SENTENZA N. 183
ANNO 1981
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici
Prof. Leopoldo ELIA, Presidente
Prof. Edoardo VOLTERRA
Dott. Michele ROSSANO
Prof. Guglielmo ROEHRSSEN
Avv. Oronzo REALE
Dott. Brunetto BUCCIARELLI DUCCI
Avv. Alberto MALAGUGINI
Prof. Livio PALADIN
Prof. Antonio LA PERGOLA
Prof. Virgilio ANDRIOLI
Prof. Giuseppe FERRARI
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio promosso dal Presidente della Giunta regionale siciliana con ricorso nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 24 aprile 1980, depositato in cancelleria il 29 successivo ed iscritto al n. 8 del registro 1980, per conflitto di attribuzione sorto a seguito della sentenza del Pretore di Augusta del 18 febbraio 1980, nella parte in cui ha ordinato al Governo ed all'Assemblea della Regione Sicilia di sospendere Salvatore Placenti, Assessore alla Sanità, dalle funzioni governative ed assembleari.
Udito nell'udienza pubblica del 7 ottobre 1981 il Giudice relatore Livio Paladin;
udito l'avvocato Silvio De Fina per la Regione Sicilia.
Ritenuto in fatto
1. - Mediante una sentenza emessa il 18 febbraio 1980, il Pretore di Augusta ha dichiarato Salvatore Placenti (assessore alla sanità e deputato all'Assemblea regionale siciliana) colpevole del delitto di cui all'art. 328 cod. pen., condannandolo alla pena di mesi nove e giorni quindici di reclusione, nonché all'interdizione dai pubblici uffici per la durata di un anno; ed ha ordinato altresì - in applicazione degli artt. 140 cod. pen. e 485 cod. proc. pen. - che il Placenti venisse immediatamente e provvisoriamente privato dell'esercizio dei pubblici uffici, comunicando pertanto la sentenza - "ai sensi e per gli effetti dell'art. 587 c.p.p." - sia al Presidente dell'Assemblea regionale sia al Presidente della Regione siciliana, con lettera datata 21 febbraio e pervenuta alla Regione stessa il 28 febbraio 1980. In relazione a quest'ultima parte della sentenza predetta, la Regione ha però sollevato, con ricorso notificato il 24 aprile 1980, conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri (che non si è costituito nel presente giudizio).
In effetti, la ricorrente non contesta la giurisdizione del giudice penale sui singoli componenti del Governo e dell'Assemblea regionale. L'esecuzione del giudicato penale nei loro confronti non potrebbe costituire una "causa di menomazione dell'autonomia costituzionale degli organi politici, anch'essi soggetti alla legge nel nostro ordinamento". E, di conseguenza, la Regione non solleverebbe alcuna obiezione qualora la pena dell'interdizione dai pubblici uffici venisse eseguita nei confronti del Placenti per effetto di sentenza passata in giudicato.
Nel caso in questione, viceversa, si tratterebbe di un provvedimento avente una funzione cautelare (come precisato dalla Corte nella sentenza n. 78 del 1969), l'esecuzione del quale dovrebbe essere attuata coattivamente dagli stessi organi regionali interessati. Ma l'applicazione degli artt. 140 cod. pen. e 485 cod. proc. pen. a "pubblici uffici" come quelli legislativi e di governo non potrebbe considerarsi compatibile con le "prerogative costituzionali" statutariamente proprie della Giunta e dell'Assemblea siciliana. Se così fosse e se l'imputazione di cui all'art. 328 cod. pen. non avesse riguardato il solo Placenti ma tutti i componenti della Giunta e dell'Assemblea, l'ordinanza del Pretore di Augusta avrebbe comportato addirittura la caduta dell'una o lo scioglimento dell'altra; e ciò - si precisa - "per una causa di cui è impossibile ritrovare traccia nell'ordinamento statutario-costituzionale". Del resto, il problema si porrebbe negli stessi termini anche per gli organi legislativi dello Stato, qualora il giudice penale intendesse sospendere cautelativamente parlamentari per i quali fosse stata concessa l'autorizzazione a procedere.
Conclusivamente, nessuna norma statutaria o costituzionale consentirebbe "ad alcun organo esterno di privare il Governo e l'Assemblea di un proprio membro al di fuori dei casi tassativamente stabiliti dallo Statuto siciliano". E ne discenderebbe che, dovendosi interpretare le norme del diritto comune in armonia con le norme costituzionali (quali anche le norme statutarie in esame), l'art. 140 cod. pen. non sarebbe applicabile in tal campo.
Il ricorso afferma pertanto l'illegittimità costituzionale del provvedimento impugnato, "per violazione degli artt. 1, 3, 8, 9 e 20 dello Statuto siciliano e per violazione del principio della divisione dei poteri tra la giurisdizione penale dello Stato e la funzione governativa e legislativa della Regione"; ed anzi richiede alla Corte la sospensione del provvedimento medesimo, adducendo la sussistenza delle gravi ragioni prescritte in tal senso.
2. - Sotto quest'ultimo profilo, la Corte si è già pronunciata con l'ordinanza n. 94 del 1980. Riservato ogni giudizio sull'ammissibilità e sul merito del ricorso, la Corte ha cioè rigettato l'istanza di sospensione, per quanto riguardava Salvatore Placenti quale componente della Giunta regionale; ed ha invece ritenuto che sussistessero gravi ragioni, "inerenti al funzionamento dell'Assemblea regionale siciliana", per sospendere l'esecuzione dell'impugnata sentenza del Pretore di Augusta, nella parte in cui l'interessato veniva "provvisoriamente privato dell'esercizio del pubblico ufficio di deputato regionale".
Per altro, tale ordinanza è stata a sua volta impugnata dal Tribunale di Siracusa, mediante ricorso per conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato, sollevato nei confronti di questa stessa Corte. Ma la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso predetto, con l'ordinanza n. 77 del 1981.
Considerato in diritto
1. - Nel ricorso introduttivo del presente giudizio si nega che spetti al Pretore di Augusta, quale organo giurisdizionale dello Stato, "ordinare la sospensione cautelare di propri membri al Governo ed all'Assemblea della Regione siciliana"; e, per questa parte, si chiede che la Corte annulli la sentenza del 18 febbraio 1980, con cui tale giudice ha disposto che Salvatore Placenti venisse sospeso, in quanto assessore regionale alla sanità ed in quanto deputato dell'Assemblea regionale, dall'esercizio delle funzioni governative e assembleari. L'art. 140 cod. pen., applicato a questi effetti dal Pretore di Augusta, concernerebbe "soltanto gli uffici amministrativi degli enti pubblici (Stato compreso) la cui funzione è istituzionalmente aperta a qualsiasi intervento di tipo giurisdizionale secondo l'ordinamento legislativo comune". Per contro, la sospensione di assessori e deputati regionali siciliani non sarebbe ipotizzabile "al di fuori dei casi tassativamente stabiliti dallo Statuto siciliano, legge costituzionale dello Stato": "prescindendo dai casi di morte, interdizione, ineleggibilità e incompatibilità" - aggiunge infatti il ricorso - unicamente "la sfiducia dell'Assemblea (quanto al mandato governativo) ovvero il suffragio universale (quanto al mandato assembleare)" potrebbero "alterare la struttura e la composizione del Governo e dell'Assemblea della Regione".
Ciò posto, il ricorso va considerato ammissibile. Da un lato, esso risulta tempestivamente notificato dal Presidente della Giunta regionale siciliana, previa delibera autorizzativa della Giunta medesima, al Presidente del Consiglio dei ministri, cui spetta la legittimazione passiva in qualsiasi conflitto di attribuzione fra Regioni e Stato (come prevede esplicitamente l'art. 27; primo comma, delle Norme integrative per i giudici davanti alla Corte costituzionale e come la Corte stessa ha precisato nella sentenza n. 110 del 1970). D'altro lato, non si può dubitare che nel caso in esame sussista la materia di un conflitto. A partire dalla sentenza n. 66 del 1964, la Corte ha più volte ritenuto che un conflitto instaurato da parte regionale sia suscettibile di trarre origine da un atto giurisdizionale, là dove ne possa conseguire la menomazione della competenza o dell'autonomia, costituzionalmente attribuite alla Regione. Ed è precisamente in questo senso che la Sicilia ha proposto ricorso: non già censurando l'illegittimità del modo in cui si è concretamente esplicata la giurisdizione del Pretore di Augusta; bensì deducendo che al Pretore stesso, come anche a qualsiasi altro giudice penale, sarebbe sottratta in radice - alla stregua di norme o principi di rango costituzionale, sia pure inespressi ma univocamente desumibili dallo Statuto speciale siciliano - la facoltà di fare provvisoria applicazione di pene accessorie, nei riguardi dei titolari dei pubblico ufficio di assessore o deputato regionale.
2. - Nel merito, il ricorso si fonda sulla premessa che, di fronte al potere giurisdizionale di sospensione dall'esercizio dei pubblici uffici (configurato dagli artt. 140 cod. pen. e 485 cod. proc. pen.), deputati ed assessori della Regione siciliana siano accomunati da un'identica situazione di immunità, implicitamente garantita dallo Statuto speciale. Ma tale impostazione non può esser condivisa, per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, dato il principio di eguale soggezione di tutti i cittadini alla giurisdizione penale dello Stato, non è risolutiva la circostanza che la sospensione non sia testualmente prevista - a questi effetti - da nessuna disposizione statutaria; né gli inconvenienti che potrebbero discendere da un troppo largo esercizio della facoltà in esame valgono ad escludere - da soli - la possibilità che il giudice vi faccia legittimo ricorso, quanto ai componenti del Governo e dell'Assemblea regionali. In secondo luogo, deputati ed assessori siciliani si trovano comunque in posizioni ben distinte e diversamente regolate dallo Statuto speciale, per cui l'eventualità di una loro sospensione dall'esercizio dei rispettivi uffici dev'essere separatamente valutata: dapprima esaminando se i componenti dell'Assemblea regionale siano costituzionalmente esentati dall'applicazione dell'art. 140 cod. pen., per poi stabilire - nel caso affermativo - se allo stesso risultato debba pervenirsi per i componenti del Governo della Regione.
Ora, per quanto concerne i deputati siciliani (ed i consiglieri regionali in genere) va ricordato anzitutto che - in base alla generalissima disposizione dell'art. 48 terzo comma Cost. "il diritto di voto non può essere limitato se non... per effetto di sentenza penale irrevocabile...". Tale previsione riguarda, testualmente, il solo elettorato attivo, la disciplina del quale non può certo esser confusa con quella pertinente alla capacità elettorale passiva. Ma l'esigenza che gli eletti non siano privati dell'ufficio, finché non intervenga una definitiva condanna implicante la loro interdizione, assume anch'essa - in linea di massima - un preciso rilievo costituzionale. Come questa Corte ha sostenuto nella sentenza n. 46 del 1969, "le cause di ineleggibilità, derogando al principio costituzionale della generalità del diritto elettorale passivo, sono di stretta interpretazione e devono comunque rigorosamente contenersi entro i limiti di quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire la soddisfazione delle esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate". Ed il criterio sintetizzato dalla Corte con l'assunto che "l'eleggibilità è la regola, l'ineleggibilità è l'eccezione", vale non soltanto per le cause originarie di esclusione, ma anche per le cause sopraggiunte, compresa l'ipotesi di provvisoria sospensione dall'esercizio delle cariche elettive. In altre parole, malgrado la citata statuizione dell'art. 48, terzo comma, non s'imponga in questo campo con la stessa assolutezza che essa presenta in tema di limitazioni dell'elettorato attivo, resta che l'interesse alla conservazione dei collegi eletti dal popolo non può essere sacrificato, se non in considerazione di effettive necessità di giustizia, rimesse alle non arbitrarie valutazioni del legislatore. Non è dunque casuale che entrambe le Camere abbiano recentemente esaminato ed approvato un testo di legge non ancora promulgato, recante modifiche al sistema penale, con il quale si esclude fra l'altro - all'art. 124, terzo comma - l'applicabilità dell'art. 140 cod. pen. a carico dei titolari di "uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare".
Tuttavia, nel caso dei consiglieri regionali (non diversamente, sotto questo aspetto, che nel caso dei parlamentari), concorrono indicazioni costituzionali più specifiche e stringenti. Tanto i deputati siciliani (secondo l'art. 6 dello Statuto speciale), quanto i consiglieri delle Regioni di diritto comune (in base all'analogo disposto del quarto comma dell'art. 122 Cost.), sono infatti equiparati ai deputati ed ai senatori della Repubblica, perchè insindacabili od irresponsabili "per i voti dati nell'Assemblea regionale e per le opinioni espresse nell'esercizio della loro funzione". In vista di tale disciplina la Corte ha sostenuto (con la sentenza n. 81 del 1975) che le conseguenti "deroghe all'attuazione della funzione giurisdizionale " - ispirate come sono allo scopo di rendere "pienamente libere" le discussioni che abbiano comunque luogo in sede consiliare - abbracciano qualsiasi tipo di deliberazione, non soltanto legislativa e di indirizzo politico, ma anche adottata in "forma amministrativa"; ed ha pertanto affermato il difetto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria ad accertare le responsabilità penali dei consiglieri regionali, quanto ai voti espressi in seno ai Consigli. Ma, per ciò stesso, si pone ora il problema se la comprensiva immunità funzionale da cui sono così tutelati i consiglieri non sia tale da escludere a priori che in questo ambito possano farsi legittimamente valere le peculiari esigenze sulle quali si fonda l'art. 140 cod. pen. Ed al quesito si deve rispondere nel senso affermativo, riconoscendo che le ricordate norme statutarie e costituzionali non lasciano spazio alla provvisoria sospensione dell'imputato dall'esercizio dell'ufficio consiliare.
3. - La Corte non ignora che l'istituto dell'applicazione provvisoria di pene accessorie ha formato e forma l'oggetto di questioni e dibattiti concernenti la sua natura e la sua ragion d'essere. Ma, anche in questo campo, si possono fissare alcuni punti fermi, determinanti per la risoluzione dell'attuale controversia.
La stessa Corte si è già pronunciata in proposito, con la sentenza n. 78 del 1969: nella quale si chiarisce - in riferimento al secondo comma dell'art. 27 Cost. ("l'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva") - che quelle previste nell'art. 140 cod. pen. vanno ricostruite alla stregua "di misure cautelari, e non di sanzioni penali irrogate prima del giudizio e quasi anticipandone i risultati". L'applicazione provvisoria di pene accessorie appare cioè finalizzata - come si suole ritenere anche in dottrina, sia pure con prospettazioni e con valutazioni fortemente eterogenee - ad evitare il pericolo che dal continuato esercizio di un pubblico ufficio (o di una professione o di un'arte o della patria potestà...), da parte dell'imputato di un reato implicante l'interdizione ai sensi degli artt. 28 ss. cod. pen., possano discendere ulteriori abusi penalmente illeciti. In effetti, è questo il concetto che già si ricava sia dai lavori preparatori sia dal testo stesso dell'art. 140. Da un lato, la relazione sul progetto del codice penale osserva che si tratta di una norma avente "intenti di sicurezza" e definisce il provvedimento del tipo in esame come una "misura amministrativa", affiancandolo alla carcerazione preventiva. D'altro lato, solo in tal senso si spiega che l'art. 140 preveda espressamente la sospensione dall'esercizio di taluni specifici uffici, accanto all'ipotesi d'una applicazione provvisoria indiscriminata. Ed è appunto in questa prospettiva che l'art. 124, primo comma, del ricordato testo di legge in tema di modifiche al sistema penale, precisa ora che alla sospensione stessa non può farsi ricorso, se non "quando sussistano specificate, inderogabili esigenze istruttorie o sia necessario impedire che il reato venga portato a conseguenze ulteriori".
Ciò basta per concludere che la norma in questione non può comportare la sospensione dall'esercizio dell'ufficio di consigliere regionale, per l'ovvia ragione che detto ufficio - in sé considerato - risulta coperto da una piena immunità penale; sicché la provvisoria privazione non potrebbe svolgere, in tal caso, la funzione cautelare che le è propria. Se dunque l'art. 140 cod. pen. trovasse applicazione a carico di un consigliere regionale (come pure di un parlamentare per cui fosse stata concessa l'autorizzazione a procedere), il provvedimento non sarebbe adottato in nome di alcuna effettiva esigenza di giustizia o di prevenzione speciale, bensì esprimerebbe - in sostanza - la convinzione del giudice che l'imputato sia indegno di esercitare la carica elettiva; e ciò, prescindendo da quella "condanna definitiva", che il secondo comma dell'art. 27 Cost. esige agli effetti della presunzione di non colpevolezza.
A tale conclusione, d'altra parte, è dato pervenire indipendentemente da una dichiarazione di parziale illegittimità dell'art. 140. Sistematicamente interpretata, la norma generale sull'applicazione provvisoria di pene accessorie va infatti armonizzata con il particolare disposto, successivamente introdotto dall'art. 6 dello Statuto siciliano: con la conseguenza che il ricorso proposto dalla Regione Sicilia dev'essere senz'altro accolto, nella parte concernente Salvatore Placenti quale deputato dell'Assemblea regionale.
4. - Viceversa, nessuna delle ragioni utilizzabili per escludere la provvisoria sospensione dei deputati regionali siciliani vale a risolvere nel medesimo senso il corrispondente problema relativo agli assessori.
Anche in Sicilia, i componenti della Giunta regionale sono ormai sottoposti al comune ordinamento processuale penale, da quando la Corte ha dichiarato - con la sentenza n. 6 del 1970 - l'illegittimità costituzionale degli artt. 26 e 27 dello Statuto speciale siciliano. E la ricordata sentenza n. 81 del 1975 ha d'altronde chiarito, in termini che non potrebbero non riferirsi a qualsiasi Regione, che l'irresponsabilità dei consiglieri non si estende a coprire le funzioni della Giunta, perchè non lo consentano la lettera dell'art. 122 Cost. e la ragion d'essere di tale immunità.
Né rientra fra i compiti di questa Corte stabilire se dell'art. 140 cod. pen. sia stata operata, nella parte concernente Salvatore Placenti quale membro del Governo siciliano, una corretta e prudente applicazione, imposta da specifici motivi di giustizia o di tutela della collettività. Valutazioni del genere sono infatti riservate al giudice penale; ed il ricorso in esame non ha comunque inteso contestarle nel merito.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara che non spetta agli organi giurisdizionali dello Stato la facoltà di sospendere provvisoriamente dall'esercizio del loro ufficio - in applicazione degli artt. 140 cod. pen. e 485 cod. proc. pen. - i deputati dell'Assemblea regionale siciliana; e, di conseguenza, annulla la sentenza pronunciata dal Pretore di Augusta, il 18 febbraio 1980, nella parte in cui ordina che Salvatore Placenti sia provvisoriamente privato dell'esercizio del pubblico ufficio di deputato regionale;
2) dichiara che spetta agli organi giurisdizionali dello Stato la facoltà di sospendere provvisoriamente dall'esercizio del loro ufficio - in applicazione degli artt. 140 cod. pen. e 485 cod. proc. pen. - gli assessori della Giunta regionale siciliana.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 novembre 1981.
Leopoldo ELIA - Edoardo VOLTERRA - Michele ROSSANO - Guglielmo ROEHRSSEN - Oronzo REALE - Brunetto BUCCIARELLI DUCCI - Alberto MALAGUGINI - Livio PALADIN - Antonio LA PERGOLA - Virgilio ANDRIOLI - Giuseppe FERRARI.
Giovanni VITALE – Cancelliere
Depositata in cancelleria il 10 dicembre 1981.