SENTENZA N. 263
ANNO 1992
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Aldo CORASANITI, Presidente
- Prof. Giuseppe BORZELLINO
- Dott. Francesco GRECO
- Prof. Gabriele PESCATORE
- Avv. Ugo SPAGNOLI
- Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
- Prof. Antonio BALDASSARRE
- Prof. Vincenzo CAIANIELLO
- Avv. Mauro FERRI
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Cesare MIRABELLI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio promosso con ricorso della Regione Lombardia notificato il 13 novembre 1991, depositato in Cancelleria il 15 novembre 1991, per conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato in relazione agli artt.1, primo e secondo comma e 2, primo comma, del d.P.R. 14 settembre 1991, recante "Atto di indirizzo e coordinamento alle regioni per l'attivazione dei servizi per il trattamento a domicilio dei soggetti affetti da AIDS e patologie correlate" ed iscritto al n. 41 del registro conflitti 1991.
Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell'udienza pubblica del 17 marzo 1992 il Giudice relatore Ugo Spagnoli;
uditi l'avv. Giuseppe F. Ferrari per la Regione Lombardia e l'Avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.- Con ricorso regolarmente notificato e depositato, la Regione Lombardia ha sollevato conflitto di attribuzioni nei confronti dello Stato in relazione agli artt. 1, primo e secondo comma, e 2, primo comma, del d.P.R.14 settembre 1991, recante "Atto di indirizzo e coordinamento alle regioni per l'attivazione dei servizi per il trattamento a domicilio dei soggetti affetti da AIDS e patologie correlate", deducendo che le disposizioni impugnate si pongono in contrasto con la stessa legge in base alla quale l'atto di indirizzo e coordinamento è stato emanato e non rispettano i vincoli elaborati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale in ordine all'esercizio di tale potestà.
In premessa, la ricorrente rileva che l'art. 1, comma terzo, della legge 5 giugno 1990, n. 135 (Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l'AIDS) ha affidato ad un atto di indirizzo e coordinamento, da emanare ai sensi dell'art. 5 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, il compito di stabilire "criteri uniformi per l'attivazione da parte delle unità sanitarie locali dei posti di assistenza a ciclo diurno negli ospedali, con particolare riguardo ai reparti di malattie infettive e alle specifiche esigenze di diagnosi e cura delle infezioni da HIV, nonchè criteri uniformi per l'attivazione dei servizi di cui al comma secondo e sugli organici relativi".
Il richiamato comma secondo riguarda i servizi per il trattamento a domicilio dei soggetti affetti da AIDS e patologie correlate e stabilisce che le unità sanitarie locali ne promuovono la graduale attuazione "sulla base di indirizzi regionali". La norma stabilisce poi che "il trattamento a domicilio ha luogo mediante l'impiego, per il tempo necessario, del personale infermieristico del reparto ospedaliero da cui è disposta la dimissione" ed aggiunge che "il trattamento a domicilio, entro il limite massimo di 2.100 posti da ripartire tra le regioni e le province autonome in proporzione alle rispettive esigenze ed entro il limite di spesa complessiva annua di lire 60 miliardi, a regime, e di lire 20 miliardi per il 1990, può essere attuato anche presso idonee residenze collettive o case alloggio, con il ricorso ad istituzioni di volontariato o ad organizzazioni assistenziali diverse all'uopo convenzionate o a personale infermieristico convenzionato che opererà secondo le indicazioni dei responsabili del reparto ospedaliero".
La Regione ricorrente ricorda che la Corte costituzionale, esaminando le censure opposte dalla Regione Lombardia e dalle Province autonome di Trento e Bolzano a tale normativa, ha affermato che il suddetto comma secondo non determina un'invasione nelle competenze regionali, in quanto "la norma censurata contiene ... solo criteri di larga massima cui deve ispirarsi il servizio, la cui concreta e graduale attivazione peraltro è soggetta ad "indirizzi regionali" e deve avvenire comunque secondo programmi formulati dalle stesse Regioni e Provincie autonome (art.9, comma primo)". Con riferimento al comma terzo del medesimo art. 1 - che era stato impugnato per contrasto con il principio di legalità, perchè demandava la disciplina dell'attività di trattamento a domicilio e quella di assistenza a ciclo diurno negli ospedali ad atti di indirizzo e coordinamento asseritamente privi di contenuto predeterminato - la Corte ha osservato che "la legge circoscrive adeguatamente il contenuto degli atti, descrivendo sia le attività da coordinare sia i rispettivi fini e criteri, e precisamente, nel comma secondo, prima parte (per quanto concerne il trattamento domiciliare) e nel comma successivo (per l'attività di ospedale diurno) nei quali sono sufficientemente specificate le caratteristiche dei servizi che si vogliono attuare". (sentenza n.37 del1991).
Ciò premesso, la Regione ricorrente osserva che l'atto di indirizzo e coordinamento, secondo la previsione della legge e l'interpretazione che di essa aveva fornito la richiamata sentenza della Corte costituzionale, avrebbe dovuto limitarsi a fissare criteri di natura meramente tecnica e relativi alle modalità e caratteristiche di attivazione del servizio, nel rispetto dello specifico fondamento legislativo della potestà di indirizzo e coordinamento e dei vincoli elaborati dalla giurisprudenza della Corte (e segnatamente dalle sentenze nn. 150 del 1982, 177 e 560 del 1988, 338 del 1989 e 359 del 1991), in ordine all'esercizio di tale potestà.
L'atto impugnato viola invece tali vincoli in quanto, all'art.1, disciplina in modo puntuale l'articolazione dei servizi per il trattamento a domicilio stabilendo, tra l'altro, che deve essere attivato presso residenze collettive o case alloggio "un numero di posti per il trattamento di soggetti affetti da AIDS e patologie correlate pari al 25 per cento di quelli complessivamente disponibili, da utilizzare quando sussistano condizioni di inadeguatezza e difficoltà ambientali che non consentano il trattamento a domicilio" e che, per attivare il restante 75 per cento si deve far ricorso, per il 25 per cento a convenzioni con istituzioni di volontariato e con organizzazioni assistenziali diverse e, per il 50 per cento, alla diretta attività assistenziale del personale del reparto ospedaliero da cui è disposta la dimissione.
L'art. 2, inoltre, ripartisce puntualmente le risorse finanziarie complessivamente disponibili per l'attivazione dei servizi di trattamento a domicilio in corrispondenza alla ripartizione degli interventi disposta dal precedente art. 1, destinando lire 23 miliardi per la stipula di convenzioni con residenze collettive o case alloggio, lire 15 miliardi per la stipula di convenzioni per l'assistenza a domicilio con istituzioni di volontariato e con organizzazioni assistenziali diverse e lire 16 miliardi per l'integrazione degli organici di ricovero da utilizzare nelle attività relative al trattamento a domicilio.
Una disciplina siffatta eccede i profili previsti dall'art. 1, comma terzo, della legge n. 135 del 1990 ed annulla gli spazi di autonomia che invece debbono essere lasciati alla regione.
Essa, infatti, prefissando rigidamente la ripartizione proporzionale degli interventi da attivare (art. 1 del d.P.R.) e la conseguente suddivisione delle risorse finanziarie (art. 2), preclude l'esercizio di quella discrezionalità normativa che lo stesso legislatore statale aveva inteso garantire alle regioni, demandando alle stesse sia l'adozione degli indirizzi sulla base dei quali doveva essere promossa la concreta, graduale attuazione di tali servizi, secondo le rispettive esigenze (art. 1, comma secondo, della legge 135 del 1990), sia la formulazione dei programmi per tali attività (art. 9, comma primo).
Peraltro, la ripartizione degli interventi e delle relative risorse finanziarie disposta con gli artt. 1 e 2 del decreto impugnato capovolge anche i criteri generali indicati nell'art. 1, comma secondo, della legge n.135, poichè impone di adottare il trattamento presso residenze collettive o case alloggio nel 25 per cento dei casi, mentre invece, secondo la norma legislativa, tale tipo di intervento aveva il carattere di una misura residuale, da adottarsi con le prescritte cautele. Nè vi era, nella legge, alcuna traccia della volontà di riservare determinate quote del trattamento domiciliare al convenzionamento con istituzioni di volontariato.
É pur vero - osserva la Regione Lombardia - che l'art. 4 del d.P.R. precisa che "la ripartizione degli interventi secondo i rapporti di proporzionalità specificati negli artt. 1 e 2, con riferimento alla dimensione nazionale, costituisce per quanto attiene l'ambito della programmazione regionale un criterio orientativo". Ma - sostiene la ricorrente - a fronte della rigidità dei rapporti di proporzionalità precedentemente fissati, tale disposizione non rappresenta altro, in realtà, che un mero omaggio formale alla natura di atto di indirizzo e coordinamento del decreto impugnato.
Con un secondo motivo di ricorso, la Regione Lombardia denunzia che non sia stata consultata la conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Regioni, in violazione dell'art. 12, comma quinto, lettera b), della legge n. 400 del 1988, deducendo che tale vizio procedurale concreta di per sè stesso una violazione dell'autonomia regionale.
Concludendo, la ricorrente ha chiesto di "dichiarare che non spetta allo Stato, e per esso al Consiglio dei Ministri e al Presidente del Consiglio dei Ministri, dettare con atto di indirizzo e coordinamento criteri in materia di programmazione degli interventi nei confronti di soggetti affetti da AIDS e ripartire le risorse finanziarie in conformità di tali criteri, e per conseguenza annullare il decreto impugnato".
2.- Si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dalla Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che il ricorso sia dichiarato in parte inammissibile e per il resto infondato.
Quanto al primo motivo di ricorso, l'Avvocatura rileva che esso contiene in realtà due censure. Con la prima, la Regione ricorrente deduce che l'art.1, comma primo, del d.P.R. impugnato viola l'art. 1, comma secondo, della legge n. 135 del 1990, poichè impone una percentuale garantita del 25 per cento per il trattamento presso residenze collettive e case alloggio, mentre a tale misura la legge attribuisce un carattere residuale.
Riguardo a tale censura, l'Avvocatura deduce che "la legge pone un "limite massimo" al trattamento a domicilio; appare quindi erroneo asserire che l'alternativa del trattamento presso idonee residenze collettive e case alloggio avrebbe carattere residuale". Nella memoria di costituzione si osserva altresì che il ricorso non lascia trasparire gli interessi concreti in gioco nell'ambito della Regione; l'Avvocatura si riservava, da parte sua, di chiarire quali fossero le regioni che avevano ispirato l'indirizzo statale.
Riguardo alla seconda censura - con cui si ascrive al medesimo art. 1, comma primo, del d.P.R. di comprimere eccessivamente la discrezionale potestà normativa della regione - l'Avvocatura richiama l'art. 4, comma primo, del d.P.R. e deduce che, comunque, le indicazioni meramente quantitative di larga massima poste nel citato art. 1, comma primo, non sono tali da comprimere eccessivamente le autonomie regionali. In materia di sanità, del resto, spetta allo Stato intervenire per assicurare livelli uniformi di prestazioni, così come gravano sullo Stato pesanti oneri finanziari.
Con riferimento alle conclusioni rassegnate dalla Regione, l'Avvocatura rileva che la richiesta di dichiarare che non spetta allo Stato dettare criteri in materia di programmazione degli interventi nei confronti di soggetti affetti da AIDS e ripartire le risorse finanziarie in conformità di tali criteri, si pone in contrasto con l'art. 1, comma terzo, della legge n. 135 del 1990, sicchè la domanda, così come formulata, non può che essere respinta.
Quanto al secondo motivo del ricorso, la Presidenza del Consiglio dei ministri deduce che l'art. 12, comma quinto, lettera b), della legge n. 400 del 1988 prevede il parere - obbligatorio ma non vincolante - della Conferenza limitatamente ai "criteri generali relativi all'esercizio delle funzioni statali di indirizzo e di coordinamento", ma non prevede affatto che ogni singolo atto di indirizzo e coordinamento debba, a pena di illegittimità, essere sottoposto alla Conferenza. Quando alcuni singoli atti sono stati sottoposti a detto parere ciò è avvenuto per scelta politica e non per prescrizione legislativa. L'Avvocatura rileva poi che tale secondo motivo non trova riscontro nelle conclusioni formulate nel ricorso, sicchè lo stesso appare inammissibile.
Infine, viene rilevato dall'Avvocatura che la pur annunciata censura all'art. 1, comma secondo, del d.P.R. non si è concretizzata in alcun motivo specifico.
Considerato in diritto
1.- La Regione Lombardia ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato in relazione agli artt. 1, primo e secondo comma e 2, primo comma, del d.P.R. 14 settembre 1991 recante "Atto di indirizzo e coordinamento alle regioni per l'attivazione dei servizi per il trattamento a domicilio dei soggetti affetti da AIDS e patologie correlate".
La Regione lamenta innanzi tutto la violazione della propria autonomia, dovuta al fatto che l'atto è stato emanato senza che si sia proceduto, da parte del Presidente del Consiglio dei ministri - in asserita violazione dell'art. 12, quinto comma, lettera b) della legge 23 agosto 1988, n. 400 - alla consultazione della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome.
2.- La censura non è fondata.
La consultazione della Conferenza, secondo l'invocata disposizione della legge n. 400 del 1988, è prescritta per i "criteri generali relativi all'esercizio delle funzioni statali di indirizzo e di coordinamento" e non in relazione all'adozione di ogni singolo atto. Di conseguenza, quand'anche si convenisse con la tesi per cui la Conferenza anche in quest'ultima ipotesi possa essere consultata su richiesta delle Regioni e delle Province autonome (il chè potrebbe prevenire conflitti e contese giuridiche conseguendo una delle finalità del nuovo istituto), rimarrebbe comunque insuperabile, nel caso, il carattere facoltativo e non obbligatorio della convocazione della Conferenza medesima da parte del Presidente del Consiglio: il chè esclude qualsiasi fondamento alla dedotta violazione della legge n. 400 del 1988.
3.- L'art. 1, secondo comma, della legge 5 giugno 1990, n. 135, alla quale fa riferimento l'atto impugnato, istituisce il trattamento domiciliare a favore di quei malati per i quali, superata la fase acuta della malattia, sia possibile la dimissione dall'ospedale e la prosecuzione delle occorrenti terapie presso il loro domicilio.
Caratteristica del trattamento così previsto è la continuazione, nel domicilio del paziente, del trattamento ospedaliero, mediante l'impiego, per il tempo necessario, del personale infermieristico del reparto da cui è disposta la dimissione, che opererà a domicilio secondo le stesse norme previste per l'ambiente ospedaliero, con la consulenza dei medici del reparto stesso; con la partecipazione inoltre del medico di famiglia e la collaborazione del volontariato e del personale infermieristico e tecnico dei servizi territoriali.
Sempre secondo la legge, il trattamento a domicilio può inoltre essere attuato anche presso idonee residenze collettive o case alloggio, con il ricorso ad istituzioni di volontariato o ad organizzazioni assistenziali diverse o a personale infermieristico convenzionato che opererà secondo le disposizioni dei responsabili ospedalieri.
La legge stabilisce altresì che i posti per trattamento domiciliare, da attivare nelle due forme e con le modalità sopra descritte, sono complessivamente 2.100 da ripartire tra le Regioni e le Province autonome in proporzione alle rispettive esigenze ed entro i limiti della complessiva spesa annua di sessanta miliardi di lire (venti per il 1990).
4.- Con il d.P.R. 14 settembre 1991 è stato approvato un atto di indirizzo e coordinamento, che, sulla base di quanto stabilito dal terzo comma dell'art. 1 della legge n. 135 del 1990, intende determinare criteri uniformi per l'attivazione dei servizi relativi al descritto trattamento a domicilio dei malati di AIDS. Le censure mosse dalla Regione Lombardia riguardano tre disposizioni contenute nel detto decreto.
La prima di esse (art. 1, primo comma), nel fissare gli indirizzi di cui Regioni e Province autonome debbono tener conto per la programmazione degli interventi per il detto trattamento a domicilio, prevede (lettera a)) l'attivazione presso residenze collettive o case alloggio di un numero di posti pari al 25 per cento di quelli complessivamente disponibili, da utilizzare quando sussistano condizioni di inadeguatezza e difficoltà ambientali che non consentano il trattamento a domicilio; l'attivazione (lettera b)) del trattamento a domicilio per il restante 75 per cento, ricorrendo per il 25 per cento dei posti a convenzioni con istituzioni di volontariato e con organizzazioni assistenziali diverse e per il 50 per cento alla diretta attività assistenziale del personale del reparto ospedaliero da cui è disposta la dimissione.
La seconda disposizione impugnata è il secondo comma del medesimo art. 1, secondo cui "Il trattamento di cui al comma 1, lettera a), è attuato prioritariamente nei confronti dei soggetti affetti da AIDS con più rilevanti limitazioni dell'autosufficienza o in condizioni di terminalità".
Rispetto a tale disposizione, peraltro, la Regione ricorrente non ha svolto alcuna specifica censura. La terza disposizione impugnata è l'art. 2, primo comma che ripartisce le risorse finanziarie stabilite dalla legge tra i vari tipi di intervento, con evidente riferimento alle percentuali di cui sopra.
Secondo la Regione ricorrente le disposizioni censurate esorbiterebbero dai confini della funzione di indirizzo e coordinamento poichè, prefissando la ripartizione degli interventi da attivare, e delle risorse relative, secondo rigidi rapporti di proporzionalità, le precluderebbero ogni spazio di discrezionalità nell'esercizio della competenza, (ad essa riservata dalla legge), di dettare gli indirizzi dell'attivazione del servizio (art.1, secondo comma), nonchè di predisporre i relativi programmi (art. 9, comma primo).
5.- Le norme impugnate non possono essere considerate e valutate in modo separato rispetto ad altre, pure contenute nel decreto, che ne chiarificano la portata. Rilievo decisivo ha, a questo proposito, l'art. 4 del citato decreto che nella sua prima parte precisa che "La ripartizione degli interventi secondo i rapporti di proporzionalità specificati negli articoli 1 e 2, con riferimento alla dimensione nazionale, costituisce per quanto attiene l'ambito della programmazione regionale un criterio orientativo".
Questa formulazione, contrariamente a quanto ritiene la Regione, non rappresenta un mero omaggio formale alla affermata natura dell'atto, ma è intesa a precisare che i previsti rapporti di proporzionalità tra le diverse forme di attivazione del servizio, mentre costituiscono criteri e caratteristiche destinate ad improntare il servizio nella sua dimensione globale per l'intero territorio nazionale, si atteggiano invece, nei confronti delle Regioni e della loro potestà programmatoria, come indicazioni, come orientamenti, appunto, che, mentre le indirizzano nel senso di tener conto di un tendenziale assetto complessivo del servizio, non le privano affatto dello spazio di discrezionalità necessario ad adeguare le possibili soluzioni concrete alle esigenze locali; anzi, il medesimo articolo espressamente le invita a provvedere in tal senso e, in particolare, ad adeguare tali soluzioni "alla effettiva disponibilità nei diversi ambiti territoriali di idonee strutture residenziali collettive da utilizzare per l'attività assistenziale in collaborazione con i reparti ospedalieri ed alla concreta possibilità di fruire dell'apporto di istituzioni di volontariato o organizzazioni assistenziali per lo svolgimento in regime di convenzione delle attività innanzi precisate, in alternativa al trattamento da garantire mediante il diretto impiego del personale del reparto ospedaliero".
La variabilità delle soluzioni che potranno essere perciò adottate dalle singole Regioni nella ripartizione dei posti disponibili tra trattamento presso il domicilio e trattamento presso la casa alloggio, pur nel complessivo quadro di riferimento disegnato dalla legge prima ancora che dall'atto in esame, induce a concludere che l'atto medesimo non comprime in modo illegittimo la competenza riconosciuta alle Regioni. Pertanto, per questo aspetto, il ricorso si deve ritenere infondato.
6.- Da altro punto di vista, la Regione critica l'art. 1, lettera b) dell'atto impugnato per violazione del principio di legalità sostanziale, sostenendo che esso avrebbe introdotto una riserva di quote del trattamento domiciliare al convenzionamento con istituzioni di volontariato, riserva di cui non vi sarebbe traccia nell'art. 1, secondo comma, della legge n. 135 del 1990. Questa Corte ritiene che, proprio se letto in connessione con questa ultima disposizione, l'impugnato art. 1, lettera b) sia da interpretare in un senso che consente di escludere l'esistenza del vizio denunziato.
L'art. 1, secondo comma, della legge n. 135, infatti, nel descrivere le modalità di realizzazione del trattamento domiciliare (in senso proprio) dei malati di AIDS, mostra di ritenere essenziale l'assistenza diretta da parte del personale del reparto presso cui il malato era ricoverato, mentre configura l'intervento di altri soggetti, segnatamente di istituzioni di volontariato, in funzione di mera collaborazione. Chiaro il fine di tali prescrizioni della legge: la continuazione dell'assistenza ospedaliera secondo le stesse norme previste per l'ambiente ospedaliero, con l'impiego del personale del reparto cui apparteneva il malato, e ciò nell'intento di garantire a quest'ultimo che il trattamento a domicilio non comporti pregiudizio nè un affievolimento dell'assistenza e della terapia in corso.
Una ratio, questa, che tra l'altro risponde alle affermazioni rese in Parlamento nel corso del dibattito sulla legge dal Ministro della Sanità ("l'assistenza domiciliare è un tipo di assistenza che deve essere in stretto collegamento con l'ospedale attraverso il medico ospedaliero e il medico di famiglia": v. seduta del 18 gennaio 1990 - XII Commissione Affari sociali - Camera dei deputati).
Questo essendo il chiaro impianto della legge, la disposizione contenuta nell'art. 1, lettera b), del decreto impugnato, laddove fa riferimento al ricorso a istituzioni di volontariato, non può essere interpretata se non nel senso di contemplare l'utilizzazione di apporti collaborativi e integrativi rispetto all'impegno del personale ospedaliero, certamente importanti ma non a questo alternativi. Altrimenti l'atto impugnato conterrebbe - rispetto alla legge n. 135 del 1990 - innovazioni rilevanti in quanto incidenti sui livelli di assistenza e di terapia di malati assai gravi, e comunque tali da comportare violazione del principio di legalità sostanziale.
In questi termini e per queste ragioni il ricorso della Regione Lombardia va respinto.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara che spetta allo Stato disporre con l'atto di indirizzo e di coordinamento di cui al d.P.R. 14 settembre 1991 (Atto di indirizzo e coordinamento alle regioni per l'attivazione dei servizi per il trattamento a domicilio dei soggetti affetti da AIDS e patologie correlate) indicazioni orientative per la ripartizione dei posti disponibili per il trattamento a domicilio dei malati di AIDS da attuarsi in correlazione al disposto dell'art. 1 della legge 5 giugno 1990, n. 135.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 01/06/92.
Aldo CORASANITI, Presidente
Ugo SPAGNOLI, Redattore
Depositata in cancelleria il 10/06/92.