Sentenza n. 237 del 1993

CONSULTA ONLINE

 

SENTENZA N. 237

 

ANNO 1993

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

 

Presidente

 

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

 

Giudici

 

Dott. Francesco GRECO

 

Prof. Gabriele PESCATORE

 

Avv. Ugo SPAGNOLI

 

Prof. Antonio BALDASSARRE

 

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

 

Avv. Mauro FERRI

 

Prof. Luigi MENGONI

 

Prof. Enzo CHELI

 

Dott. Renato GRANATA

 

Prof. Giuliano VASSALLI

 

Prof. Francesco GUIZZI

 

Prof. Cesare MIRABELLI

 

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 62 del codice di procedura penale promossi con le seguenti ordinanze:

 

1) ordinanza emessa il 27 marzo 1992 dal Pretore di Bergamo - Sezione distaccata di Clusone - nel procedimento penale a carico di Bonadei Giuseppe, iscritta al n. 777 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 53, prima serie speciale, dell'anno 1992;

 

2) ordinanza emessa il 30 marzo 1992 dal Pretore di Bergamo - Sezione distaccata di Clusone - nel procedimento penale a carico di Agostini Gabriele ed altro, iscritta al n. 778 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 53, prima serie speciale, dell'anno 1992.

 

Visto l'atto di costituzione di Pagani Enrico nonchè l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

 

udito nell'udienza pubblica del 23 marzo 1993 il Giudice relatore Mauro Ferri;

 

udito l'Avvocato dello Stato Paolo di Tarsia di Belmonte per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

l. Con ordinanza del 27 marzo 1992 (r.o. n.777/92), il Pretore di Bergamo, sezione distaccata di Clusone, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 62 del codice di procedura penale "nella parte in cui vieta tassativamente di acquisire al dibattimento le deposizioni testimoniali concernenti le dichiarazioni rese dalla persona sottoposta ad indagine anche prima del formale inizio dell'indagine".

 

Premesso che, durante l'esame testimoniale della persona offesa dal reato, la difesa dell'imputato si era opposta a che la teste riferisse di dichiarazioni fattele dall'imputato prima della denuncia, il giudice a quo rileva che la Suprema Corte, con l'unica pronuncia nota in materia - sentenza n. 3084 del 12 novembre 1990 -, ha già avuto modo di statuire che le dichiarazioni, alle quali unicamente può riferirsi il divieto di cui all'art. 62 del codice di procedura penale, sono quelle rese nel corso del procedimento, e dunque non in pendenza di esso.

 

Ciò posto, prosegue il remittente, non appare chiaro quale sostanziale differenza vi sia fra le dichiarazioni rese dall'indagato (non solo alla polizia giudiziaria ex art. 357 del codice di procedura penale, ma anche semplicemente ad un quivis de populo, stante l'assoluta generalità del divieto di cui all'art. 62 del codice stesso) durante le indagini preliminari successive alla formazione del fascicolo del pubblico ministero da un lato, e, dall'altro, le dichiarazioni rese a chicchessia ancor prima che pubblico ministero e polizia giudiziaria abbiano avuto sentore della pur remota configurabilità di un reato.

 

Ed infatti, quel divieto di riferire al giudice sulle dichiarazioni comunque rese dall'imputato, se si interpreta come esclusivamente riferito alle dichiarazioni rese dall'imputato durante il procedimento, appare affatto irragionevole, posto che potrebbe essere agevolmente aggirato con il riportare le dichiarazioni indizianti ad epoca anteriore all'iscrizione della notizia di reato.

 

Se invece si ipotizzasse l'assoluta inutilizzabilità di qualunque dichiarazione comunque resa dall'indagato, e anzi, l'inutilizzabilità di ogni dichiarazione, resa anche solo dal futuro indagato a persona che non appartenga alla polizia giudiziaria, si perverrebbe ad un risultato del tutto irragionevole, giacchè si finirebbe per attribuire alla letterale locuzione impiegata dal legislatore delegato nell'art. 62 del codice di procedura penale la efficacia di impedire l'ingresso nel dibattimento di qualunque teste indiretto sul punto, senza che ve ne sia alcuna seria necessità.

 

Si pone quindi, in forza del generalissimo di vieto di cui all'art. 62 del codice di procedura penale, il problema delle dichiarazioni rese a chi non sia - come nella specie non è nè era la persona offesa - nè ufficiale nè agente di polizia giudiziaria.

 

L'ammissibilità solo parziale delle testimonianze de relato sulle dichiarazioni rese dal futuro indagato, consentita appunto dall'art. 62 del codice di procedura penale (anche alla luce dell'interpretazione che di tale norma ha fatto il giudice di legittimità), appare quindi - prosegue il remittente - del tutto irragionevole e quindi in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, perchè tale norma, nel tentativo di escludere l'ammissibilità delle dichiarazioni rese durante il processo, col riferimento alla persona sottoposta alle indagini preclude, in effetti, l'ammissione di qualunque testimonianza de relato comunque resa dall'indagato anche prima che egli divenisse tale.

 

Inoltre, la norma medesima, ponendo un argine invalicabile al giudice anche alla semplice assunzione della deposizione de relato, senza consentirgli di utilizzare criticamente tale dichiarazione indiretta, viola l'art. 111, primo comma, della Costituzione, poichè sostanzialmente impedisce al giudice di motivare adeguatamente la sua valutazione delle complessive emergenze processuali.

 

Ancora, poichè nella legge di delegazione non vi è alcuna direttiva idonea a giustificare il radicale divieto posto dalla norma denunciata, vi è un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale, e precisamente la violazione dell'art. 76 della Costituzione per eccesso di delega.

 

Infine, poichè per l'accertamento della verità non pare ragionevole prescindere apoditticamente ed aprioristicamente da quanto testimoni possono riferire di aver udito dall'imputato o indagato o futuro indagato, si prospetta nuovamente la violazione del principio di ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione.

 

2.l. Con altra ordinanza del 30 marzo 1992 (r.o. n. 778/92), il medesimo giudice ha sollevato analoga questione, in riferimento ai soli artt. 3 e 76 della Costituzione.

 

Premesso che durante l'esame di un teste, agente di polizia municipale, la difesa dell'imputato si era opposta a che il teste riferisse di dichiarazioni rese dall'imputato medesimo prima dell'iscrizione nel registro delle notizie di reato del fatto per cui si procede, il giudice a quo svolge argomentazioni sostanzialmente identiche a quelle di cui alla precedente ordinanza del 27 marzo 1992.

 

2.2. Si è costituito nel giudizio introdotto con l'ordinanza n. 778 del 1992 Pagani Enrico, imputato nel giudizio a quo, il quale conclude per l'infondatezza della questione.

 

La difesa della parte privata costituitasi osserva innanzitutto che alla stregua dei lavori preparatori del codice, delle Relazioni ministeriali al progetto preliminare e a quello definitivo, nonchè delle interpretazioni offerte dalla dottrina e dalla giurisprudenza, può dirsi consolidata l'opinione che il divieto espresso dalla norma impugnata concerne, sotto il profilo oggettivo, il contenuto di qualunque dichiarazione resa dall'imputato o dalla persona sottoposta ad indagine nel corso del procedimento, senza possibilità di distinguere nè in relazione alla "autorità" cui è resa (polizia giudiziaria, pubblico ministero, giudice), nè in relazione alla sede e al tempo (luogo e immediatezza del fatto ovvero altrove e successivamente; prima ovvero dopo la comunicazione al pubblico ministero della notizia di reato; prima ovvero dopo la formale iscrizione della stessa e del nome della persona cui esso è attribuito nell'apposito registro, ecc.), nè, infine, in relazione alla natura della dichiarazione stessa ("spontanea" ovvero provocata). Per converso, sotto il profilo soggettivo, il divieto medesimo riguarda chiunque.

 

Ciò premesso, quanto alla prima censura di incostituzionalità (preteso eccesso di delega) si rileva che la mancanza nella legge di delegazione di una direttiva formalmente e testualmente "anticipatrice" della norma impugnata non è di per sè ragione sufficiente per asserire che questa avrebbe ecceduto i limiti della delega, nella quale, anzi, sono rintracciabili direttive che, pur riguardando situazioni di specie, si iscrivono necessariamente e coerentemente proprio nella "logica" del divieto in parola e in un certo senso lo implicano, quali la direttiva n. 31, secondo e sesto periodo.

 

D'altra parte, il riguardo all'intera disciplina dei rapporti tra atti delle indagini e atti del dibattimento, quale emerge da molteplici direttive della legge delega, consente di ritenere del tutto coerente (e non già in contrasto) con il sistema delineato dalla legge stessa il divieto espresso dall'art. 62.

 

Quanto, poi, alla censura di incostituzionalità per pretesa irragionevolezza, osserva la difesa della parte privata che, innanzitutto, il divieto in parola non comporta alcuna differenza di trattamento, quanto ai destinatari, neppure con riguardo alle dichiarazioni rese dall'indagato "prima del formale inizio dell'indagine". La norma impugnata non distingue affatto tra ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, da una parte, e quivis de populo, dall'altra. Il divieto vale per tutti, anche per il quivis de populo, che non potrebbe giammai essere escusso come teste sul contenuto di quelle dichiarazioni. D'altra parte, non si potrebbe invocare come disparità irragionevole quella emergente dal raffronto tra questa disciplina (che, con riguardo alle "dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento" accomuna nel divieto tutti, ufficiali o agenti di polizia giudiziaria e quivis de populo) e la disciplina concernente eventuali dichiarazioni rese fuori del procedimento e, quindi, nè oggettivamente nè soggettivamente funzionali al procedimento stesso. Il quivis de populo che occasionalmente coglie la dichiarazione di un indagato (o ne è destinatario), resa - ben inteso - fuori del procedimento, la percepisce in guisa di un fatto.

 

Invece, l'ufficiale o agente di polizia giudiziaria - che operi, s'intende, in quanto tale - non può che riceverla come un atto del procedimento, onde è logico che alla relativa disciplina essa debba soggiacere.

 

Infine, neppure può dirsi intaccato il criterio di ragionevolezza in sè. Il divieto in parola corrisponde ad una ragionevole esigenza che, come s'è detto, attiene, tra l'altro, ai rapporti tra atti delle indagini e atti del dibattimento nè il principio dell'accertamento della verità può essere insofferente a regole, le quali, anzi, avendo il proprio substrato nell'esperienza, sono preordinate a promuoverlo, escludendo o allontanando i possibili errori di un accertamento "sregolato".

 

D'altra parte, si tratta di un divieto chiaramente posto anche e soprattutto a tutela delle garanzie di difesa dell'imputato e della persona sottoposta alle indagini, nel momento in cui rendono comunque dichiarazioni nel procedimento. Il sistema processuale configura, su questo piano, sia il diritto al silenzio che il diritto alla assistenza del difensore tecnico e, là dove detta assistenza non è prevista, configura vere e proprie preclusioni (o limiti) all'utilizzazione e/o (addirittura) alla documentazione delle dichiarazioni stesse.

 

2.3. É intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, concludendo anch'egli per l'infondatezza della questione.

 

Osserva l'Avvocatura dello Stato che la pretesa difformità dalla legge delega è in realtà insussistente alla luce delle chiare indicazioni contenute nell'art. 2, direttiva 31, punti 2 e 6, della detta legge, punti nei quali è espressamente sancito il divieto di utilizzare ai fini del giudizio, anche indirettamente attraverso testimonianza, le dichiarazioni eventualmente rese dalla persona sottoposta ad indagini.

 

In ordine, poi, alla censura secondo cui la norma sarebbe priva di razionalità, l'Avvocatura rileva che la disciplina contestata è stata sollecitata da una motivazione precisa, vale a dire dalla necessità di evitare che, attraverso l'utilizzazione di meccanismi trasversali, si finisse per eludere il diritto al silenzio dell'inquisito, diritto che si intendeva invece tutelare.

 

Considerato in diritto

 

l. Con due ordinanze di contenuto sostanzialmente identico (per cui va disposta la riunione dei relativi giudizi), il Pretore di Bergamo - sezione distaccata di Clusone - ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 76 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 62 del codice di procedura penale "nella parte in cui vieta tassativamente di acquisire al dibattimento le deposizioni testimoniali concernenti le dichiarazioni rese dalla persona sottoposta ad indagine, anche prima del formale inizio dell'indagine".

 

Il giudice remittente, come si evince con sufficiente certezza, pur con un certo sforzo interpretativo, dalla motivazione delle ordinanze di rimessione (invero non sempre chiara nè priva di qualche aspetto di contraddittorietà), lamenta, in sostanza, che la norma impugnata, nel porre un assoluto divieto di acquisizione al dibattimento, attraverso testimonianza de relato, di qualunque dichiarazione resa dall'imputato in qualsiasi tempo, in particolare ancor prima della iscrizione della notizia di reato nell'apposito registro, viola: a) l'art. 3 della Costituzione, perchè detta preclusione all'accertamento della verità è priva di ragionevole giustificazione; b) l'art. 76 della Costituzione, in quanto tale radicale divieto non trova fondamento in alcuna direttiva della legge di delega; c) l'art. 111, primo comma, della Costituzione, poichè la norma in esame, impedendo al giudice di assumere le menzionate deposizioni de relato, non gli consente di motivare adeguatamente le proprie valutazioni delle complessive risultanze processuali.

 

2. La questione non è fondata.

 

La norma censurata testualmente dispone: "Le dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento dall'imputato o dalla persona sottoposta alle indagini non possono formare oggetto di testimonianza".

 

Nella relazione al progetto preliminare già si osservava - con riferimento al testo dell'art. 71, quarto comma, del progetto, da cui è poi derivata, con qualche modifica, la disposizione in esame - che la norma contiene "un divieto di testimonianza de auditu, relativo ad ogni dichiarazione che l'imputato abbia potuto rendere, anche prima di assumere tale qualità, nel corso delle indagini preliminari o del processo. Si vuole infatti che di tale dichiarazione faccia fede la sola documentazione scritta, da redigersi e da utilizzarsi con le forme ed entro i limiti previsti per le varie fasi del procedimento"; e si aggiungeva che non si tratta di "un divieto soggettivamente qualificato, come testimonianza de auditu dell'ufficiale di polizia, ma si configura, in termini oggettivi, con riferimento al contenuto delle dichiarazioni, e quindi esclude anche la testimonianza de auditu di soggetti diversi dall'ufficiale o dal magistrato".

 

La giurisprudenza della Corte di cassazione ha, poi, a sua volta, chiarito, per quanto qui più specificamente interessa, che il divieto in esame opera solo con riferimento a dichiarazioni rese "nel corso del procedimento" e non genericamente "in pendenza del procedimento", vale a dire esclusivamente in ordine a dichiarazioni effettuate nella sede processuale, cioé in occasione di un atto del procedimento. É solo in relazione a tale categoria di dichiarazioni, infatti, che si pone l'esigenza di garanzia, già messa in luce dalla relazione al progetto preliminare, consistente nel far sì che di esse faccia fede la sola documentazione scritta, con divieto conseguente di fonti testimoniali surrogatorie.

 

É, pertanto, esatto - come osserva il remittente - che, ai fini dell'applicabilità della norma impugnata, non assume di per sè alcun rilievo il discrimine temporale della iscrizione della notizia di reato - o del nome della persona cui esso è attribuito - nel registro di cui all'art. 335 del codice di procedura penale. Ma occorre pur sempre accertare (ed è questo che essenzialmente rileva) che le dichiarazioni su cui dovrebbe vertere la testimonianza de auditu siano state rese (anche spontaneamente) in occasione del compimento di ciò che debba comunque qualificarsi come un (qualsiasi) atto del procedimento.

 

3. Una volta che alla norma censurata si attribuisce l'ambito applicativo indicato, le censure del giudice remittente vengono evidentemente a cadere.

 

Va, in primo luogo, escluso che la norma medesima sia viziata da irragionevolezza. Il divieto in essa contenuto, infatti, come si è visto, non è affatto assoluto ed illimitato, e nei circoscritti limiti di operatività sopra individuati non è certamente irrazionale, essendo posto a tutela della esigenza che le dichiarazioni dell'imputato giungano a conoscenza del giudice attraverso l'esclusivo veicolo della documentazione formale, con le garanzie a questa connesse.

 

Non sussiste, in secondo luogo, un eccesso di delega. Invero, la direttiva n. 31 della legge-delega prevedeva, al secondo periodo, il "divieto di ogni utilizzazione agli effetti del giudizio, anche attraverso testimonianza della stessa polizia giudiziaria, delle dichiarazioni ad esse rese... dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini, senza l'assistenza della difesa", nonchè, al sesto periodo, il "divieto di ogni documentazione e utilizzazione processuale, anche attraverso testimonianza della stessa polizia giudiziaria", delle notizie ed indicazioni utili ai fini dell'immediata prosecuzione delle indagini assunte sul luogo o nell'immediatezza del fatto anche senza l'assistenza del difensore. Non vi è dubbio che la norma de qua trae origine da tali criteri direttivi, nonchè da altri (cfr.direttiva n. 31, primo periodo, e direttiva n.33) che impongono alla polizia giudiziaria l'obbligo di compilare verbali, o, comunque, documentare l'attività compiuta.

 

Ne deriva che la verifica in ordine alla rispondenza della norma delegata alla ratio e alle finalità che, tenendo conto anche del complesso dei criteri direttivi impartiti, hanno ispirato il legislatore delegante (verifica che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, va effettuata al fine di valutare l'esistenza o meno di un eccesso di delega: v., da ultimo, sent. n. 141 del 1993 e precedenti ivi richiamati) non può che avere nella fattispecie in esame esito positivo, in quanto la norma censurata indubbiamente costituisce coerente applicazione e completamento della scelta espressa dal legislatore delegante e delle ragioni ad essa sottese.

 

Deve, infine, certamente escludersi la violazione dell'art. 111, primo comma, della Costituzione: basta osservare che la norma de qua, vietando l'ingresso in dibattimento di un determinato mezzo di prova, delimita a monte l'ambito riservato alle valutazioni del giudice, ambito entro il quale sussiste l'obbligo di motivazione di cui all'invocato parametro costituzionale.

 

4. É appena il caso di rilevare, in conclusione, che spetta al giudice a quo verificare se la norma censurata, nella corretta interpretazione sopra indicata, sia applicabile alle fattispecie sottoposte al suo giudizio.

 

PER QUESTI MOTIVI

 

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

riuniti i giudizi,

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 62 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 76 e 111 della Costituzione, dal Pretore di Bergamo, sezione distaccata di Clusone, con le ordinanze in epigrafe.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 maggio.

 

Francesco Paolo CASAVOLA, Presidente

 

Francesco GRECO, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 13 maggio 1993