SENTENZA N. 192
ANNO 1992
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
- Dott. Aldo CORASANITI, Presidente
- Prof. Giuseppe BORZELLINO
- Dott. Francesco GRECO
- Prof. Gabriele PESCATORE
- Avv. Ugo SPAGNOLI
- Prof. Francesco Paolo CASAVOLA
- Prof. Antonio BALDASSARRE
- Prof. Vincenzo CAIANIELLO
- Avv. Mauro FERRI
- Prof. Luigi MENGONI
- Prof. Enzo CHELI
- Dott. Renato GRANATA
- Prof. Giuliano VASSALLI
- Prof. Cesare MIRABELLI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma secondo, del decreto legge 16 marzo 1991, n. 13, convertito in legge 15 maggio 1991, n.153 ("Modifiche al decreto legge 10 luglio 1982 n. 429, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1982 n. 516, in materia di repressione delle violazioni tributarie e disposizioni per definire le relative pendenze") promosso con ordinanza emessa il 1 agosto 1991 dal Tribunale di Pesaro nel procedimento penale a carico di Paolini Paolo iscritta al n. 650 del registro ordinanze 1991 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell'anno 1991;
Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 18 marzo 1992 il Giudice relatore Renato Granata;
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 1 agosto 1991 il Tribunale di Pesaro - nel procedimento penale contro Paolini Paolo, imputato del reato previsto dall'art. 2, u. co., decreto legge. 10 luglio 1982 n.429, convertito nella legge 7 agosto 1982 n.516 per aver omesso, quale sostituto d'imposta, di versare nei termini di cui agli artt. 7 e 8 d.P.R. n.602 del 1973 (e quindi, nella specie, nel dicembre 1984) le ritenute d'acconto operate sulle retribuzioni dei propri dipendenti - ha sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 7, secondo comma, decreto legge. 16 marzo 1991 n.83, convertito in legge 15 maggio 1991 n.154, nella parte in cui subordina la deroga all'art. 20 legge 7 gennaio 1929 n.4, e quindi l'applicabilità della nuova normativa più favorevole, quale dettata dal medesimo decreto legge n. 83, al previo esperimento della regolarizzazione nei modi di cui al successivo art. 8.
Premesso in punto di fatto che l'imputato, a seguito di ruolo esattoriale, aveva effettuato in data 11 novembre 1987 il versamento di L 108.000 a titolo di ritenute d'acconto omesse e di altre somme per sanzioni pecuniarie, soprattasse ed interessi (per complessive L 200.000), il tribunale rimettente osserva in diritto che l'art. 7 cit. - nel ribadire al primo comma il principio (sancito dall'art. 20 della legge 7 gennaio 1929 n.4) della non retroattività delle nuove norme penali tributarie più favorevoli, introdotte con lo stesso decreto legge n.83 del 1991 - prevede una deroga limitata (perchè riguardante soltanto alcuni reati, quelli contemplati dall'art. 1, 6 co., e art. 2, 2 e 3 co., decreto legge 10 luglio 1982 n.429, convertito, con modificazioni, dalla legge n.516/82 e successivamente modificato dello stesso decreto legge n. 83/91; art. 3, 5 co., decreto legge 19 dicembre 1984 n.853, convertito dalla legge n.17/85) e condizionata (perchè presuppone l'esperimento della procedura di "regolarizzazione" prevista dal successivo art. 8). Quest'ultima norma richiama la procedura di sanatoria delle irregolarità formali, prevista dall'art. 21 decreto legge 2 marzo 1989 n.69, convertito con modificazioni nella legge 24 aprile 1989 n.154, sanatoria con la quale, versando un milione di lire per ogni anno di imposta, si otteneva l'estinzione ad ogni effetto, penale ed amministrativo, del contenzioso fiscale.
Il giudice rimettente ricorda che la giurisprudenza di questa Corte ha più volte ribadito che la deroga al principio di eguaglianza che si concreta nella previsione, contenuta nell'art. 20 della legge n. 4 del 1929, di ultrattività della legge penale finanziaria può ritenersi costituzionalmente legittima solo in quanto la diversità di trattamento in materia tributaria rispetto alla regola generale della retroattività della legge penale favorevole trovi specifica giustificazione nell'interesse primario alla riscossione dei tributi, costituzionalmente differenziato ex art. 53 Cost. e pertanto idoneo, in linea costituzionale, a legittimarne una tutela particolare differenziata. Nella specie tale interesse primario sarebbe perseguito e realizzato attraverso la "regolarizzazione" fiscale, di cui all'art. 8. Tuttavia - osserva il giudice rimettente - tale regolarizzazione ha natura fiscale solo apparente e ciò in quanto la sua rilevanza penale è stata disciplinata indipendentemente dalla vicenda fiscale essendo richiesta a prescindere degli interessi fiscali ed anche nei confronti di chi non abbia nulla da sanare in sede tributaria.
Nel caso di specie, infatti, il Fisco era stato integralmente soddisfatto anche di ogni altra pretesa accessoria a quella tributaria (interessi, soprattasse, pene pecuniarie) e, nel momento in cui è intervenuta la nuova normativa penale, non residuava alcuna pretesa tributaria, diretta o indiretta. In realtà il legislatore ha previsto una regolarizzazione o sanatoria ai puri fini penali, prescindendo anche dall'esistenza e dall'attualità di pretese tributarie come tali.
Da ciò consegue che la "regolarizzazione" richiamata dall'art. 7 cit. , e quindi il pagamento della somma di un milione per anno per fruire di una normativa penale migliore, non trova giustificazione in interessi rilevanti ex art. 53 Cost. Pertanto, non è giustificato, in mancanza del presupposto che è a fondamento della deroga prevista dall'art. 20 della legge n.4 del 1929, l'aver condizionato l'applicabilità della norma penale più favorevole alla suddetta "regolarizzazione" .
Conseguentemente risulta anche un secondo profilo di sospetta incostituzionalità dell'art. 7 censurato, rappresentato dalla disparità di trattamento penale tra chi abbia effettuato la "regolarizzazione" pagando la somma suddetta e chi non l'abbia effettuata, apparendo lesivo del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. il fatto che la medesima identica situazione tributaria già definita ed esaurita, riferita al medesimo pregresso periodo d'imposta, comporti conseguenze penali radicalmente diverse sol perchè non si sia ritenuto o si sia invece ritenuto di ottemperare ad un esborso aggiuntivo, imposto successivamente e indipendentemente dalla vicenda tributaria.
La conclusione del giudice rimettente è quindi che l'applicabilità della più favorevole disposizione penale tributaria successiva non può essere subordinata al pagamento di una somma di danaro del tutto sganciata da ogni e qualsiasi obbligazione tributaria.
2. É intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, sostenendo che il tribunale rimettente, piuttosto che rilevare un contrasto con norme costituzionali, censura il criterio discrezionale seguito dal legislatore nel determinare le scelte sull'apprezzamento dei comportamenti riparatori che meritino una mitigazione delle sanzioni. In particolare l'Avvocatura ritiene non fondata la questione sostenendo che nella specie il legislatore ha previsto una sorta di depenalizzazione che costituisce quella via mediana tra ultrattività assoluta della legge penale tributaria e retroattività assoluta della legge penale ordinaria. Nè l'aver subordinato il beneficio dell'applicazione della legge penale più favorevole al pagamento di una somma di danaro crea disuguaglianza tra coloro che hanno provveduto alla regolarizzazione e coloro che volontariamente non vi hanno provveduto attesa la evidente diversità delle situazioni.
Inoltre l'Avvocatura contesta che il tardivo versamento delle ritenute fiscali possa far venire meno l'interesse fiscale alla repressione di comportamenti che, seppur non direttamente connessi al versamento dei contributi, mettono in pericolo l'accertamento e l'adempimento degli obblighi tributari. D'altra parte è possibile e legittimo che il legislatore ricorra a mezzi straordinari di estinzione dei reati tributari (oblazione, condono, sanatoria) condizionandoli all'adempimento di oneri economici.
Considerato in diritto
1. É stata sollevata questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 7, secondo comma, decreto legge 16 marzo 1991 n.83, convertito in legge 15 maggio 1991 n.154, (recante <<Modifiche al decreto legge 10 luglio 1982 n.429, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1982 n.516, in materia di repressione delle violazioni tributarie e disposizioni per definire le relative pendenze>>) nella parte in cui subordina la deroga al principio speciale della ultrattività della norma penale tributaria (art.20 legge 7 gennaio 1929 n.4) - e quindi il ripristino dell'operatività del principio generale della retroattività della successiva norma penale più favorevole (art. 2 c.p.) - al previo esperimento della regolarizzazione nei modi di cui al successivo art. 8 per sospetto contrasto: a) con l'art. 53 Cost., perchè l'interesse primario al regolare pagamento dei tributi, che giustifica l'eccezionale deroga al principio posto dal cit. art. 2 c.p., non sussiste (se non apparentemente) nella <<regolarizzazione>> che condiziona l'applicabilità, o meno, della successiva norma penale più favorevole; b) con l'art. 3 Cost. per disparità di trattamento tra l'imputato che ha effettuato la <<regolarizzazione>> e l'imputato che non l'abbia effettuata.
2. Va premesso che l'art. 3 del cit. decreto legge n.83 del 1991, convertito nella legge n.154 del 1991, ha previsto - nel quadro di una più ampia modifica dell'impianto repressivo penale degli illeciti tributari - una nuova formulazione del reato di omesso tempestivo versamento delle ritenute alle quali è obbligato il sostituto d'imposta.
Il precedente art. 2, ultimo comma, del cit. decreto legge n.429 del 1982, contemplava come delitto la condotta dell'omesso versamento delle ritenute effettivamente operate a titolo d'acconto o di imposta. La medesima norma, come novellata dal successivo art. 3 del cit. decreto legge n.83 del 1991, ha operato (al secondo e terzo comma) una distinzione nell'ambito dell'unica condotta presa indistintamente in considerazione dalla precedente norma incriminatrice. Ed infatti costituisce reato contravvenzionale l'omesso tempestivo versamento delle ritenute che superano un determinato ammontare (lire cinquanta milioni per ciascun periodo di imposta, senza peraltro tener conto di quelle inferiori al 5 per cento delle ritenute relative al singolo percipiente); al di sotto di tale soglia la condotta non è penalmente rilevante. Ove poi all'omesso versamento delle imposte si accompagni anche il rilascio della relativa certificazione attestante le ritenute operate dal sostituto, il fatto integra rispettivamente gli estremi di un delitto se le ritenute omesse superano l'ammontare di lire venticinque milioni per ciascun periodo di imposta ovvero gli estremi di una contravvenzione in caso di ritenute omesse per più di lire dieci milioni (ma meno di venticinque).
Anche in tale fattispecie risulta di conseguenza una soglia di non punibilità al di sotto della quale il fatto non è penalmente rilevante.
Complessivamente quindi all'unica condotta prevista dal legislatore del 1982 come delitto si è sostituito ad opera della novella del 1991 un sistema modulare di più fattispecie, taluna sanzionata come delitto, talaltra come contravvenzione, talaltra ancora penalmente irrilevante (ancorchè costituente illecito tributario).
Il raccordo poi tra la vecchia e la nuova disciplina (più favorevole) è operato dagli artt. 7 e 8 del cit. decreto legge n.83 del 1991.
Il legislatore ha innanzi tutto confermato (al primo comma del cit. art. 7) il principio del tempus regit actum secondo cui le disposizioni penali delle leggi finanziarie si applicano ai fatti commessi nel periodo della loro vigenza anche se successivamente queste stesse siano state modificate od abrogate (art. 20 legge 7 gennaio 1929 n. 4). Ha però altresì contemplato alcune eccezioni (tra cui, appunto, il reato di omesso tempestivo versamento delle ritenute da parte del sostituto d'imposta) prevedendo viceversa l'applicazione della meno severa normativa del 1991 in ragione del generale principio della retroattività della più favorevole legge penale successiva, di cui al secondo e terzo comma dell'art.2 c.p..
Tale deroga all'art. 20 cit. (con conseguente ripristino del regime ordinario dettato dall'art. 2 c.p. in tema di successione della legge penale nel tempo) non è però incondizionata, ma è subordinata al fatto che l'autore della condotta provveda, per ciascun periodo d'imposta cui le violazioni si riferiscono, alla <<regolarizzazione>> nei modi di cui all'art. 8 cit. Tale norma a sua volta prevede (al primo comma) la definizione della violazione mediante pagamento, per ciascuno periodo di imposta, di lire un milione, da versarsi entro il 31 luglio 1991 ovvero entro sessanta giorni dalla notifica dell'avviso di garanzia. Il successivo comma della medesima norma, che ripete il disposto del sesto comma dell'art.21, contempla poi che, se il sostituto d'imposta paga le ritenute omesse entro il termine del 31 dicembre 1990 (e a maggior ragione se le ha già pagate), beneficia dell'esenzione da sanzioni amministrative e, per quelle eventualmente già iscritte a ruolo, del relativo sgravio con la conseguenza che, se viceversa non effettua il versamento, rimane non solo tenuto al pagamento delle ritenute, ma gli saranno anche irrogate le pene pecuniarie.
3. Questa premessa in ordine al complesso normativo in cui si inserisce la disposizione censurata evidenzia che la qualificazione di disposizione più favorevole della nuova disciplina posta dall'art. 3 del decreto legge n.83 del 1991 cit., va riscontrata e valutata tenendo conto del trattamento progressivamente differenziato, come appena descritto, dell'unica condotta già prevista dall'art. 2, secondo comma, decreto legge n.429 del 1982 cit.
Il thema decidendum all'esame di questa Corte va quindi puntualizzato in riferimento alla fattispecie descritta dal giudice a quo nell'ordinanza di rimessione (per la quale soltanto sussiste la rilevanza della questione di costituzionalità), e alla sua riconducibilità ad una delle ipotesi previste dall'art. 3 cit.; tale fattispecie consiste in una condotta (omesso tempestivo versamento della ritenuta di lire 108.000) che nel regime del decreto legge n.429 del 1982 costituiva reato, mentre non è più tale dopo il decreto legge n. 83 del 1991, perchè ben al di sotto della soglia di punibilità di cui sia al secondo che al terzo comma dell'art. 2, come novellato.
Il carattere di disposizione più favorevole di quest'ultima norma consiste nell'intervenuta depenalizzazione della condotta in esame sicchè - ove non operasse il regime speciale dettato dall'art. 20 della legge n.4 del 1929 - troverebbe applicazione il secondo comma dell'art. 2 c.p., secondo cui nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato e, se vi è stata condanna, ne cessano gli effetti.
Non vengono invece in rilievo, perchè estranei alla fattispecie all'esame del giudice rimettente e quindi non rilevanti nel giudizio di costituzionalità, altri profili (diversi da quello consistente nella sopravvenuta abolitio criminis) che consentono di qualificare non di meno come legge posteriore più favorevole la normativa del 1991 rispetto a quella del 1982, profili quali quelli che discendono dalla diversa configurazione del reato (previsto in taluni casi quale contravvenzione e non più quale delitto) ovvero dalla diversa entità della pena ed in relazione ai quali troverebbe applicazione il terzo comma dell'art.2 c.p., ove non derogato dall'art. 20 cit.
La verifica della legittimità costituzionale dell'art. 7 censurato va quindi condotta con riferimento alla parte in cui tale norma condiziona l'applicabilità del secondo comma dell'art. 2 c.p. (cioè l'abolitio criminis) al pagamento di una somma di danaro; è invece fuori dal thema decidendum l'esame della medesima norma nella parte in cui condiziona allo stesso pagamento l'operatività del terzo comma dell'art. 2 c.p. (cioé l'applicabilità della normativa successiva più favorevole all'imputato quanto alla qualificazione del reato e alla misura della pena).
4. La censura del giudice rimettente, così delimitata, non tocca la legittimità costituzionale - peraltro ritenuta da questa Corte in numerose pronunce (fin dalla sentenza n. 164 del 1974, ripetutamente confermata in seguito: v., ex plurimis, ord. n. 256 del 1985, ord. n. 166 del 1980, sent. n. 30 del 1979) - dello speciale regime di deroga all'art. 2 c.p. previsto dall'art. 20 della legge n.4 del 1929 per le disposizioni penali delle leggi finanziarie, ma attinge esclusivamente il presupposto al quale è condizionato il ripristino dell'ordinario regime del secondo comma del medesimo art. 2, ossia la <<regolarizzazione>> effettuata dal sostituto d'imposta nei modi di cui all'art. 8 cit.
Tenendo quindi presente l'ipotesi dell'abolitio criminis (e pretermettendo quella dell'incriminazione per un reato meno grave) può dirsi che nella fattispecie in esame la <<regolarizzazione>> - termine questo ellittico e, probabilmente, improprio - rappresenta un meccanismo complesso (perchè opera attraverso una norma - l'art. 7 - di deroga all'art. 20, che a sua volta pone un regime speciale rispetto a quello generale dettato dall'art. 2 c.p.), diretto a realizzare una situazione non dissimile dall'oblazione (di oblazione tout court si parla infatti ripetutamente negli atti parlamentari) nell'ambito della variegata tipologia delle misure di clemenza condizionate, materia in cui <<ampia>> è la discrezionalità del legislatore (ord. n. 548 del 1987) che può creare <<del tutto inediti meccanismi di funzionamento>> nell'esercizio della <<generale potestà di clemenza dello Stato>> (v. sent. n.369 del 1988, che peraltro, seppur in diversa fattispecie, ha ritenuto che il pagamento fatto per beneficiare del condono edilizio di cui alla legge n.47 del 1985 fosse imputabile a titolo di oblazione). L'imputato quindi in realtà non "regolarizza" la sua posizione fiscale (che, come nel caso di specie, potrebbe essere del tutto esaurita per aver egli versato le ritenute e pagato le pene pecuniarie talchè non ci sarebbe nulla da "regolarizzare") sì da poter beneficiare dell'abolitio criminis come conseguente effetto premiale del comportamento meritevole tenuto; bensì definisce la sua pendenza penale, che tale rimane anche nel caso di intervenuto versamento delle ritenute e di pagamento delle sanzioni, accettando di assoggettarsi al pagamento di una somma di danaro e in tal modo - così come nell'oblazione - gli è dato sottrarsi alla sanzione penale. Nè, ai fini che interessano, è apprezzabile la differenza per cui, con il pagamento suddetto, si ha che in caso di oblazione il reato è estinto, mentre nel caso previsto dalla norma censurata il fatto non costituisce reato.
Che rilevi autonomamente tale profilo di clemenza trova ulteriori indiretti riscontri: da una parte il termine per "regolarizzare" non è rigidamente ancorato unicamente alla data fissa (del 31 luglio 1991), ma è posto in relazione ad un atto del processo penale (60 giorni dalla notifica dell'avviso di garanzia); d'altra parte il profilo fiscale relativo al versamento delle ritenute e all'applicazione delle sanzioni amministrative corre su un binario distinto che è quello del cit. secondo comma dell'art.8, disposizione questa che contempla l'esonero dalle sanzioni amministrative in favore del sostituto in caso di versamento delle ritenute omesse entro il termine (questo, sì, fisso e disancorato dalla data di notifica dell'avviso di garanzia) del 31 luglio 1991.
L'evidenziato aspetto di clemenza si coniuga con l'obiettivo, perseguito dal legislatore del 1991, di deflazionare il carico degli uffici giudiziari prevedendo una possibilità di rapida definizione della pendenza penale, profilo questo che peraltro la Corte ha già evidenziato come caratterizzante l'istituto dell'oblazione (sent. n. 207 del 1974) e non estraneo agli stessi provvedimenti di clemenza (sent. n. 369 del 1988).
5. Tale speciale meccanismo normativo, che condiziona l'abolitio criminis al pagamento di una somma di danaro, non collide con l'art. 53 della Costituzione.
L'interesse (differenziato) al regolare pagamento dei tributi - che è riconducibile al citato canone costituzionale e che secondo la citata giurisprudenza della Corte giustifica il principio dell'ultrattività della norma penale tributaria di cui all'art. 20 della legge n. 4 del 1929 - è liberamente apprezzabile dal legislatore, il quale può giungere anche a ritenere che esso, in determinate fattispecie, sfumi del tutto (così gli artt. 4 decreto legge 870 del 1970 e 7 legge n.724 del 1975, che prevedono ipotesi di deroghe incondizionate all'art. 20). Tra questi due estremi (conferma dell'art. 20 e persistenza del reato, oppure incondizionata applicazione del secondo comma dell'art. 2 c.p. e conseguente depenalizzazione) il legislatore può optare per una soluzione intermedia, qual è quella espressa dalla depenalizzazione condizionata alla <<regolarizzazione>>.
La somma corrisposta dall'imputato quindi va posta in relazione alla permanente (ancorchè attenuata) valutazione di disvalore dello Stato per il comportamento illecito tenuto; essa ha una funzione in senso lato sanzionatoria e rappresenta un momento di bilanciamento tra l'interesse al regolare pagamento dei tributi (che di per sè giustificherebbe la più rigida applicazione dell'art. 20) e l'interesse ad innescare un meccanismo di deflazione dei numerosi processi penali pendenti (che farebbe propendere per un'incondizionata applicabilità del secondo comma dell'art. 2 c.p., così come del resto originariamente previsto dalla legge di conversione nel testo licenziato dalla Camera dei deputati prima delle modifiche apportate dal Senato). In questa prospettiva l'art. 53 non è violato perchè permane - come già rilevato - l'interesse al regolare pagamento dei tributi come ratio sottesa al meccanismo della regolarizzazione, anche se esso è affievolito in ragione di una diversa valutazione del ruolo della sanzione penale nella repressione degli illeciti tributari e del concorrente interesse alla deflazione dei processi penali pendenti.
In conclusione quindi, nel momento in cui il legislatore formula diversamente il suo giudizio di disvalore in ordine a taluni illeciti fiscali, già ritenuti penalmente rilevanti, e li depenalizza, mantenendone però la qualificazione di illegittimità sotto il profilo tributario, non viene meno, rispetto alla loro prevenzione e repressione, la configurabilità dell'interesse tributario di cui all'art. 53 Cost.; nè può dirsi che a tale interesse non siano correlati, o da esso siano del tutto sganciati, la eventuale limitazione, in qualche modo prevista, della deroga al principio di cui all'art. 20 cit. e, al positivo, il parziale mantenimento della irretroattività della legge successiva.
6. Va infine affermata l'infondatezza della censura del giudice rimettente anche sotto il profilo dell'art. 3 Cost. per disparità di trattamento in quanto conseguenziale a quanto sopra esposto in relazione all'art. 53 Cost; ed infatti, una volta ritenuta la compatibilità della <<regolarizzazione>> de qua con quest'ultimo parametro, la disciplina differenziata prevista per chi tale regolarizzazione abbia operato e per chi viceversa non l'abbia effettuata non viola il principio di eguaglianza per la diversità delle situazioni poste in comparazione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art.7, secondo comma, decreto legge 16 marzo 1991 n.83, convertito in legge 15 maggio 1991 n.154 (Modifiche al decreto legge 10 luglio 1982 n.429, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1982 n.516, in materia di repressione delle violazioni tributarie e disposizioni per definire le relative pendenze), in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, sollevata dal Tribunale di Pesaro con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13/04/92.
Aldo CORASANITI, Presidente
Renato GRANATA, Redattore
Depositata in cancelleria il 22/04/92.