Sentenza n. 44 del 1960
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SENTENZA N. 44

ANNO 1960

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Dott. GAETANO AZZARITI, Presidente

Avv. GIUSEPPE CAPPI

Prof. TOMASO PERASSI

Prof. GASPARE AMBROSINI

Prof. FRANCESCO PANTALEO GABRIELI

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Dott. ANTONIO MANCA

Prof. ALDO SANDULLI

Prof. GIUSEPPE BRANCA

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 57 del Codice penale, promosso con ordinanza emessa il 26 maggio 1959 dalla Corte di appello di Roma nel procedimento penale a carico di Salerno Michele, iscritta al n. 71 del Registro ordinanze 1959 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 164 dell'11 luglio 1959;

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 25 maggio 1960 la relazione del Giudice Giovanni Cassandro;

udito il sostituto avvocato generale dello Stato Dario Foligno, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso del procedimento penale davanti alla Corte di appello di Roma a carico del sig. Michele Salerno, appellante contro la sentenza del Tribunale di Roma che l'aveva condannato alla pena di lire 6000 di multa quale colpevole del reato previsto dall'art. 171 della legge 21 aprile 1941, n. 633, fu sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 57 del Codice penale.

Secondo quanto riferisce l'ordinanza di rimessione, la difesa del Salerno con apposita istanza sostenne che, pure nella sua nuova formulazione, la norma contenuta in questo articolo violerebbe la disposizione dell'art. 21, secondo comma, della Costituzione nonché l'art. 3 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, in quanto istituirebbe una censura sulla stampa, che non può essere considerata né un'autocensura o una censura interna, perché esercitata dal direttore responsabile non nell'interesse del giornale, ma a tutela dell'interesse pubblico di evitare la commissione di reati a mezzo della stampa -, né può essere giustificata per il fatto che viene esercitata da persona che fa parte della medesima azienda giornalistica, dato che determinante per il carattere del controllo sarebbe la natura della funzione non già la posizione di colui che l'esercita. Tali motivi hanno persuaso la Corte d'appello della non manifesta infondatezza della questione di legittimità

Quanto alla rilevanza sua per la definizione del giudizio a carico del Salerno, la Corte d'appello, pur riconoscendo che manca nel capo di imputazione un esplicito richiamo all'art. 57 Cod. pen., ha sostenuto che la responsabilità dell'imputato andrebbe esaminata alla stregua di tale articolo per tre motivi:

1) perché con la frase "di cui é vicedirettore responsabile" contenuta nel capo di imputazione si fa espresso riferimento a tale qualità dell'imputato;

2) perché non risulterebbe né dal capo di imputazione né dalla sentenza del tribunale che il reato sia stato attribuito al Salerno per un fatto commissivo del medesimo, a lui addebitabile indipendentemente dalla sua qualità di vicedirettore;

3) perché il "Paese sera" che contiene la pubblicazione incriminata ha un direttore e un condirettore, oltre che un vicedirettore responsabile, per l'appunto il sig. Salerno, sicché l'incriminazione soltanto di quest'ultimo non troverebbe giustificazione se non nella sua qualità.

In conseguenza, la Corte di appello di Roma, con ordinanza del 26 maggio 1959, ha sospeso il giudizio e ha rimesso gli atti a questa Corte.

L'ordinanza, notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e al signor Salerno, comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento, é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell'11 luglio 1959, n. 164.

2. - Nel giudizio davanti alla Corte é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato. Le deduzioni sono state depositate il 18 giugno 1959.

L'Avvocatura dello Stato eccepisce in primo luogo che l'ordinanza non recherebbe una sufficiente motivazione e giustificazione

né della rilevanza né della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, per tale non potendosi ritenere quella incerta e in contrasto addirittura con gli atti della causa che essa esibisce.

Né le deficienze della motivazione sarebbero di natura tale da consentire alla Corte, come in altri casi, l'interpretazione dell'ordinanza e l'integrazione della questione di legittimità.

Tutto ciò risulterebbe:

1) dal fatto che il contrasto denunziato non sarebbe già, come l'ordinanza assume, tra l'art. 57 Cod. pen., da una parte, e l'art. 21, secondo comma, della Costituzione e l'art. 3 della legge sulla stampa, erroneamente qualificata come "costituzionale", dall'altra, ma, se mai, tra gli artt. 57 Cod. pen., 3 della legge sulla stampa, da un lato, e l'art. 21, secondo comma, della Costituzione, da un'altro;

2) dal fatto che nessuna spiegazione viene data della circostanza che si ritiene possibile proporre un giudizio di legittimità costituzionale di norme non contestate all'imputato, più precisamente non si dice se ciò sia conseguenza di una precisazione formale della rubrica (e l'Avvocatura dubita che ciò possa farsi con ordinanza), o invece si tratti di una diversa configurazione giuridica del fatto (e l'Avvocatura richiama l'art. 477 Cod. proc. pen. che testualmente consentirebbe soltanto con la sentenza di compiere codesta nuova configurazione),

3) dalla circostanza che, contro il disposto ora ricordato dell'art. 477 Cod. proc. pen., l'ordinanza avrebbe posto a base dell'imputazione un fatto diverso, ritenendo punibile per fatto omissivo chi era stato rinviato a giudizio per fatto commissivo, sostituendo arbitrariamente alla imputabilità fondata nell'art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633, una imputabilità fondata nell'art. 57 del Codice penale.

4) dal fatto che inesattamente l'ordinanza afferma che non sarebbe stata attribuito al Salerno, né dal capo di imputazione né dalla sentenza del Tribunale, un fatto commissivo dipendente dalla sua qualità di vicedirettore, laddove risulterebbe dagli atti di causa, appunto, il contrario, avendo anche il Salerno tentato di dimostrare che non si versava nell'ipotesi di reato omissivo per difetto di controllo riconducibile all'art. 57 del Cod. penale.

3. - Nel merito l'Avvocatura sostiene che la questione di legittimità dell'art. 57 sarebbe stata decisa con la sentenza di questa Corte n. 3 del 15 giugno 1956, tanto più se si pone mente alla nuova formulazione di questo articolo che facendo obbligo al direttore o al vicedirettore responsabile di "esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario a impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati", avrebbe consacrato legislativamente l'interpretazione più benevola di quella sentenza. D'altra parte, la legittimità costituzionale dell'istituto del direttore responsabile sarebbe stata affermata da questa Corte con la sentenza 26 gennaio 1957, n. 31, nel giudizio di legittimità degli artt. 5 e 16 della legge 6 febbraio 1948, n. 47. Da che risulterebbe assorbita la questione di legittimità dell'art. 3 della legge sulla stampa che prevede, appunto, l'istituto del direttore responsabile.

4. - Ma la questione sarebbe egualmente infondata se si ritenesse, contrariamente alla lettera dell'ordinanza di rimessione, che la questione sia quella dell'art. 57 Cod. pen. in relazione all'art. 3 della legge sulla stampa.

Il controllo, infatti, che il nuovo art. 57 Cod. pen. riconosce spettare al direttore responsabile non potrebbe essere in alcun modo ricollegabile al concetto di censura che é un istituto tipico del diritto pubblico col quale gli organi dello Stato e soltanto essi esercitano una funzione di sicurezza diretta alla prevenzione dei reati col mezzo della stampa, consistente in un controllo preventivo da classificare tra i provvedimenti cautelari rimessi al potere discrezionale della pubblica Amministrazione e soprattutto in un "giudizio" avente a oggetto la manifestazione del pensiero. Né sarebbe possibile considerare il controllo esercitato dal direttore come un controllo esercitato nell'interesse generale: una figura siffatta non troverebbe giustificazione né nel ricorso alla figura dell'esercizio privato di pubbliche funzioni né a quella dell'incarico di pubblico servizio.

Nemmeno sotto il profilo oggettivo potrebbe considerarsi attività di censura la diligenza imposta al direttore responsabile perché non vengano commessi reati, dato che la censura sarebbe diretta a impedire la libera manifestazione del pensiero anche se immune da reati, e l'obbligo di vigilanza, viceversa, mirerebbe a evitare che siano commessi reati col mezzo della stampa. La possibilità di qualificare censura codesta attività di vigilanza sarebbe esclusa anche dal fatto che il direttore non esercita un potere illimitato verso i suoi collaboratori ma un diritto che risulterebbe dalla sua situazione soggettiva nei rapporti dei collaboratori per la creazione del giornale come opera collettiva. Nulla vieterebbe che la legge stabilisse una responsabilità penale per l'autore dell'opera collettiva che sarebbe poi "l'essenza del fatto-reato ipotizzato dall'art. 57 Cod. pen.": nella quale interpretazione conforterebbero i lavori preparatori.

L'Avvocatura dello Stato conchiude chiedendo alla Corte gradatamente:

1) di ordinare la restituzione degli atti alla Corte di appello di Roma per omissione di motivi;

2) di dichiarare la manifesta infondatezza della questione proposta;

3) di dichiarare la legittimità costituzionale della denunciata disposizione di legge.

5. - Nella memoria depositata l'11 maggio di questo anno, l'Avvocatura dello Stato riprende e svolge gli argomenti già illustrati nelle deduzioni, diffondendosi in particolare sulle questioni connesse con la natura del controllo assegnato al direttore responsabile di un giornale. L'Avvocatura crede di poter giungere, attraverso un esame della dottrina che si é formata sull'art. 57 Cod. pen. nella sua nuova formulazione e sull'art. 3 della legge sulla stampa, alla conclusione che:

1) la stampa é soggetta al diritto comune e alla repressione dei reati commessi a suo mezzo;

2) che il direttore responsabile non é il "correttore nell'interesse generale", ma il soggetto responsabile dell'impresa editoriale;

3) che la responsabilità del direttore si determina per l'omissione dei doveri di controllo che la legge non stabilisce ma che sono connaturali all'esecuzione di ogni opera collettiva.

6. - All'udienza del 25 maggio 1960 l'Avvocatura ha illustrato brevemente le sue tesi difensive, insistendo nelle già prese conclusioni.

 

Considerato in diritto

 

1. - L'eccezione pregiudiziale non può essere accolta per nessuno dei due motivi prospettati dall'Avvocatura. Contrariamente, infatti, a quanto l'Avvocatura sostiene, l'ordinanza, interpretata anche al lume dell'istanza rivolta dalla difesa dell'imputato alla Corte d'appello, consente d'individuare con sufficiente esattezza la questione di costituzionalità, oggetto del presente giudizio, che é la seguente: se la norma contenuta nell'art. 57 del Cod. pen., la quale impone al direttore o vicedirettore responsabile di esercitare il controllo necessario ad impedire che si commettano reati col mezzo della stampa, viola oppure non il precetto contenuto nel secondo comma dell'art. 21 della Costituzione, giusta il quale "la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure". Vero é che l'ordinanza parla esplicitamente di un contrasto nel quale si troverebbe l'art. 57 Cod. pen. oltre che con l'ora citato secondo comma dell'art. 21 della Costituzione, anche con l'art. 3 della legge sulla stampa, erroneamente qualificata come costituzionale, ma codeste inesattezze e imprecisioni, che certo l'ordinanza avrebbe potuto evitare, non sono tali da rendere impossibile l'individuazione della questione di legittimità che si é inteso di proporre alla Corte, segnatamente se si considera che nella medesima ordinanza si chiarisce che l'asserito contrasto della norma impugnata é da porre col precetto costituzionale dell'art. 21, "in relazione alla norma dettata dall'art. 3 della legge sulla stampa, il quale impone, per ogni giornale o altro periodico, la nomina di un direttore responsabile".

2. - L'Avvocatura dello Stato sostiene altresì che l'ordinanza non avrebbe motivato sufficientemente né coerentemente agli atti della causa il giudizio di rilevanza, ma, viceversa, l'avrebbe fondato sopra una diversa configurazione giuridica del fatto o addirittura assumendo a base dell'impugnazione un fatto diverso, contro le norme contenute nell'art. 477 Cod. proc. penale.

Senonché, a parte il giudizio che si può dare di questi rilievi mossi all'ordinanza, la Corte deve osservare che non é di sua competenza accertare se, nel motivare la rilevanza, il giudice di merito applichi inesattamente o violi la legge. Il giudizio di rilevanza, giusta quanto più volte é stato osservato da questa Corte, é di competenza del giudice a quo, e la Corte deve limitarsi ad accertarne l'esistenza e la sufficienza, che può anche essere ricavata implicitamente dal tenore dell'ordinanza o dai termini stessi della proposta questione di costituzionalità.

Nel caso, la Corte d'appello si é addirittura posto esplicitamente il quesito della rilevanza, non dissimulandosi gli ostacoli che sorgevano dagli atti di causa, e ha ritenuto di risolverlo affermativamente con ampia motivazione.

3. - Infondata, invece, deve essere dichiarata la questione di costituzionalità dell'art. 57 in riferimento al secondo comma dell'art. 21 della Costituzione. Basta, a tal fine, rilevare l'arbitrarietà manifesta di un'assimilazione del controllo che il direttore é tenuto ad esercitare su quanto si pubblica sul giornale che egli guida, ispira e coordina in opera unitaria, al fine di evitare che a suo mezzo si commettano reati, con i provvedimenti cautelari che la pubblica Amministrazione potrebbe essere autorizzata ad adottare per controllare le manifestazioni scritte del pensiero e che potrebbe portare al divieto della pubblicazione (vedi sentenze di questa Corte n. 31 del 23 gennaio 1957 e n. 115 del 1 luglio 1957). É mediante questi provvedimenti che si manifesta ed esercita la "censura", alla quale la Costituzione ha voluto sottratta la stampa, non già mediante l'esercizio del controllo al quale é tenuto, prima ancora che per norma di legge, per la natura stessa della sua attività e per il necessario svolgimento dell'opera sua il direttore di un giornale.

4. - Perde, in conseguenza, ogni ragione di essere il non chiaro riferimento contenuto nell'ordinanza alla norma dell'art. 3 della legge 8 febbraio 1948 secondo la quale "ogni giornale o altro periodico deve avere un direttore responsabile" o, quando il direttore sia investito di mandato parlamentare, un vicedirettore "che assume la qualità di responsabile". Se, come pare, si é inteso dire che queste norme sottolineano il carattere incostituzionale della pretesa "censura" preveduta e regolata dall'art. 57 Cod. pen., in quanto l'esercizio di questa sarebbe richiesto necessariamente dalla disposizione che impone ai periodici di avere un direttore o vicedirettore responsabile, é sufficiente rilevare che l'art. 3 deve essere interpretato appunto alla luce di quell'art. 57: nel senso che esso non intende imporre al direttore o vicedirettore responsabile di rispondere per qualsiasi reato commesso a mezzo della stampa, e nel concorso di qualsiasi circostanza, ma nei limiti e nelle ipotesi regolate dall'art. 57 Cod. pen. che, come si é visto, non affida al direttore del giornale l'esercizio nel pubblico interesse di una censura su quanto si pubblica nel giornale, e non é in contrasto col divieto posto nel secondo comma dell'art. 21 della Costituzione.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

respinta l'eccezione pregiudiziale sollevata dall'Avvocatura dello Stato;

dichiara non fondata la questione proposta dalla Corte d'appello di Roma, con ordinanza 26 maggio 1959, sulla legittimità costituzionale dell'art. 57 Cod. pen., in riferimento alla norma contenuta nel secondo comma dell'art. 21 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 giugno 1960.

Gaetano AZZARITI - Giuseppe CAPPI - Tomaso PERASSI - Gaspare AMBROSINI - Francesco PANTALEO GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA.

 

Depositata in Cancelleria il 30 giugno 1960.