimento dei compiti previsti dall'art. 112 della Costituzione.
D'altronde non può disconoscersi come la vigente disciplina preveda, in alcune fasi del procedimento penale, talune posizioni di vantaggio per l'organo d'accusa, il che non fa apparire irragionevole che il legislatore, per realizzare a pieno il diritto di difesa costituzionalmente garantito e ristabilire la parità processuale, munisca in altre fasi l'imputato di altri poteri cui non debbano necessariamente corrispondere simmetrici poteri per il pubblico ministero, fatte salve ovviamente le posizioni a questi costituzionalmente garantite ai fini del complessivo assolvimento delle sue attribuzioni.
Nè può dimenticarsi, comunque, che è l'art. 24 della Costituzione ad assumere nella disciplina processuale valore preminente, essendo il diritto di difesa inserito nel quadro dei diritti inviolabili della persona, talchè, anche secondo l'indirizzo costante di questa Corte (in cui la riaffermazione del principio della "parità delle armi" tra accusa e imputato si è modulata non solo e tanto sull'identità delle rispettive posizioni, quanto sul raccordo con l'esigenza di non comprimere poteri e facoltà dell'imputato riconducibili al precetto dell'art. 24 della Costituzione), esso non potrebbe essere sacrificato in vista di altre esigenze, come quella relativa alla speditezza del processo. Diverso è il valore dell'art. 112 della Costituzione, invocato nell'ordinanza di rinvio, in quanto esso, nell'attribuire al pubblico ministero l'esercizio dell'azione penale, configura un potere che legittimamente può cedere di fronte ad esigenze del tipo di quella indicata, che non potrebbero invece condizionare, al di là dell'indispensabile, il diritto di difesa, senza per questo porre in discussione neppure il principio di uguaglianza, anch'esso invocato dal giudice a quo. Difatti la diversità dei poteri spettanti, ai fini delle impugnazioni, all'imputato ed al pubblico ministero è giustificata dalla differente garanzia rispettivamente loro assicurata dagli artt. 24 e 112 della Costituzione.
3.- Per quel che riguarda in particolare la questione oggetto dell'incidente di costituzionalità, devesi osservare che non spetta a questa Corte prendere posizione sul nesso tra potere di impugnazione principale e potere di impugnazione incidentale. Se il giudice penale ritenga, nell'interpretare le norme vigenti, che il secondo non possa essere riconosciuto ad una parte processuale che non sia titolare del primo, ciò non pone problemi di costituzionalità perchè, sia in base alla precedente giurisprudenza (sent. n. 363 del 1991
) che alle ragioni esposte in precedenza, il trattamento che risulta in tal modo diversificato relativamente alle parti del processo penale, avrebbe rilevanza sotto tale profilo soltanto se venisse messo in qualche modo in discussione l'art. 24 della Costituzione il quale, però, come si è detto, non riguarda i poteri del pubblico ministero.Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10/03/94.
Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente