SENTENZA N. 301
ANNO 1994
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Gabriele Presidente
Avv. Ugo
Prof. Vincenzo
Avv. Mauro
Prof. Luigi
Prof. Enzo
Dott. Renato
Prof. Giuliano
Prof. Francesco
Prof. Cesare
Prof. Fernando
Avv. Massimo
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 365, primo e secondo comma, del codice penale militare di pace, promosso con ordinanza emessa il 14 dicembre 1993 dal Tribunale militare di Cagliari, nel procedimento penale a carico di Ciriaco Pirrolu, iscritta al n. 115 del registro ordinanze 1994 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.12, prima serie speciale, dell'anno 1994.
Udito nella camera di consiglio dell'8 giugno 1994 il Giudice relatore Cesare Mirabelli.
Ritenuto in fatto
Con ordinanza emessa il 14 dicembre 1993 nel corso di un procedimento penale a carico di Ciriaco Pirrolu - il quale, detenuto per altra causa, aveva rinunciato a comparire chiedendo che il dibattimento venisse celebrato in sua assenza - il Tribunale militare di Cagliari ha sollevato, su eccezione del pubblico ministero, questione di legittimità costituzionale dell'art. 365, primo e secondo comma, del codice penale militare di pace.
La norma denunciata prevede che l'imputato deve comparire personalmente all'udienza dei tribunali militari e in nessun caso può chiedere o consentire che il dibattimento avvenga in sua assenza.
Il Tribunale prospetta il contrasto di questa disposizione con gli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione. Ritiene difatti che il principio di eguaglianza sarebbe violato dalla diversità di disciplina del processo penale mili tare rispetto al processo penale ordinario, nel quale l'imputato, anche se impedito, che chiede o consente che il dibattimento avvenga in sua assenza o, se detenuto, rifiuta di assistervi è rappresentato dal difensore e non si applicano l'istituto della contumacia o le disposizioni sull'impedimento a comparire (art.488, primo comma, del codice di procedura penale). Questa norma rispecchia sostanzialmente quella in precedenza dettata dal codice di procedura penale del 1930, rispetto alla quale l'art. 365 del codice penale militare si poneva già come norma speciale e di deroga.
Il giudice rimettente ritiene che la disciplina dettata per il rito nei tribunali militari sia ancora in vigore. L'ambito di applicazione del nuovo codice di procedura penale, che si estende ai "procedimenti relativi a tutti i reati anche se previsti da leggi speciali" (art. 207 delle norme di attuazione e di coordinamento), non comprenderebbe il processo penale militare di pace disciplinato dal libro III del relativo codice.
Essendo le norme del processo penale comune complementari rispetto a quelle del processo militare (artt. 15 del codice penale e 261 del codice penale militare di pace), la disciplina del primo troverebbe applicazione, salvo quando il codice militare detti, come in questo caso, disposizioni specifiche e di deroga.
Il Tribunale militare di Cagliari ritiene che la disposizione denunciata, venendo ad incidere sul diritto di difesa, sia in contrasto, oltre che con l'art.3, anche con l'art.24, secondo comma, della Costituzione.
Considerato in diritto
1. - Il Tribunale militare di Cagliari dubita della legittimità costituzionale dell'art. 365, primo e secondo comma, del codice penale militare di pace (approvato con regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303), che, nell'ambito della disciplina del dibattimento, dispone che all'udienza dei tribunali militari l'imputato deve comparire personalmente ed in nessun caso può chiedere che il dibattimento avvenga in sua assenza.
Il giudice rimettente ritiene - con adeguata motivazione e senza accogliere l'orientamento che vuole anche il processo dinanzi ai tribunali militari interamente regolato dal nuovo codice di procedura penale - che questa disposizione sia tuttora in vigore.
Non troverebbe quindi applicazione la diversa disciplina dettata dall'art.488 del codice di procedura penale, che prevede per l'imputato la facoltà di chiedere o consentire che il dibattimento avvenga in sua assenza ed ammette che questi, se detenuto, rifiuti di assistervi. Ma lo stesso giudice ritiene che la disciplina speciale e di deroga, disposta per il processo penale militare rispetto a quella comune, sia in contrasto con il principio di eguaglianza e con il diritto di difesa.
2. - Il dovere di comparizione personale dell'imputato all'udienza dei tribunali militari, con la correlativa esclusione della rappresentanza e della dichiarazione di assenza, costituisce una espressa deroga al diritto processuale comune, avvertita con chiarezza nei lavori preparatori. La relazione della Commissione reale al progetto preliminare del codice ne indica i motivi: "la giustizia penale militare, come quella disciplinare, è giustizia di capi; e però, anche per ragioni di esemplarità, deve svolgersi in rapporto immediato diretto fra superiore ed inferiore".
Anche quando, come in recenti pronunce, ammette il rito contumaciale per il detenuto che dichiari espressamente di non voler comparire, la giurisprudenza afferma sempre che non è consentito all'imputato di chiedere che il dibattimento dinanzi al tribunale militare avvenga in sua assenza. Il dovere di comparizione personale, disposto dall'art. 365 del codice penale militare di pace, e la diversità di disciplina rispetto a quella comune, permangono, ma ne vengono corrette le conseguenze processuali, applicandosi anche in questi casi l'istituto della contumacia o il rinvio del dibattimento per legittimo impedimento dell'imputato.
Alla Corte si chiede ora di valutare se l'obbligo di comparizione personale, in sè considerato, sia in contrasto con gli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione.
3. - La questione è fondata.
La protezione costituzionale del diritto inviolabile di difesa nel processo penale implica che la legge debba assicurare all'imputato la possibilità di partecipare al dibattimento, per poter esperire anche in questa fase del processo le attività difensive che ritenga utili ai fini del giudizio sulla fondatezza delle accuse che gli sono rivolte.
La Corte ha già ritenuto che "soltanto la volontaria rinuncia dell'imputato a presenziare al dibattimento, in quanto espressione di una sua libera e incoercibile scelta difensiva, può giustificare, sul piano costituzionale, la limitazione del contraddittorio" che si attua con l'assenza dell'imputato dal dibattimento. La necessità di garantire all'imputato la possibilità di partecipare al dibattimento consente che si proceda senza di lui "solo se l'assenza sia, in modo esplicito od implicito, frutto di una sua libera scelta, o comunque di un suo comportamento volontario" (sentenza n. 9 del 1982).
La libera partecipazione personale al dibattimento, se costituisce una garanzia per l'imputato, che è soggetto al processo ed alla potestà punitiva che in esso si esprime ma non necessariamente deve collaborare al suo svolgimento, manifesta anche una scelta difensiva, che come tale va salvaguardata e non può essere configurata come obbligatoria o coercibile, salvo che la presenza dell'imputato sia necessaria perchè il processo possa avere corso o siano compiuti specifici atti probatori che coinvolgono la persona dell'imputato.
Difatti la facoltà dell'imputato di non assistere all'udienza deve sempre essere conciliata con la fondamentale esigenza di giudicarlo egualmente (sentenza n. 11 del 1978).
La trasformazione del diritto di essere presente al dibattimento in obbligo di comparire personalmente all'udienza dei tribunali militari, senza che in nessun caso l'imputato possa chiedere o consentire che il dibattimento avvenga in sua assenza, non risponde alle particolari necessità del giudizio. Tale obbligo manifesta piuttosto la originaria connotazione di quel processo, volto ad esprimere la "giustizia dei capi" in un contesto di autonomia dell'ordinamento militare rispetto all'ordinamento statuale.
Impostazione, questa, superata dalla Costituzione, che "definitivamente impedisce che la giurisdizione penale militare si consideri ancora come continuazione della "giustizia disciplinare" dei capi militari tesa a garantire e rafforzare l'ordine e la gerarchia militare contro le violazioni "più gravi" (sentenza n.278 del 1987).
Esclusa questa prospettiva, che dava anche ragione della diversità di disciplina rispetto al processo penale comune, l'obbligo dell'imputato di partecipare al dibattimento nel processo penale militare non può essere generale ed assoluto, in quanto ancorato alla "esemplarità" del processo stesso, ma deve essere collegato esclusivamente alla necessità di non impedire il compimento del processo e di non ostacolare fondamentali esigenze del giudizio, che possono derivare dal dover compiere atti per i quali la presenza dell'imputato sia indispensabile.
L'obbligo della sua presenza non può che essere ristretto, così come nel processo penale comune, nei limiti di questa irrinunciabile esigenza.
La previsione dell'art. 365, primo e secondo comma, del codice penale militare di pace, in quanto generale ed assoluta, si pone dunque in contrasto con la libera esplicazione del diritto di difesa, che comprende anche la facoltà di non comparire al dibattimento senza per questo impedirne la celebrazione.
Alla dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione denunciata segue che, in base all'art.261 del codice penale militare di pace, le regole del processo penale comune relative alla partecipazione dell'imputato al dibattimento trovano applicazione anche dinanzi ai tribunali militari.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 365, primo e secondo comma, del codice penale militare di pace.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 06/07/94.
Gabriele PESCATORE, Presidente
Cesare MIRABELLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 15 Luglio 1994.