Sentenza n. 159 del 1970
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SENTENZA N. 159

ANNO 1970

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE 

composta dai signori giudici:

Prof. Giuseppe BRANCA, Presidente

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

Dott. Giovanni Battista BENEDETTI

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO

Dott. Luigi OGGIONI

Dott. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 725 del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 6 marzo 1969 dal tribunale di Spoleto nel procedimento penale a carico di Di Cicco Pucci Luigi ed altri, iscritta al n. 124 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 105 del 23 aprile 1969.

Visto l'atto d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 14 ottobre 1970 il Giudice relatore Paolo Rossi;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Francesco Agrò, per il Presidente del Consiglio dei ministri.  

Ritenuto in fatto 

Nel corso di un procedimento penale a carico di taluni rivenditori di giornali imputati della contravvenzione di cui all'art. 725 del codice penale il tribunale di Spoleto, con ordinanza 6 marzo 1969, ha sollevato di ufficio questione di legittimità costituzionale della norma predetta "nell'interpretazione giurisprudenziale della struttura colposa del reato" e limitatamente all'ipotesi di "diffusione del materiale scritto e disegnato stampato con carattere di periodicità", per asserito contrasto con l'art. 21 della Costituzione.

Nell'ordinanza di remissione, sul presupposto che la libertà di stampa si estende alla possibilità di diffusione capillare degli stampati, si osserva che la norma impugnata - la quale punisce con la sola pena della ammenda chiunque espone alla pubblica vista scritti od oggetti figurati che offendano la pubblica decenza, oppure in luogo pubblico o aperto al pubblico li offre in vendita o li distribuisce - esplica una rilevante efficacia intimidatrice nei confronti dei rivenditori, che si traduce, attraverso la cernita delle pubblicazioni da escludere dalla diffusione, in una forma di censura preventiva costituzionalmente vietata per le pubblicazioni stampate periodiche, in quanto contrastante con il secondo comma dell'art. 21 della Costituzione.

Il tribunale di Spoleto prospetta inoltre un generico contrasto tra la norma impugnata e la libertà di stampa.

Viene infine adombrata l'ipotesi che il comportamento imposto agli edicolanti, implicando una cognizione della nozione di pubblica decenza che non ammette errori, possa concretare la figura dell'istituto della c.d. "inesigibilità del dovere giuridico".

Si é costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con atto depositato il 13 maggio 1969, chiedendo dichiararsi l'infondatezza della questione di costituzionalità sollevata.

La difesa dello Stato ha osservato che l'obbligo imposto dalla norma impugnata non é in alcun modo ricollegabile al concetto di censura, istituto tipico del diritto pubblico, secondo cui gli organi dello Stato - e soltanto essi - esercitano autoritativamente una funzione di sicurezza consistente in un controllo preventivo sulla stampa, soggiungendo che l'assimilazione alla censura, costituzionalmente vietata, di altri istituti, che pur implicano una qualche forma di controllo sugli scritti, é stata già respinta dalla stessa Corte costituzionale con le sentenze n. 44 del 1960, nn. 31 e 115 del 1957.

L'Avvocatura generale ricorda quindi che il sesto comma dell'art. 21 della Costituzione vieta, tra l'altro, le pubblicazioni a stampa contrarie al buon costume, mentre consente provvedimenti adeguati preventivi e repressivi per tutte le relative violazioni, sicché la norma impugnata appare conforme ai principi costituzionali.  

Considerato in diritto 

La Corte costituzionale é chiamata ad esaminare se non contrasti con il divieto di censura preventiva di cui all'art. 21 della Costituzione, o comunque, in genere, con la libertà di stampa, il disposto dell'art. 725 del codice penale, che commina la pena dell'ammenda a chiunque espone alla pubblica vista, oppure pubblicamente offre in vendita o distribuisce, scritti od oggetti figurati offensivi della pubblica decenza.

Come si evince chiaramente dai limiti segnati dall'ordinanza di remissione, che si riferisce alla "struttura colposa del reato in relazione alla diffusione del materiale scritto e disegnato stampato con carattere di periodicità", l'oggetto specifico del giudizio della Corte é circoscritto all'ipotesi di diffusione degli stampati periodici (registrati presso le cancellerie dei tribunali), dei quali siano noti l'editore, il direttore e lo stampatore.

Occorre innanzitutto ricordare che la cernita imposta ai rivenditori di giornali al fine di escludere dalla diffusione le pubblicazioni contrarie alla pubblica decenza, non realizza certamente una forma di censura costituzionalmente illegittima, giacché il divieto di cui all'art. 21, secondo comma, della Costituzione concerne la censura quale istituto tipico del diritto pubblico, secondo cui gli organi dello Stato, e soltanto essi, esercitano autoritativamente un controllo preventivo sulla stampa, adottato con provvedimento contenente un giudizio sulla manifestazione del pensiero rimesso alla pubblica amministrazione (sentenze della Corte nn. 31 e 115 del 1957; n. 44 del 1960).

Esclusa quindi l'illegittimità della norma impugnata sotto il profilo ora delineato, é necessario esaminare se essa non dia luogo comunque ad una generica limitazione della libertà di stampa, costituzionalmente garantita.

Giova a questo punto considerare l'effettiva configurazione dell'obbligo incombente ai rivenditori di giornali, quale risulta da una corretta lettura dell'art. 725 del codice penale.

É noto che secondo l'interpretazione elaborata dalla più recente giurisprudenza ordinaria - che a questa Corte appare come l'unica esatta - i rivenditori di pubblicazioni periodiche non sono tenuti all'esame integrale e dettagliato delle stesse, prima di esporle in vendita, ma soddisfano al precetto loro imposto qualora, anche in rapporto al carattere della singola pubblicazione, ne esaminino almeno i titoli e le immagini più appariscenti, specie quelle riprodotte in copertina, esplicando la diligenza media della categoria cui appartengono.

La semplicità di tali operazioni, che non realizzano figure di condotta cosiddette inesigibili (sicché é fugato ogni dubbio di responsabilità oggettiva), non può concretare il pericolo di un ostacolo alla diffusione della stampa fuori dei limiti segnati dall'art. 725 del codice penale.

Da quanto finora osservato emerge con sicurezza la compatibilità della condotta imposta dalla norma penale impugnata con i principi costituzionali in tema di libertà e diffusione del pensiero. La tutela della pubblica decenza prevista dall'art. 725 del codice penale impedisce soltanto, per unanime dottrina e giurisprudenza, la violazione delle regole di pudicizia o di costumatezza che la civile convivenza esige siano da tutti osservate.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 725 del codice penale sollevata, con l'ordinanza in epigrafe indicata, in riferimento all'art. 21 della Costituzione.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 novembre 1970.

Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Nicola REALE - Paolo ROSSI

 

Depositata in cancelleria il 18 novembre 1970.