SENTENZA N. 111
ANNO 1964
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori Giudici:
Prof. GASPARE AMBROSINI, Presidente
Prof. ANTONINO PAPALDO
Prof. NICOLA JAEGER
Prof. GIOVANNI CASSANDRO
Prof. BIAGIO PETROCELLI
Dott. ANTONIO MANCA
Prof. ALDO SANDULLI
Prof. GIUSEPPE BRANCA
Prof. MICHELE FRAGALI
Prof. COSTANTINO MORTATI
Prof. GIUSEPPE CHIARELLI
Dott. GIUSEPPE VERZÌ
Dott. GIOVANNI BATTISTA BENEDETTI
Prof. FRANCESCO PAOLO BONIFACIO
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art, 62, n. 6, prima parte, del Codice penale, promosso con ordinanza emessa il 30 gennaio 1964 dal Pretore di Offida nel procedimento penale a carico di Cinciripini Celestino, iscritta al n. 34 del Registro ordinanze 1964 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 73 del 21 marzo 1964.
Udita nella camera di consiglio del 6 novembre 1964 la relazione del Giudice Francesco Paolo Bonifacio.
Ritenuto in fatto
1. - Nel corso di un procedimento penale a carico del signor Celestino Cinciripini, pendente innanzi alla Pretura di Offida, la difesa e il Pubblico Ministero hanno chiesto che, avendo l'imputato provveduto prima del giudizio a risarcire i danni sofferti dalla parte offesa, al medesimo venga applicata la riduzione di pena conseguente alla circostanza attenuante prevista nella prima parte del n. 6 dell'art. 62 del Codice penale.
Con ordinanza del 30 gennaio 1964 il Pretore, ritenuto che la questione é rilevante ai fini della decisione, ha di ufficio rimesso gli atti a questa Corte perché decida sulla legittimità costituzionale di detta norma in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.
2. - Ad avviso del Pretore di Offida la norma impugnata si porrebbe, anzitutto, in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, atteso che il principio di eguaglianza impone al legislatore di garantire parità di trattamento a parità di situazioni ed ha un contenuto sostanziale che neppure di fatto può essere violato o limitato. L'art. 62, n. 6, prima parte, determinerebbe una posizione di privilegio a favore dei cittadini abbienti rispetto agli altri: questi ultimi, infatti, anche se animati dalla volontà di riparare il danno, derivante dal reato, possono non essere in grado di effettuare il relativo risarcimento, con la conseguenza di essere esclusi dal rilevante beneficio concesso dalla legge e di dover subire, solo a causa delle loro condizioni economiche, una pena maggiore.
Sussisterebbe, altresì, la violazione dell'art. 24 della Costituzione, dovendo il diritto di difesa, secondo la ordinanza di rimessione, esser considerato non esclusivamente sotto un profilo formale e processuale, ma anche su un piano sostanziale: e perciò esso apparirebbe violato quando l'esercizio del diritto (nel caso in esame relativo al beneficio delle circostanze attenuanti previste dalla legge) venga condizionato ad un presupposto (risarcimento del danno) non realizzabile da parte dell'imputato povero, tanto più che non esiste alcun istituto che ai sensi dell'art. 24, terzo comma, della Costituzione, assicuri ai non abbienti i corrispondenti mezzi di difesa.
3. - L'ordinanza di rimessione, letta nella pubblica udienza, é stata ritualmente comunicata ai Presidenti delle due Camere (8 febbraio 1964), notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri (12 febbraio 1964) e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, n. 73 del 21 marzo 1964.
Nel presente giudizio non c'e stata costituzione di parti e non é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri. La causa, pertanto, a norma dell'art. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, viene decisa in camera di consiglio.
Considerato in diritto
L'art. 62, n. 6, del Codice penale nella prima parte l'unica che venga in considerazione nel presente giudizio - stabilisce che attenua il reato "l'avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso".
L'ordinanza di rimessione muove a tale norma, sostanzialmente, un'unica censura, dalla quale deriverebbe il suo contrasto con due precetti costituzionali: i soggetti non abbienti, impossibilitati a provvedere al risarcimento (integrale, effettivo e tempestivo) del danno, subirebbero, esclusivamente a cagione delle loro condizioni economiche, un trattamento di disparità rispetto ai soggetti abbienti, con conseguente violazione dell'art. 3 della Costituzione; e, sempre per le stesse cause, vedrebbero compromesso il diritto di difesa, garantito dall'art. 24 della Costituzione, anche sotto un profilo sostanziale, come comprensivo, cioè, non solo degli strumenti processuali, ma anche dei mezzi pratici idonei ad assicurare tutti i vantaggi che l'ordinamento giuridico predispone.
Per valutare il fondamento della questione di legittimità costituzionale, in questi termini sollevata, é necessario preliminarmente rilevare che il risarcimento del danno, mentre in sé considerato costituisce contenuto della prestazione oggetto della obbligazione nascente dall'illecito, nella fattispecie normativa in esame - ove sia tempestivo ("prima del giudizio") e, secondo l'univoca interpretazione giurisprudenziale, volontario - assume la funzione di condizione del beneficio dell'attenuante, che compete solo a chi, appunto attraverso la riparazione, dia concreta prova del suo ravvedimento. La norma dell'art. 62, n. 6, rientra, perciò, fra quelle che impongono oneri patrimoniali per il raggiungimento di determinati fini e che, nella loro applicazione, inevitabilmente comportano una diversa possibilità di utilizzazione secondo la diversa condizione economica dei soggetti che quei fini si propongano di conseguire. Ma da ciò non deriva che in ogni caso norme di tal contenuto e di siffatta struttura si pongano in contrasto col principio di eguaglianza. La violazione dell'art. 3 della Costituzione può ravvisarsi, infatti, solo quando la disparità delle condizioni economiche, rendendo impossibile ai soggetti non abbienti il soddisfacimento dell'onere, impedisca il realizzarsi di fini che siano costituzionalmente rilevanti, costituisca, in altri termini, ostacolo all'esercizio di un diritto che la Costituzione a tutti parimenti riconosca e garantisca (tali sono i casi della c. d. cautio pro expensis o dell'istituto del solve et repete, nei quali la Corte, con sentenze n. 67 del 23 novembre 1960 e n. 21 del 31 marzo 1961, pronunziò l'illegittimità di norme delle quali fu accertato il contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione nel loro reciproco coordinamento); ovvero quando, in difetto di una giustificazione del suo precetto ragionevole e desumibile da esigenze oggettive, la norma venga a determinare non consentite situazioni di privilegio o di svantaggio.
Ma nel caso in esame non ricorre né l'una né l'altra ipotesi: non la prima, perché é insussistente l'assunta violazione dell'art. 24 della Costituzione; non la seconda, perché la norma, come si dirà, trova la sua giustificazione in ragioni di pubblico interesse Quanto all'art. 24 della Costituzione, é sufficiente richiamare la giurisprudenza di questa Corte (cfr., fra le altre, le sentenze n. 7 del 20 febbraio 1962, n. 10 del 7 febbraio 1963, n. 42 del 4 gennaio 1964), secondo la quale quella disposizione va interpretata nel senso che la Costituzione, attribuendo a tutti il diritto di agire in giudizio e di difendersi, garantisce questi beni a chi, in base all'ordinamento, sia titolare di un diritto o di un interesse legittimo: l'art. 24 dispone, cioè, la piena - ed eguale per tutti - tutela processuale delle situazioni giuridiche subiettive così come queste scaturiscono dalla legge sostanziale. Ciò posto, é da osservare che non esiste affatto, come l'ordinanza di rimessione mostra di ritenere, un "diritto all'attenuante", la cui difesa risulterebbe impossibile o quanto meno gravemente ostacolata dalle insufficienti condizioni economiche. É vero, invece, che l'attenuante consegue all'avvenuto risarcimento del danno, il quale, ove sia stato effettuato volontariamente e tempestivamente, si pone, dunque, come suo presupposto: dal che é agevole dedurre che la norma ha natura sostanziale e non ha perciò alcuna attinenza coi mezzi processuali, azione e difesa, che cadono nell'ambito della tutela predisposta dal primo e dal secondo comma dell'art. 24 (ed esclusivamente ai quali, é ovvio, va riferito anche il comma terzo). E vale la pena di rilevare che tutto ciò trova conferma nell'osservazione che, ove per ipotesi venisse eliminata la norma contenuta nell'art. 62, n. 6, non per questo si accrescerebbe il diritto di difesa garantito così al povero come al ricco.
Resta ora da esaminare se la norma denunziata tenda, nella sua ispirazione o nel suo contenuto, a creare arbitrariamente una situazione di privilegio per i soggetti abbienti e di corrispondente svantaggio per i soggetti che non lo siano.
Ma anche sotto questo profilo la questione appare infondata. La circostanza attenuante del risarcimento del danno, in effetti, é chiaramente collegata alla rilevanza che per intuitive ed innegabili ragioni di pubblico interesse viene data, in varie norme e con vari effetti, al comportamento del reo successivo alla commissione del reato. Più particolarmente, in quanto incide sulla misura della pena, essa appare espressione dello stesso principio ispiratore dell'art. 133 del Codice penale, il quale (secondo comma, n. 3) impone al giudice, al fine della determinazione della pena concreta nell'ambito del minimo e del massimo fissati dalla legge, di tener conto anche della condotta susseguente al reato. L'attenuante in oggetto trova, infatti, la sua giustificazione nella rilevanza giuridica che il risarcimento assume quale specifica circostanza rivelatrice del ravvedimento del reo che, attraverso quel mezzo, ha provveduto ad eliminare uno degli effetti prodotti dalla sua azione antigiuridica. E, se é vero che appunto per ciò l'attenuante del risarcimento non ha a suo oggetto immediato e diretto la tutela degli interessi della vittima, non bisogna tuttavia ritenere che nella determinazione della quantità della pena, sempre ispirata a ragioni che trascendono l'interesse del singolo, l'ordinamento penale debba restare indifferente di fronte alla valutazione dei danni conseguenti al reato e, corrispondentemente, al comportamento del reo che volontariamente, ha provveduto alla loro riparazione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 62, n. 6, del Codice penale, nella parte in cui la disposizione stabilisce che attenua il reato "l'avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso", in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.
Così deciso in Roma, in camera di consiglio, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 dicembre 1964.
Gaspare AMBROSINI - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI – Giuseppe VERZì - Giovanni Battista BENEDETTI - Francesco Paolo BONIFACIO.
Depositata in Cancelleria il 11 dicembre 1964.