ORDINANZA N. 321
ANNO 1994
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici
Prof. Gabriele PESCATORE Presidente
Avv. Ugo SPAGNOLI
Prof. Antonio BALDASSARRE
Prof. Vincenzo CAIANIELLO
Avv. Mauro FERRI
Prof. Luigi MENGONI
Prof. Enzo CHELI
Dott. Renato GRANATA
Prof. Giuliano VASSALLI
Prof. Francesco GUIZZI
Prof. Cesare MIRABELLI
Prof. Fernando SANTOSUOSSO
Avv. Massimo VARI
Dott. Cesare RUPERTO
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 69 del codice penale militare di pace, promosso con ordinanza emessa il 17 giugno 1992 e 7 luglio 1993 dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia - Sezione di Lecce sul ricorso proposto da Ripa Francesco contro il Ministero della Difesa ed altro, iscritta al n. 110 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 1994.
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 6 luglio 1994 il Giudice relatore Vincenzo Caianiello.
Ritenuto che in un giudizio instaurato su ricorso di un maresciallo dell'Aeronautica militare, per l'annullamento dei provvedimenti di perdita del grado e di cessazione dal servizio permanente adottati dall'amministrazione militare - in base agli artt. 26, lett. g), 60, n. 7 lett.a) e 61 della legge 31 luglio 1954, n. 599 - in conseguenza di condanna definitiva a sei mesi di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale dell'esecuzione della pena, inflitta al predetto militare per reato non militare (artt. 476-482 cod. pen.), il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia - Sezione di Lecce ha sollevato, con ordinanza del 17 giugno 1992 - 7 luglio 1993 (pervenuta alla Corte il 25 febbraio 1994), questione di legittimità costituzionale dell'art. 69 del codice penale militare di pace, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione;
che nel sollevare la questione il giudice a quo muove, in sintesi, da una ricostruzione della normativa sopra richiamata per cui essa configura la perdita del grado - cui ulteriormente consegue la cessazione dal servizio permanente - quale misura sanzionatoria non autonoma bensì semplicemente riproduttiva della pena accessoria della rimozione, derivante, nel caso specifico, dalla condanna penale a norma dell'art. 33 del codice penale militare di pace;
che, sulla premessa di detta configurazione, il tribunale amministrativo rimettente ritiene di censurare la previsione dell'art. 69 del codice penale militare di pace, norma che - prima della sua abrogazione, avvenuta con l'art. 8 della legge 7 febbraio 1990, n. 19 - stabiliva l'inapplicabilità della sospensione condizionale della pena alle pene accessorie militari (salvo che per la sospensione dall'impiego e la sospensione dal grado), in quanto essa si porrebbe in contrasto con l'esigenza di finalizzazione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.) e con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), apparendo eccessiva e controproducente l'esecuzione della pena accessoria che, in concreto, assume portata ed effetti più incisivi e duraturi di quelli della pena principale (sospesa);
che, infine, il giudice rimettente ritiene ininfluente l'avvenuta abrogazione della norma denunciata, rilevando, a questo riguardo, che l'atto amministrativo impugnato nel giudizio a quo è stato adottato prima della entrata in vigore della norma abrogatrice, e che la legittimità dell'atto medesimo deve essere valutata in base al quadro normativo esistente al momento della sua adozione;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, rilevando: a) che la norma impugnata è stata abrogata dall'art. 8 della legge n. 19 del 1990, mentre l'art.10 di detta legge ha disposto che alla data della sua entrata in vigore dovesse cessare l'esecuzione di ogni pena accessoria correlata a condanna a pena condizionalmente sospesa, e che inoltre per i pubblici dipendenti in precedenza destituiti a seguito di condanna penale fosse possibile la riammissione in servizio a domanda, previo procedimento disciplinare ; b) che, come indicato nella stessa ordinanza di rinvio, al ricorrente nel giudizio a quo risulta essere stata accordata la tutela cautelare, e pertanto i provvedimenti amministrativi impugnati non sono stati eseguiti;
che, ad avviso dell'Avvocatura generale, in questa situazione, alla stregua del ricordato mutamento normativo, l'amministrazione non potrà in alcun caso porre in esecuzione i provvedimenti di perdita del grado e di cessazione dal servizio, per cui, risultando la questione irrilevante, così per il periodo anteriore come per quello successivo alla vigenza della legge n. 19 del 1990, l'interveniente conclude per una declaratoria di inammissibilità - o, subordinatamente, di non fondatezza - della questione medesima.
Considerato che, anche indipendentemente dal dato dell'avvenuta abrogazione della norma denunciata e della cessazione dei relativi effetti - un aspetto, questo, sul quale il giudice a quo conclude nel senso della sua ininfluenza ai fini del rapporto controverso, senza però affrontare, nell'esame della rilevanza, quei profili di cui avrebbe dovuto farsi carico, essendo insiti nella controversia da decidere e sui quali invece si sofferma, nel modo anzidetto, l'Avvocatura generale dello Stato per concludere in senso opposto - la norma medesima non rileva, in via esclusiva, con riferimento alla situazione dedotta nel giudizio principale: essa, infatti, riguarda l'ambito proprio della pena criminale, laddove oggetto del giudizio a quo sono provvedimenti amministrativi, di carattere lato sensu destitutorio, adottati sulla base di altre norme (sia pure sul presupposto della condanna penale);
che, pertanto, attesa l'autonomia tra i due ordini, quello sanzionatorio penale e quello amministrativo-disciplinare (v. sent. n. 197 del 1993; ordd. nn. 137 e 201 del 1994), la denuncia dell'art. 69 c.p.m.p., contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, non può da sola assumere rilevanza rispetto all'oggetto del giudizio principale;
che, d'altra parte, lo stesso tribunale amministrativo mostra di aver presenti le norme, diverse da quella denunciata, sulla cui base il provvedimento di perdita del grado e quello conseguente di cessazione dal servizio permanente sono stati adottati, per cui è dell'applicazione e della portata di queste ultime norme che si può controverte re, non senza sottolineare l'influenza, su questo piano, sia del principio di eliminazione di automatismi destitutori in ogni settore del pubblico impiego ex art. 9, comma 1, della richiamata legge n. 19 del 1990 (cfr. ordd. nn. 403 e 134 del 1992; 113 del 1991; 130 del 1990), sia dell'incidenza delle cause estintive del reato rispetto alla possibilità di adottare provvedimenti quali quelli impugnati nel giudizio principale, essendo nella specie decorso il periodo di sospensione della pena ex art. 167 del codice penale;
che, per quanto detto, la questione non risulta proposta nei confronti delle norme in base alle quali sono stati adottati gli atti amministrativi oggetto del giudizio a quo, e quindi risolutive di questo;
essa va perciò dichiarata manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 69 del codice penale militare di pace, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per la Pu glia - Sezione di Lecce, con ordinanza del 17 giugno 1992 - 7 luglio 1993, in riferimento agli artt.3 e 27, terzo comma, della Costituzione.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 07/07/94.
Gabriele PESCATORE, Presidente
Vincenzo CAIANIELLO, Redattore
Depositata in cancelleria il 20 Luglio 1994.