SENTENZA N. 144
ANNO 1967
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente
Prof. Antonino PAPALDO
Prof. Nicola JAEGER
Prof. Giovanni CASSANDRO
Prof. Biagio PETROCELLI
Dott. Antonio MANCA
Prof. Aldo SANDULLI
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI
Dott. Giuseppe VERZÌ
Dott. Giovanni Battista BENEDETTI
Prof. Francesco Paolo BONIFACIO
Dott. Luigi OGGIONI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 145, primo comma, del Codice civile, promosso con ordinanza emessa il 13 ottobre 1966 dalla Corte di appello di Messina nel procedimento civile vertente tra Aiello Orsola Aurelia e Nuccio Carlo, iscritta al n. 222 del Registro ordinanze 1966 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12 del 14 gennaio 1967.
Udita nella camera di consiglio del 7 novembre 1967 la relazione del Giudice Costantino Mortati.
Ritenuto in fatto
1. - I coniugi Nuccio Carlo e Aiello Orsola Aurelia, dopo avere contratto matrimonio nel 1946, nel successivo anno 1947 fecero richiesta di separazione personale, allegando ognuno la colpa dell'altro. Con sentenza del tribunale di Palermo nell'agosto 1948 la domanda venne rigettata, essendosi ritenuto non sussistenti le condizioni necessarie per pronunciare la separazione, e venne imposto al marito di corrispondere alla moglie, finché non fosse stata ripristinata la convivenza, l'assegno mensile di lire cinquemila. Proposto appello principale dal marito ed incidentale dalla moglie, la Corte di Palermo, con sentenza 24 dicembre 1956, ebbe a ribadire l'obbligo della coabitazione, elevando l'assegno a carico del marito a lire 10.000, a far tempo dal 1 giugno 1956. Con citazione del 17 ottobre 1964 la Aiello, assumendo che dopo il 1956 le condizioni economiche del consorte erano migliorate, richiese che fosse disposta una congrua elevazione della misura dell'assegno, e il tribunale di Messina, con sentenza 6 luglio 1965, in accoglimento della istanza, condannava il convenuto alla corresponsione di lire 25.000 mensili. In sede di appello proposto dall'attrice, che allegava l'esiguità dell'aumento, cui si aggiungeva altro incidentale del marito, che lamentava invece l'eccessività dell'onere impostogli, costui sollevava questione di legittimità costituzionale dell'art. 145, primo comma, del Codice civile, perché contrastante con il principio di eguaglianza sancito dall'art. 29, secondo comma, della costituzione.
La Cortedi appello di Messina, fatto richiamo alla sentenza di questa Corte n. 46 del 1966, ha ritenuto che non possa ritenersi manifestamente infondata l'eccepita violazione degli artt. 3 e 29 che ordina il matrimonio sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, apparendo con esso contrastante la disposizione dello art. 145, primo comma, del Codice civile, nella parte in cui prevede che il marito debba somministrare alla moglie tutto ciò che le é necessario pei bisogni della vita in relazione alle proprie sostanze, senza consentire che si tenga conto dei redditi della medesima.
Con ordinanza del 13 ottobre 1966 la Corte, disposta la sospensione del giudizio in corso, trasmetteva gli atti alla Corte costituzionale.
L'ordinanza debitamente comunicata e notificata é stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 14 gennaio 1967 n. 12. Nessuna delle parti si é costituita avanti alla Corte, che pertanto ha proceduto alla decisione della causa in camera di consiglio.
Considerato in diritto
1. - Questa Corte, con sua sentenza n. 46 del 1966, in accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di La Spezia, e nei termini in cui essa era stata proposta, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 156, primo comma, del Codice civile, nella parte in cui pone a carico del marito, in regime di separazione consensuale, l'obbligo di somministrare alla moglie quanto sia necessario ai bisogni di lei, senza considerazione delle sue condizioni economiche. In quell'occasione la Corte ha messo in rilievo come dovesse rimanere del tutto impregiudicata la questione relativa alla diversità della disciplina dei rapporti patrimoniali fra coniugi conviventi, quale emerge dall'art. 145 del Codice civile. Tale articolo, infatti, non era stato allora denunciato, e non veniva direttamente in considerazione, dato che esso, secondo sarà appresso chiarito, regola i rapporti patrimoniali fra coniugi conviventi, e soltanto in via indiretta, in virtù cioè del richiamo ai "diritti inerenti alla qualità di coniuge, non incompatibili con lo stato di separazione" effettuato dal predetto articolo 156, primo comma (collocato nel successivo capo V del titolo VI, del Codice civile, intitolato appunto allo stato di separazione) é riferibile ai rapporti patrimoniali fra i coniugi legalmente o consensualmente separati.
L'ordinanza della Corte di appello di Messina denuncia ora il primo comma dell'art. 145 con riferimento al secondo, in una fattispecie riguardante coniugi separati di fatto, poiché come emerge dalla precedente esposizione, il giudice ha accertato l'insussistenza delle colpe denunciate rispettivamente dalle due parti, nonché la mancanza dell'accordo necessario alla separazione per mutuo consenso. La situazione in parola non forma oggetto di specifica previsione normativa, e la mancata osservanza dell'obbligo della convivenza che in essa si verifica non é determinata da nessuna delle cause che possono dar luogo ad uno stato di separazione giuridicamente rilevante, come quelle previste dagli artt. 156, secondo e quarto comma, e 158, o dall'art. 126, riguardante la separazione temporanea. Ne discende che, finché la separazione di fatto perdura, rimangono immutati gli obblighi ed i diritti derivanti dal matrimonio (la fedeltà, il mantenimento, l'assistenza, l'obbligo per la moglie di conservare il domicilio - come si argomenta a contrario dall'art. 45 - nonché il cognome del marito), mentre il dovere della convivenza deve considerarsi solamente sospeso, e conseguentemente ammettersi (secondo l'opinione da ritenere più esatta) la facoltà di ognuno dei coniugi di richiederne il ripristino, salvo le conseguenze derivabili dall'eventuale ingiustificato rifiuto dell'altro ad effettuarlo. Pertanto, non sussistendo alcun elemento giuridicamente rilevante atto a differenziare la situazione stessa da quella che caratterizza il rapporto matrimoniale, qual é regolato dall'art. 143, la sua disciplina deve, per quanto riguarda in particolare i rapporti patrimoniali, ricondursi in tutto all'art. 145.
Passando ora all'esame della censura rivolta a quest'ultimo, si rende necessario precisare preliminarmente come non sia da aderire a quella interpretazione di tale articolo (proposta da una parte della dottrina, ma non accolta dalla giurisprudenza) secondo cui esso non disporrebbe effettivamente la diversità di trattamento che la sua formulazione letterale farebbe supporre, e ciò perché non sembrano probanti gli argomenti che l'opinione menzionata crede potere desumere dal sistema. Così é da ritenere della deduzione tratta dall'art. 211, secondo cui la moglie (in mancanza di convenzioni) contribuisce ai pesi del matrimonio nella misura stabilita dall'art. 148. Infatti tale generico riferimento ai pesi del matrimonio da parte di una disposizione inserita nel capo VI, rivolto essenzialmente a regolare i rapporti patrimoniali familiari di carattere convenzionale, non può ritenersi innovativo delle specifiche determinazioni e differenziazioni dei singoli pesi, quali risultano dalle norme contenute nel precedente capo IV, intitolato ai diritti e doveri che nascono dal matrimonio. Il che risulta anche comprovato dall'espresso rinvio che l'art. 160 fa ai principi consacrati negli artt. 144 e 145, nonché dall'altro che nello stesso senso é operato dall'art. 207. Analogamente non fondato appare un secondo argomento che si vuole ricavare dall'art. 146, pel fatto che, qualificando esso l'obbligo imposto a carico del marito con lo stesso termine di "mantenimento" adoperato nell'articolo precedente per designare quello gravante sulla moglie, avrebbe inteso interpretare autenticamente la dizione del precedente art. 145, pareggiando fra loro le due specie di prestazioni. Non sembra che l'espressione ora menzionata riveli l'intento di modificare, o anche solo di precisare il significato desumibile dalla lettera del primo comma dell'articolo precedente, di per sé tanto univoco da non abbisognare di interpretazione, costituendo essa invece non altro che la riproduzione, in forma ellittica, della formula impiegata nel primo comma dell'art. 145. Si può aggiungere che, anche a ritenere diversamente, nel senso di ragguagliare l'ammontare delle prestazioni imposte alla moglie al criterio proporzionale del primo comma predetto, sarebbe eliminata la diversità degli obblighi fra i due coniugi in ordine al quantum, ma permarrebbe sempre quella relativa all'an, data la condizione, cui viene subordinato il dovere della moglie, della mancanza nel marito di mezzi sufficienti: condizione dalla quale é invece esente l'altro del marito, tenuto ad adempierlo in ogni caso, quali che siano le condizioni economiche della moglie (come costantemente ritiene la giurisprudenza del supremo collegio).
Pertanto l'art. 145, lungi dal doversi ritenere inapplicabile al caso dei coniugi conviventi (come vorrebbero coloro che, muovendo dalle argomentazioni ora riferite, ne limitano la effettiva funzione alla disciplina del regime di separazione legale o convenzionale), trova attuazione solo per costoro.
La Corte ritiene che la disposizione denunciata non contrasti con la costituzione poiché la diversità della distribuzione degli oneri fra i due coniugi trova fondamento nella diversa posizione che il vigente Codice di diritto privato, ritenendola necessaria ad assicurare l'unità della famiglia, conferisce loro e che si concreta nell'attribuire al marito (oltre che l'esclusività dell'esercizio della "patria potestà" sui figli) la titolarità di una "potestà maritale", alla quale connette una ampia serie di particolari poteri, tali da porlo in posizione di preminenza sulla moglie. A siffatta preminenza si accompagna poi anche l'affievolimento delle sue responsabilità per l'inadempimento di qualcuno degli obblighi derivanti dallo stato matrimoniale, come nel caso considerato dall'ultimo comma dell'art. 151 del Codice civile.
Appare chiaro che nel sistema del Codice i particolari doveri imposti al marito, quali sono quello della "protezione" della moglie e l'altro, del quale si controverte, della somministrazione ad essa di tutto quanto le é necessario per la soddisfazione di ogni suo bisogno, senza riguardo alle sostanze di lei, sono da valutare nel rapporto in cui si trovano di necessaria correlazione con la situazione di vantaggio a lui conferita, sicché, ferma rimanendo quest'ultima, nessuna attenuazione potrebbe apportarsi negli obblighi, venendo altrimenti meno l'equilibrio voluto costituire nei rapporti reciproci.
Può convenirsi nell'opinione che considera il sistema del Codice non aderente in ogni sua parte allo spirito informatore della sopravvenuta costituzione repubblicana, la quale ha tenuto conto della trasformazione verificatasi nella posizione della donna nella moderna società. Sull'esigenza di una sollecita adeguazione del sistema al nuovo ordine sociale la Corte ha ripetutamente richiamato l'attenzione del legislatore (v. sentenze n. 101 del 1965, nn. 49 e 71 del 1966) senza tuttavia che abbia ritenuto possibile farne decadere singole disposizioni, per l'incertezza che ne sarebbe derivata, data l'intima connessione che le lega fra loro e ne fa un tutto unitario.
Dovendosi pertanto ritenere, sulla base delle precedenti considerazioni, giustificata, ai sensi del secondo comma dell'art. 29, la disparrà di trattamento giuridico stabilita dall'art. 145 del Codice civile, é da dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con l'ordinanza della Corte di appello di Messina.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 145, primo comma, del codice civile, in riferimento al secondo comma dello stesso articolo, e con riguardo agli artt. 3, primo comma, e 29, secondo comma, della costituzione, sollevata dall'ordinanza citata in epigrafe.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 dicembre 1967.
Gaspare AMBROSINI - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI
Depositata in cancelleria il 15 dicembre 1967.