Sentenza n.172 del 1972

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SENTENZA N. 172

ANNO 1972

 

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

Prof. Giuseppe CHIARELLI, Presidente

Prof. Costantino MORTATI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

Avv. Leonetto AMADEI

Prof. Giulio GIONFRIDA, Giudici,

Ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 21, terzo e quarto comma, della legge sulla stampa 8 febbraio 1948, n. 47, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 2 dicembre 1970 dal tribunale di Ascoli Piceno nel procedimento penale a carico di De Panicis Luigi e Azzanesi Carlo, iscritta al n. 129 del registro ordinanze 1971 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 119 del 12 maggio 1971;

2) ordinanza emessa il 7 dicembre 1971 dal tribunale di Ascoli Piceno nel procedimento penale a carico di Marchegiani Francesco, iscritta al n. 35 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 65 dell'8 marzo 1972;

3) ordinanza emessa il 22 gennaio 1972 dalla Corte d'assise di Firenze nel procedimento penale a carico di Messana Alberto e Pannella Giacinto Marco, iscritta al n. 54 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 97 del 12 aprile 1972;

4) ordinanze emesse il 28 febbraio 1972 dal tribunale di Firenze nel procedimento penale a carico di Chiarugi Giulio e il 24 febbraio 1972 dalla Corte d'assise di Campobasso nel procedimento penale a carico di Ferri Nicola ed altri, iscritte ai nn. 120 e 129 del registro ordinanze 1972 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 134 del 24 maggio 1972;

5) ordinanza emessa il 24 marzo 1972 dal tribunale di Pisa nel procedimento penale a carico di Buffa Giovanni ed altri, iscritta al n. 171 del registro ordinanze 1972 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 158 del 21 giugno 1972.

Udito nell'udienza pubblica del 25 ottobre 1972 il Giudice relatore Francesco Paolo Bonifacio.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Con ordinanza del 2 dicembre 1970 il tribunale di Ascoli Piceno ha proposto varie questioni di legittimità costituzionale concernenti l'art. 21 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, in forza del quale per i reati commessi col mezzo della stampa si procede col rito direttissimo.

Premesso che il procedimento previsto dalla legge impugnata é svincolato dai presupposti, dalle forme e dalle modalità alternative di definizione che caratterizzano il giudizio direttissimo disciplinato dal codice di procedura penale (articoli 502 ss.), il tribunale esprime l'avviso che esso si risolva in un limite ed in un ostacolo alla libertà tutelata dall'art. 21 della Costituzione: l'obbligatorietà del rito, sottraendo al prudente arbitrio dell'autorità giudiziaria la disciplina della materia, violerebbe il sistema costituzionale di garanzia che assiste la libertà di stampa; la carenza di una disciplina processuale compiuta e prestabilita, imponendo che si proceda "in forma analogica", avrebbe per conseguenza la sostanziale immotivazione dell'atto col quale si sottopone l'imputato a giudizio e con ciò verrebbe violato l'art. 111 Cost.; la non obbligatorietà del previo interrogatorio dell'imputato non si risolve affatto nel divieto di procedere a tale atto e perciò sarebbe conferita al pubblico ministero una scelta in proposito, insindacabile ed immotivata, in contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost.; l'esclusione della possibilità di definire il giudizio in fase istruttoria, confliggendo con l'interesse dell'imputato a veder riconosciuta la propria innocenza prima di esser tratto a dibattimento, violerebbe l'art. 24 Cost. e nello stesso tempo, atteso che nel vigente ordinamento processuale é sempre prevista quanto meno la possibilità che il giudice istruttore sia investito della richiesta di proscioglimento, sottrarrebbe l'imputato - contro il disposto dell'art. 25 Cost. - al suo giudice naturale; infine, l'obbligatorietà del rito, impedendo la valutazione del fatto che é implicita nel promovimento dell'azione penale, comporterebbe una limitazione dei poteri del pubblico ministero, mentre l'obbligo fatto al giudice di pronunziare la sentenza entro trenta giorni dalla querela o dalla denuncia realizzerebbe un'illegittima interferenza nell'esercizio della funzione giudiziaria ed una violazione dell'indipendenza del giudice (art. 104 Cost.).

2. - Lo stesso tribunale di Ascoli Piceno - ord. 7 dicembre 1971 - denuncia l'art. 21 della legge sulla stampa per violazione degli artt. 3 e 111 Cost., a causa della scelta immotivata conferita al pubblico ministero in ordine al previo interrogatorio dell'imputato, e dell'art. 104 Cost., a causa dell'imposizione di un termine per la pronuncia finale.

3. - Ad avviso della Corte di assise di primo grado di Firenze - ord. 22 gennaio 1972 - l'art. 21 della legge sulla stampa, stabilendo che si proceda col rito direttissimo in ogni caso e, quindi, pur in assenza dei presupposti richiesti dagli artt. 502 e ss. cod. proc. pen., assoggetterebbe al medesimo trattamento casi obiettivamente diversi (in violazione dell'articolo 3 Cost.) e, non consentendo all'imputato di avvalersi delle facoltà previste dall'art. 389, quarto comma, cod. proc. pen., determinerebbe un'ulteriore violazione del principio di eguaglianza.

4. - A sua volta il tribunale di Firenze - ord. 28 febbraio 1972 - ritiene non manifestamente infondato il dubbio che l'art. 21 della legge sulla stampa, escludendo la possibilità, ammessa nel comune giudizio direttissimo disciplinato dal codice, che il giudice del dibattimento disponga che si proceda ad istruzione formale oppure che gli atti siano restituiti al pubblico ministero, porrebbe sia l'imputato che la parte civile - specie quando siano necessarie indagini difficili e complesse - in una posizione d’inferiorità, realizzando una disparità di trattamento non compatibile con l'art. 3 della Costituzione.

5. - La Corte di assise di Campobasso - ord. 24 febbraio 1972 - denuncia l'art. 21 della legge sulla stampa sotto vari profili: perché chi é indiziato di reato commesso col mezzo della stampa viene trattato diversamente da ogni altro imputato (art. 3 Cost.); perché la minaccia di una procedura straordinaria può limitare la libertà garantita dall'art. 21 Cost.; perché l'indiziato non può difendersi nel periodo antecedente al giudizio (art. 24 Cost.) e non può avvalersi delle facoltà consentite dall'art. 389 cod. proc. pen.; perché non sembre giusto che il giudizio direttissimo, previsto dal codice per determinate ipotesi, venga esteso a chi fa uso della stampa per comunicare le proprie idee, a chi, cioé, si avvale di un diritto tutelato dalla Costituzione negli artt. 21 e 33.

6. - Un'ordinanza del tribunale di Pisa - 24 marzo 1972 - impugna lo stesso art. 21 facendo riferimento alle questioni proposte dall'ordinanza 2 dicembre 1970 del tribunale di Ascoli Piceno, dall'ordinanza 22 gennaio 1972 della Corte di assise di Firenze e, in via analogica, alla questione sollevata dallo stesso giudice a quo - ord. 29 ottobre 1971 - a proposito del rito direttissimo previsto dalla legge 2 ottobre 1967, n. 895.

7. - Innanzi a questa Corte non c'é stata costituzione di parti e non é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

Considerato in diritto

 

1. - Le sei ordinanze propongono questioni di legittimità costituzionale che tutte hanno ad oggetto l'art. 21 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 ("legge sulla stampa"). I relativi giudizi, pertanto, vanno riuniti e decisi con unica sentenza.

2. - In ordine logico la prima questione da decidere é se il terzo comma della disposizione impugnata - in forza del quale per i reati commessi col mezzo della stampa si procede con il rito direttissimo - sia in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, del quale si denuncia la violazione sotto due diversi profili: per l'eguale trattamento di fattispecie diverse, quali sono, da un lato, i reati commessi col mezzo della stampa e, dall'altro, i casi per i quali il codice di procedura penale (art. 502) consente il comune rito direttissimo; per la disparità di trattamento degli imputati, secondo che la imputazione riguardi un reato commesso con l'uso della stampa ovvero con altro mezzo.

La Corte ritiene che la questione non sia fondata. Vero é, infatti, che anche in materia processuale, nel prevedere procedure differenziate da quelle ordinarie e nel determinare i casi di applicazione delle prime, il legislatore - oltre che garantire comunque l'osservanza dei principi costituzionali che presiedono alla giurisdizione ed al processo - deve ispirarsi al canone della ragionevolezza: ma non può dirsi che nella legge in esame siano stati travalicati i limiti entro i quali può spaziare la sua discrezionalità politica. É in proposito da osservare che il particolare mezzo usato per la commissione dei reati, ai quali l'impugnato art. 21 si riferisce, può di per sé costituire non ingiustificato motivo per la scelta di una più rapida e semplificata procedura: l'omissione della fase istruttoria, il pronto intervento del giudice, l'immediata celebrazione del dibattimento possono esser giustificati sia dalla ragionevole valutazione, almeno in base all'id quod plerumque accidit, che la fattispecie in relazione alla quale si procede presenta una particolare evidenza, sia dall’opportunità che denunce e querele concernenti fatti commessi con uno dei più efficienti strumenti di formazione della pubblica opinione diano luogo a solleciti, definitivi accertamenti, nell'interesse stesso della stampa, alla quale, ove l'accusa sia giudicata infondata dopo un pubblico dibattimento, la sentenza assolutoria restituisce rapidamente quella credibilità e quella attendibilità che inevitabilmente sono messe in forse durante la pendenza di un processo penale.

3. - Numerose denunce d’illegittimità costituzionale sono state proposte dalle ordinanze con riferimento al carattere obbligatorio del rito direttissimo ed alle divergenze di disciplina che, rispetto al comune giudizio direttissimo regolato dal codice (artt. 502 e segg.), discendono da tale carattere secondo una consolidata giurisprudenza. condivisa da questa Corte - sentenze n. 56 del 1961 e n. 109 del 1970 - e dagli stessi giudici che hanno promosso gli attuali giudizi.

Va subito detto che, se é stato compito della giurisprudenza accertare quali disposizioni fra quelle contenute negli artt. 502 e segg. c.p.p. risultano applicabili alla procedura di cui qui ci si occupa, ovviamente ciò non significa affatto, al contrario di quanto mostra di ritenere il tribunale di Ascoli Piceno (ord. n. 129 del 1971), che ci si trovi di fronte ad una "carenza di una disciplina processuale prestabilita" e che di conseguenza l'atto col quale l'imputato viene tratto a giudizio sia "sostanzialmente immotivato". Risulta invece inequivocabilmente chiaro il dettato della legge, che vuole che ogni reato commesso col mezzo della stampa sia perseguito col rito direttissimo: tanto chiaro e tassativo che la stessa ordinanza in altro punto della motivazione rivolge alla legge l'opposta censura - anch'essa ictu oculi infondata - di aver sottratto "al prudente arbitrio dell'autorità giudiziaria... la disciplina in questione", di aver quindi violato "il sistema costituzionale di garanzia", in tal modo realizzando un'illegittima limitazione della libertà tutelata dall'art. 21 della Costituzione.

In verità, il fatto che il giudizio direttissimo previsto dalla disposizione impugnata non risulti del tutto assoggettabile, a causa della sua obbligatorietà, alle disposizioni dettate dagli artt. 502 e segg. c.p.p. e, specificamente, a quelle fra esse che si collegano appunto alla non obbligatorietà dell'ordinario giudizio direttissimo, é cosa che, di per sé, non é certo contraria alla Costituzione. Si tratta piuttosto di verificare se contrastanti col precetto costituzionale siano singole regole cui soggiace il rito direttissimo obbligatorio e, al limite, se una eventuale illegittimità di esse non investa l'intero istituto a causa della strettissima connessione fra tali regole e l'obbligatorietà del rito.

La Corte ritiene che al problema, posto in siffatti termini, debba darsi soluzione negativa.

Già altra volta - cfr. sentenza n. 109 del 1970 - questa Corte ha deciso che l'inapplicabilità al rito in esame dell'obbligo del previo, sommario interrogatorio dell'imputato, stabilito dall'art. 502 c.p.p., non contrasta con l'art. 24 della Costituzione. Alcune ordinanze propongono ora, a tal proposito, una diversa questione: posto che la non obbligatorietà dell'interrogatorio non significa che al pubblico ministero sia fatto divieto di procedervi, la legge, così interpretata, finirebbe col conferire all'organo requirente un potere di libera scelta non conciliabile con il principio di eguaglianza e per di più esercitabile con atto immotivato (da qui la denuncia in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost.). Si può consentire sulla premessa di questa tesi, non sulle conseguenze che se ne vogliono trarre sul piano della legittimità costituzionale. Ed invero, per quanto riguarda la prima di esse, é sufficiente qui richiamare i principi affermati dalla Corte nella sentenza n. 209 del 1971: se é connaturale al potere istituzionale dell'organo requirente la scelta delle modalità inerenti all'esercizio dell'azione penale, a maggior ragione ciò vale quando non si tratti, come nel caso allora esaminato, di optare per un rito od un altro, ma, più limitatamente, di interrogare o meno l'indiziato, ovviamente in base non ad una valutazione arbitraria, sibbene ad esigenze connesse col corretto promovimento dell'azione. Né sembra che in questo caso l'atto che dispone l'interrogatorio debba esser motivato più di quanto debba esserlo tutte le volte in cui a tale incombenza occorra provvedere per un adeguato svolgimento del processo; né, per coreverso, sembra che debba esser motivata l'omissione di un interrogatorio ritenuto superfluo quando dagli atti risultino sufficientemente specificati gli elementi obiettivi e subiettivi della promovenda azione penale.

É peraltro da rilevare che la questione di cui or ora si é discorso si collega all'altra questione di legittimità costituzionale - pur essa proposta in alcune ordinanze - concernente l'interesse dell'imputato a veder riconosciuta l'innocenza prima e fuori della fase dibattimentale. Tuttavia, al contrario di quanto affermano i giudici che hanno trattato quest'ulteriore tema, siffatto interesse - al quale, nella realtà della vita, non si può negare una certa rilevanza, anche se può ipotizzarsi l'interesse a che l'innocenza sia riconosciuta in un immediato dibattimento, con effetti definitivi che l'assoluzione istruttoria non produrrebbe - non appare costituzionalmente protetto. Si deve anzitutto osservare che, giacché il rito direttissimo (si tratti di quello ordinario disciplinato dal codice processuale ovvero di quello previsto dalla legge in esame) é preordinato all'immediato svolgimento del dibattimento, non é neppure configurabile un diritto dell'imputato ad ottenere una verifica giurisdizionale della legittimità dell'iniziativa del pubblico ministero se non attraverso il controllo che su di questa può e deve effettuare, appunto, il giudice del dibattimento: la questione fu già risolta da questa Corte con la già ricordata sentenza n. 209 del 1971 a proposito dell'art. 502 c.p.p. e non si pone in termini sostanzialmente diversi quando si tratti, come nel caso in esame, di un rito direttissimo obbligatorio, perché anche in questo caso é di esclusiva competenza del giudice del dibattimento accertare che ricorrano le ipotesi per le quali la legge prescrive quel rito. Sicché - mentre risultano prive di fondamento quelle censure che sono motivate dall'impossibilità che l'imputato di un reato commesso con la stampa si avvalga di quei mezzi ora predisposti dall'art. 389 c.p.p. per l'immediato controllo giurisdizionale sulla legittimità dell'apertura dell'istruttoria sommaria - il vero problema consiste nell'accertare se valida é la tesi, prospettata dal tribunale di Ascoli Piceno, secondo la quale "la fase istruttoria... costituisce un elemento essenziale nel nostro sistema processuale riconosciuto e recepito dalla nostra Costituzione". Orbene, a parte la palese inconsistenza della pretesa violazione del principio costituzionale concernente il giudice naturale (il quale, secondo la costante interpretazione data dalla Corte al primo comma dell'art. 25 Cost., si risolve nella necessità della precostituzione del giudice per legge), anche questa questione é stata già ritenuta infondata dalla Corte - cfr. sentenze n. 11 del 1965 e n. 209 del 1971 - né ora vengono prospettate nuove e valide ragioni che possano indurre a diversa conclusione. In particolare, del tutto inesatta é l'argomentazione che si vuol trarre dalla lettera del secondo comma dell'art. 24 Cost.: il fatto che il diritto di difesa é garantito "in ogni stato" del procedimento non significa, certo, che la Costituzione imponga che il procedimento conosca necessariamente più stati, ma solo che, quando più fasi siano stabilite dalla legge, non ve ne sia alcuna nella quale la difesa sia preclusa. Val la pena di rilevare, peraltro, che una diversa interpretazione - specialmente se, come avviene nell'ordinanza di rimessione del tribunale di Ascoli Piceno, portata fino al punto da ritenere conforme alla Costituzione solo un sistema che in ogni caso consenta una pronuncia del giudice istruttore - non solo condurrebbe all'illegittimità di larga parte del vigente sistema processuale, ma precluderebbe quelle riforme che, sollecitate dalla viva, sofferta esperienza delle attuali lungaggini processuali, tendono a consentire un più rapido accesso al dibattimento. E non é fuor di luogo aggiungere che, quando, come nel caso in esame, gli atti istruttori vengono compiuti solo nel pubblico dibattimento, le garanzie della difesa vengono esaltate, non già compresse.

Sulla base di queste considerazioni può essere agevolmente risolta, nel senso dell'infondatezza, anche la questione relativa alla circostanza che nel rito direttissimo prescritto dalla legge in esame manca la possibilità (prevista invece dall'articolo 504 c.p.p.) che il giudice, chiuso il dibattimento, disponga che si proceda con istruttoria formale. Tale possibilità, strettamente connessa alla premessa cui il comune rito direttissimo é collegato (che, cioé, non siano necessarie "speciali indagini"), non esiste nel rito direttissimo obbligatorio proprio in conseguenza di tale obbligatorietà, la quale esclude in radice ogni competenza del giudice istruttore. Non si verifica, quindi, una disparità di trattamento, giacché la diversità di disciplina corrisponde ad una diversità di presupposti. Né, come sembra al tribunale di Firenze, imputato e parte civile sono posti in "condizione di inferiorità": é del tutto evidente che il tribunale, se non può disporre che si proceda con istruzione formale, ha il dovere di compiere direttamente tutte quelle indagini, per complesse che possano essere, che siano necessarie per la decisione del caso.

4. - Oggetto d’impugnativa é anche il quarto comma dell'art. 21 della legge in esame, in forza del quale al giudice vien fatto obbligo di "emettere in ogni caso la sentenza nel termine massimo di un mese" dalla denuncia o querela.

Risulta dai lavori preparatori (Atti della Costituente, 19 gennaio 1948) che a tale disposizione si volle assegnare solo una funzione di semplice raccomandazione, ed é certo, secondo l'univoca interpretazione giurisprudenziale e dottrinale, che né il termine ha carattere perentorio né alla sua inosservanza conseguono sanzioni. Non si può dunque ravvisare nella norma impugnata quell'interferenza nell'esercizio del potere giudiziario e quella violazione dell'indipendenza della magistratura (art. 104 Cost.) che si verificherebbero solo se la prefissione del termine dovesse significare che, prima della sua scadenza, il giudice debba comunque decidere la causa: é vero, al contrario, che il giudice ha il potere ed il dovere di compiere tutte le indagini che siano necessarie per la decisione, anche se per l'espletamento di queste debba esser oltrepassato il termine fissato dalla legge.

5. - L'ordinanza del 24 marzo 1972 (n. 171 del 1972) del tribunale di Pisa, facendo riferimento all'ordinanza 29 ottobre 1971 (n. 481 del 1971) con la quale lo stesso tribunale ha impugnato l'art. 9 della legge 2 ottobre 1967, n. 895, denuncia l'art. 21 della legge sulla stampa, in riferimento all'articolo 25 della Costituzione, a causa del potere del pubblico ministero di scegliere, nell'ambito dell'ufficio competente, questa o quella sezione, questo o quel collegio. La questione non é fondata per gli stessi motivi che hanno indotto questa Corte - sent. n. 170 del 1972 - a respingere le censure mosse alla legge n. 895 del 1967.

6. - Escluso che il rito imposto dalla legge impugnata violi il principio di eguaglianza e che la sua disciplina contrasti con precetti costituzionali, appare priva di fondamento la tesi che esso si risolva in un limite ed in un ostacolo alla libertà di stampa e si ponga perciò in contrasto con l'art. 21 Cost. (ord. n. 129 del 1971) o, nello stesso tempo, con questo e con l'art. 33 Cost. (ord. n. 129 del 1972).

La Corte ha più volte affermato che la libertà di espressione del pensiero é fondamento della democrazia e che la stampa, considerata come essenziale strumento di quella libertà, deve esser salvaguardata contro ogni minaccia o coartazione, diretta o indiretta. Nel ribadire la piena validità di tale affermazione, la Corte non ritiene, tuttavia, che i principi costituzionali sui quali essa si fonda siano vulnerati dalla legge impugnata, giacché l'obbligatorietà del rito direttissimo per i reati commessi col mezzo della stampa non pone ostacolo alcuno alla libertà di questa. Non si tratta, infatti, né di un giudizio persecutorio né di una procedura sommaria e straordinaria. Se il legislatore - in un'epoca nella quale, contrariamente all'inesatta valutazione storica che si legge nell'ordinanza del tribunale di Ascoli Piceno, si avvertiva in tutta la sua urgenza l'esigenza di restituire alla stampa il ruolo che le compete in una libera società - ha scelto, nell'esercizio della sua legittima discrezionalità politica, una procedura che consenta l'immediato intervento del giudice del dibattimento e se, nell'ambito di tale procedura, al denunciato od al querelato viene assicurato pieno contraddittorio ed ampia possibilità di difesa, non é dato davvero di vedere in qual modo si realizzi la denunciata coartazione della libertà di stampa.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 21, terzo e quarto comma, della legge 8 febbraio 1948, n. 47 ("legge sulla stampa"), proposte dalle ordinanze indicate in epigrafe in riferimento agli artt. 3, 21, 24, 25, 33, 104 e 111 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 dicembre 1972.

Giuseppe CHIARELLI – Francesco Paolo BONIFACIO

Depositata in cancelleria il 12 dicembre 1972.