Sentenza n. 7 del 1962
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SENTENZA N. 7

ANNO 1962

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori giudici:

Avv. Giuseppe CAPPI, Presidente

Prof. Gaspare AMBROSINI

Dott. Mario COSATTI

Prof. Francesco Pantaleo GABRIELI

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Giovanni CASSANDRO

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI,

ha pronunciato la seguente  

SENTENZA 

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 5 del D.L.C.P.S. 1 aprile 1947, n. 277, dell'art. 1 della legge 3 agosto 1949, n. 479, dell'art. 3 della legge 15 luglio 1950, n. 505, dell'art. 1 della legge 16 giugno 1951, n. 435, dell'art. 1 della legge 11 luglio 1952, n. 765, della legge 5 gennaio 1955, n. 4, dell'art. 3, ultimo comma, della legge 18 agosto 1948, n. 1140, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 12 aprile 1960 dal Tribunale di Mantova nel procedimento civile tra Grassi Corinna e Borroni Ferruccio ed altri, iscritta al n. 57 del Registro ordinanze 1960 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 155 del 25 giugno 1960;

2) ordinanza emessa il 26 aprile 1960 dal Tribunale di Mantova nel procedimento civile tra Lanfranchi Walter e Mario e Ceni Alberto, iscritta al n. 58 del Registro ordinanze 1960 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 155 del 25 giugno 1960.

Viste le dichiarazioni di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 22 novembre 1961 la relazione del Giudice Costantino Mortati;

uditi l'avv. Antonio Sorrentino, per Grassi Corinna e Ceni Alberto, l'avv. Arturo Carlo Jemolo per Lanfranchi Walter e Mario, e il sostituto avvocato generale dello Stato Luciano Tracanna. per il Presidente del Consiglio dei Ministri  

Ritenuto in fatto 

Con ordinanza del 12 aprile 1960 la Sezione specializzata per la perequazione dei canoni agrari presso il Tribunale di Mantova sospendeva il giudizio promosso avanti ad essa da Grassi Corinna, proprietaria di terreni concessi in affitto a Borroni Ferruccio ed altri, onde ottenere la perequazione del canone in cereali dovuto dagli affittuari, ed ordinava la trasmissione degli atti a questa Corte, avendo ritenuto che il giudizio non potesse essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione sollevata dall'attrice sull'illegittimità costituzionale delle norme regolanti la materia, ed in particolare dell'art. 5 del D.L.C.P.S. 1 aprile 1947, n. 277, in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Con successiva ordinanza del 26 aprile 1960 la Sezione medesima disponeva l'invio alla Corte degli atti relativi ad altro giudizio promosso dai sigg. Lanfranchi Walter e Mario, affittuari di un fondo di proprietà dell'ing. Ceni Alberto, onde ottenere il riconoscimento del diritto a corrispondere al proprietario il canone ridotto del 30 per cento, anziché del 15 per cento come effettuato fin dall'annata agraria 1949, avendo ritenuto pregiudiziale per la decisione di merito, e non manifestamente infondata sulla base delle deduzioni del convenuto, la risoluzione della questione di costituzionalità da questi sollevata, nei confronti delle norme disciplinanti la materia, per il loro contrasto con gli artt. 3, 24, 41 e 42 della Costituzione.

Le due ordinanze iscritte ai nn. 57 e 58 del Registro ordinanze 1960, regolarmente notificate e comunicate, furono pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 25 giugno 1960, n. 155.

Il 21 maggio 1960 si costituiva nel primo dei detti giudizi, con atto di intervento e deduzioni dell'Avvocatura generale dello Stato, il Presidente del Consiglio dei Ministri. Con atto depositato il 2 maggio dello stesso anno e con l'assistenza dell'avv. Aldo Radonich si é anche costituita la signora Grassi Corinna. Con successivo atto di intervento e deduzioni dell'Avvocatura in data 21 maggio 1960, il Presidente del Consiglio interveniva nell'altro giudizio proposto dai sigg. Lanfranchi, mentre costoro producevano le proprie deduzioni il 12 luglio 1960 con l'assistenza dell'avv. Arturo Carlo Jemolo, e l'altra parte, ing. Ceni, si costituiva in data 25 maggio 1960, con deduzioni a firma degli avvocati Buzzatti, Scalori e Radonich.

Nei confronti della prima ordinanza la difesa della Grassi ha osservato che il divieto disposto dall'art. 5, ultimo comma, del D.L.C.P.S. n. 277 del 1947 (nonché dagli artt. 3 legge n. 1140 del 1948; 4 legge n. 321 del 1949; 1 legge n. 479 del 1949; 2 e 3 legge n. 505 del 1950; 1, ultimo comma, legge 16 giugno 1951, n. 435; 1, comma terzo e quarto, legge 11 luglio 1952, n. 765; 1 legge n. 4 del 1955, ed 1 legge n. 244 del 1957) di richiedere la perequazione giudiziale per i contratti con canoni determinati esclusivamente in cereali, non trova giustificazione obiettiva in alcun elemento idoneo a differenziare i medesimi dagli altri, per i quali il diritto di azione al fine di ottenere la perequazione é riconosciuto, e pertanto viola in primo luogo il principio di eguaglianza sancito dall'art. 3, ed in secondo luogo quello di cui all'art. 24, perché fa venir meno la possibilità di adire il giudice speciale, mentre d'altra parte rimane precluso ogni altro mezzo di difesa in conseguenza del regime vincolistico di proroga dei contratti agrari, nonché del divieto di ricorso al magistrato ordinario. Conclude chiedendo che la Corte dichiari la incostituzionalità della norma impugnata, nonché di quelle successive ad essa connesse. Chiede, altresì, che, tenuto conto del fatto che l'ordinanza de qua investe argomenti in parte identici, in parte connessi con quelli che sono oggetto dell'altra ordinanza, disponga la riunione dei procedimenti.

L'Avvocatura dello Stato, nel richiedere il rigetto dell'eccezione, ha fatto osservare che la norma impugnata non viola il principio di eguaglianza, poiché dispone lo stesso trattamento per tutti i canoni che presentano i requisiti da essa stabiliti, e che, d'altra parte, non si rende possibile al giudice della costituzionalità della legge (come risulterebbe dalle pronunce da questi emesse su tal punto) sindacare l'apprezzamento compiuto dal legislatore circa le caratteristiche differenziali di certi rapporti o istituti al fine di sottoporli ad una disciplina diversa da quella disposta per altri. Ha, inoltre, messo in rilievo che del pari insussistente é l'altra censura di violazione dell'art. 24, perché da questo discende solo la pretesa di agire in giudizio per la difesa di propri diritti o interessi, sicché esso non é invocabile allorché non sussista nessuna di tali situazioni soggettive, e d'altra parte la pretesa di carattere sostanziale, che si fa valere nei confronti del citato art. 5, non rientra fra quei diritti costituzionalmente garantiti che oppongono un limite invalicabile alla discrezionalità del legislatore, per quanto riguarda il diritto di azione giurisdizionale.

A sostegno dell'eccezione sollevata con la seconda ordinanza, la difesa dell'ing. Ceni, convenuto nel giudizio a quo, ha fatto rilevare che (mentre la legislazione anteriore alla legge 3 agosto 1949, n. 479, nel disciplinare i canoni di affitto convenuti in cereali o con riferimento al loro valore, si limitava ad erogare all'affittuario un sussidio di coltivazione a carico dello Stato senza incidere sul prezzo dell'affitto dovuto al proprietario) viceversa la legge del 1949 ora citata e la successiva n. 4 del 1955, imponendo, la prima, l'applicazione della riduzione del 30 per cento anche quando fosse cessato l'obbligo dell'ammasso, e la seconda la stessa riduzione pure ai canoni pagati in natura, hanno dato luogo ad una disuguaglianza di trattamento rispetto a rapporti economico-giuridici che sono sostanzialmente eguali fra loro: diseguaglianza aggravata, poi, dal divieto di far ricorso all'Autorità giudiziaria onde ottenere la perequazione del canone, con violazione, oltreché del citato art. 3, anche dell'art. 24 della Costituzione. Altra violazione, poi, si lamenta in relazione agli artt. 41, 42 e 44, poiché le norme denunciate limitano, con la libertà contrattuale, quella dell'iniziativa economica privata nonché il diritto di proprietà. Conclude chiedendo che, previa riunione del procedimento con quello promosso con la prima ordinanza, venga dichiarata l'incostituzionalità delle norme impugnate.

La difesa dei resistenti sigg. Lanfranchi, ha eccepito preliminarmente la mancanza nell'ordinanza di rinvio di ogni motivazione in ordine sia alla rilevanza e sia alla non manifesta infondatezza della questione proposta. Nel merito essa, dopo avere osservato che le disposizioni legislative denunciate sono lo sviluppo della disciplina già effettuata fin dal 1944 in poi, e che esse trovano applicazione non solo per i vecchi contratti, ma anche per quelli stipulati dopo il luglio 1952 (fino a che non si avrà la nuova legge in materia), mette in rilievo come una loro invalidazione verrebbe a sconvolgere le previsioni fatte dai contraenti sulla base delle medesime, dando così un inatteso premio ai proprietari. Afferma poi (sulla base anche di quanto ritiene di desumere da precedenti sentenze di questa Corte): a) che il principio di eguaglianza non é leso quando si faccia corrispondere a una situazione particolare disposizioni anch'esse particolari, specie poi se si tenga presente il compito, che lo stesso art. 3 Cost. affida allo Stato, di rimuovere gli ostacoli che si oppongono al conseguimento di un'effettiva parità di posizione giuridica; b) che neppure il principio della difesa giudiziale é violato, dato che esso presuppone la titolarità di un diritto sostanziale e spetta al legislatore stabilire quando questo ultimo debba essere riconosciuto; c) che la libera iniziativa economica ed il diritto di proprietà, di cui agli artt. da 41 a 44 Cost., non escludono interventi limitativi per opera della legge, quando ciò sia reso necessario dall'esigenza di incrementare la produzione o di ricondurre ad equità determinati rapporti sociali. Chiede che la Corte rigetti la eccezione sollevata.

Anche l'Avvocatura dello Stato ha concluso in quest'ultimo senso, sulla base di considerazioni sostanzialmente analoghe a quelle della difesa Lanfranchi.

Le difese associate dell'ing. Ceni e della signora Grassi hanno depositato in data 3 ottobre una memoria a firma anche dell'avv. Antonio Sorrentino, con cui sono esaminate congiuntamente le questioni sollevate con le due ordinanze. Esse rilevano, anzitutto, la infondatezza della eccezione avversaria di inammissibilità, dato che non occorre alcuna motivazione relativa alla rilevanza della questione sollevata allorché, come nella specie, essa sia in re ipsa, sicché al giudice non rimane che dichiararla, e che, quanto alla non infondatezza, la motivazione può ben risultare dal rinvio che l'ordinanza fa alle ragioni addotte dalle parti.

Nel merito, osserva che la violazione del principio di eguaglianza si verifica per opera delle leggi denunciate, dato che la riduzione del 30 per cento, senza possibilità del giudizio di perequazione, colpisce i soli contratti il cui canone sia stato pattuito "esclusivamente" in cereali, mentre ne rimangono esenti quelli per i quali siano stati stipulati canoni anche in parte in denaro, o in prodotti diversi. Non si nega che lo Stato possa ridurre di impero i canoni onde favorire il contraente che esso ritenga più debole, ma si contesta che ciò sia disposto solo per alcuni fra i vari canoni da corrispondere sulla base di contratti agrari. Il principio predetto sarebbe svuotato di pratico significato se si riservasse al legislatore un potere assolutamente discrezionale e, come tale, insindacabile nel disporre una disciplina diversa per rapporti da esso ritenuti differenti, secondo avrebbe riconosciuto questa Corte quando ebbe a dichiarare incostituzionale la regolamentazione differenziata di situazioni presupposte uguali dallo stesso legislatore, oppure quando ha fatto derivare il proprio giudizio sul rispetto o meno del principio in parola dall'accertamento dell'esistenza di "un'idonea giustificazione" o di un "ragionevole motivo" del diverso trattamento. Dall'applicazione alla specie di tale criterio interpretativo deduce come la particolare disciplina di cui si tratta non possa apparire giustificata sulla base della peculiarità di struttura dei contratti con canoni determinati in cereali, e neppure dal fatto che la coltivazione di questi sia effettuata solo in singole regioni, o che la coltivazione stessa presenti caratteristiche la rendano più onerosa di altre. Tanto meno una giustificazione di tal genere sarebbe ammissibile quando si pensi che i contratti di cui trattasi non hanno necessariamente ad oggetto "fondi" coltivati a cereali, ma solo "canoni" commisurati in cereali, e che é del tutto fortuito il pattuire tale specie di corresponsione del canone. In realtà, la riduzione era strettamente connessa al preesistente regime di ammasso, e avrebbe dovuto cessare con la soppressione del medesimo nonché del sussidio di coltivazione cui ineriva, come del resto era riconosciuto nella stessa relazione alla legge del 1949. Sicché, sulla base di tale relazione nonché dalla lettera della legge predetta, si deve ritenere che solo una situazione contingente determinava la riduzione del prezzo, e che, una volta che essa fosse cessata, nessuna ragione di discriminazione si sarebbe potuto far più valere. Né può dedursi alcunché in contrario dalla sussistenza dell'ammasso volontario per contingente poiché, una volta abolito il sussidio di coltivazione ed introdotte le nuove disposizioni, il prezzo di ammasso é venuto a coincidere con quello di mercato. D'altra parte, se fosse diversamente, il regime così costituito (e limitato oggi al solo grano) sarebbe fonte di ancora più grave sperequazione di trattamento, perché fatto valere nell'ambito di una stessa categoria di contratti con canoni in cereali già soggetti ad ammasso e sulla base di circostanze fortuite, come sono il tipo del cereale e la misura del contingente che ogni produttore può conferire all'ammasso. Osserva, altresì, che anche l'esclusione del rimedio giuridico della perequazione dei canoni importa una discriminazione capricciosa e irrazionale, perché non tiene conto delle coltivazioni effettivamente praticate nel fondo; é fatta valere solo per i canoni costituiti esclusivamente in cereali (non già per quelli misti a danaro o con riferimento ad altri prodotti) e, anche nell'ambito di tale tipo di canoni, discrimina secondo le annate cui i canoni si riferiscono. Inoltre, disponendosi che la riduzione colpisca anche coloro che avevano adito nel 1947 le Sezioni specializzate ottenendo una perequazione, effettuata con riguardo al canone in cereali computato al prezzo netto corrisposto dall'ammasso (con riduzione cioè del 30 per cento), si é dato vita ad una situazione più grave di quella che ebbe a verificarsi per la riduzione dei canoni con corrispettivo determinato in canapa e che fu oggetto di una pronuncia di incostituzionalità della Corte. Fa, poi, rilevare che dalle stesse norme impugnate si desume come il legislatore abbia considerato fra loro equivalenti i rapporti per i quali operava un differente trattamento, negando per alcuni il rimedio della perequazione accordato per gli altri, e come analoga deduzione può trarsi dal fatto che il D. 5 aprile 1945, n. 157, ha ragguagliato i canoni di affitto in denaro a quelli con corrispettivo riferito al prezzo del grano, presupponendo così la piena identità fra gli uni e gli altri, mentre poi sono state assoggettate a riduzione coattiva anche i canoni in cereali provenienti da detta conversione, differenziando così situazioni che erano state poste sullo stesso piano, e, con altra contraddizione, ha poi negato per alcuni la perequazione accordata agli altri. Infine, con particolare riferimento alla denunciata violazione dell'art. 24, aggiunge che l'esclusione dell'azione in perequazione ha anche per effetto di privare il proprietario del diritto di cui all'art. 1467 Cod. civ., che ha come alternativa la risoluzione del contratto per sopravvenuta eccessiva onerosità.

Anche la difesa del sig. Lanfranchi ha depositato una memoria in data 5 ottobre 1961. In essa si insiste preliminarmente sulla eccezione di inammissibilità, osservandosi come, essendo controverso il significato (se innovativo o integrativo) da dare allo art. 1 della legge del 1952, che stabiliva il mantenimento in vigore dell'art. 5 del decreto n. 277 del 1947 anche se i cereali non fossero più soggetti ad ammasso, si rendeva necessario che la Sezione, nel giudizio sulla rilevanza, chiarisse quale interpretazione intendesse dare alla legge stessa. Nel merito, rileva come già l'art. 3 della legge 18 agosto 1948, n. 1140, aveva stabilito la riduzione del 30 per cento del prezzo di ammasso, anche a prescindere dalla esistenza dell'obbligo pel produttore di conferire cereali all'ammasso, sicché la successiva legge del 1949 non ebbe a modificare il regime di riduzione di canoni, mentre non si ebbero rilevanti mutamenti dei prezzi. Che, comunque, rientra nel potere del legislatore intervenire nella materia contrattuale modificando gli elementi economici e quelli di durata delle convenzioni stipulate, senza che ciò trovi ostacolo negli artt. 41 e 42, perché questi prevedono limiti all'iniziativa ed alla proprietà per motivi sociali e tali motivi sussistono nella specie, tenuto conto che la cultura del grano, mentre si rivolge a un genere di prima necessità, costituisce una delle coltivazioni meno redditizie. E quando si pensi ancora che per il grano si può avere riferimento ad un prezzo standard (quale si ha anche con l'ammasso per contingente), che, inoltre, non vi sono grandi differenziazioni, secondo le varie regioni, di patti contrattuali o di prezzi, si deve ammettere la sussistenza di quel ragionevole motivo, da considerare sufficiente a giustificare la limitazione imposta dal legislatore.

Con riferimento, poi, alla censura di violazione dell'art. 24 fa osservare come non é possibile ammettere nel nostro diritto una correzione da parte del giudice, sotto l'aspetto dell'equità, delle regolamentazioni autoritative disposte dal legislatore relative a dati rapporti.

Anche l'Avvocatura dello Stato ha prodotto memoria per ciascuno dei due giudizi in data 25 ottobre nella quale ribadisce le considerazioni svolte negli atti di intervento.

Nella discussione orale i rappresentanti delle parti hanno illustrato le rispettive conclusioni, nelle quali hanno dichiarato di insistere.  

Considerato in diritto 

1. - Le due cause, congiuntamente discusse all'udienza, possono essere riunite e definite con unica sentenza, data l'identità delle questioni con esse sollevate.

2. - Vanno disattese le eccezioni di inammissibilità proposte dalla difesa degli affittuari. Infatti, la Corte ha altre volte statuito che il giudizio sulla non manifesta infondatezza della questione di incostituzionalità può essere validamente effettuato dal giudice a quo mediante rinvio alle deduzioni svolte a suo sostegno dalla parte che l'ha sollevata. Anche in ordine all'apprezzamento della rilevanza da attribuire alla soluzione della questione stessa per la definizione della controversia di merito, la Corte ha ritenuto che non sia da richiedere un'apposita motivazione quando dagli atti della causa se ne palesi evidente la sussistenza. Non ha, pertanto, importanza il rilievo (da cui si vorrebbe dedurre l'inammissibilità per insufficiente accertamento della rilevanza) dell'omissione di ogni indagine sul carattere, innovativo o interpretativo, rivestito dall'art. 1 della legge 11 luglio 1952, n. 765, e ciò anche a prescindere dalla considerazione che, pur se questo dovesse considerarsi innovativo, permarrebbe sempre l'interesse alla soluzione della questione, sia pure limitato ad un minor numero di annate agrarie.

3. - L'eccezione di incostituzionalità con cui si allega la violazione del principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione, e correlativamente dell'art. 24, é prospettata sotto due aspetti diversi; e cioè, in primo luogo, con riferimento al carattere arbitrario che si attribuisce alla riduzione coattiva nella misura del 30 per cento, stabilita pei canoni in grano o ragguagliati al prezzo del grano; in secondo luogo, in relazione all'esclusione, sancita dall'art. 5 D. L. 1 aprile 1947, n. 277, dell'azione di perequazione del canone relativamente ai contratti di cui trattasi.

Sul primo punto la Corte deve riconfermare i criteri enunciati in passato con numerose pronunce (nn. 3, 28, 118 del 1957; n. 53 del 1958; n. 46 del 1959; n. 16 del 1960), in ordine all'interpretazione da dare all'art. 3 della Costituzione ed ai limiti del sindacato ad essa consentito per l'accertamento dell'osservanza del principio di eguaglianza da parte del legislatore: criteri secondo cui, mentre é da ritenere implicita nel principio predetto l'esigenza di disporre trattamenti differenziati per situazioni obiettivamente diverse, rimane, tuttavia, aperto al giudice della costituzionalità l'accertamento delle circostanze dalle quali si desuma l'inesistenza di ogni presupposto idoneo a giustificare la diversità del trattamento.

Per rendersi conto se, alla stregua del criterio riferito, possa ritenersi fondata l'eccepita violazione dell'art. 3 in conseguenza della riduzione ope legis del canone di locazione pattuito in grano o in misura equivalente, é da ricordare come tale riduzione, già disposta per l'annata agraria 1944-45 e confermata per quella successiva dal D.L.P. 22 giugno 1946, n. 44, era collegata al regime dell'ammasso obbligatorio di tutta la produzione del grano, imposto dall'esigenza di non far mancare un prodotto di prima necessità: esigenza alla quale si volle provvedere, sia disponendo che, nel caso di pattuizione del canone di affitto in quantitativi di grano o con riferimento al suo valore, fosse corrisposto all'affittuario un "premio di coltivazione" pari ad un terzo del prezzo base del prodotto, in compenso delle maggiori spese culturali conseguenti agli eventi straordinari che erano intervenuti, sia stabilendo pel prodotto conferito all'ammasso un corrispettivo superiore a quello ricavabile dal libero mercato. L'art. 3 della legge 18 agosto 1948, n. 1140, nel confermare tale ripartizione del prezzo fra concedente e colono, stabilì che ad essa dovesse farsi luogo anche quando fosse venuto meno l'obbligo del conferimento all'ammasso, e quest'ultima statuizione venne ribadita, per le rispettive annate agrarie, dall'art. 1 legge n. 479 del 1949, dall'art. 3 legge n. 505 del 1950, dall'art. 1 legge n. 435 del 1951, e finalmente prorogata sine die dall'art. 1 legge n. 765 del 1952.

Si sostiene dalla difesa dei concedenti che il mantenimento della riduzione del canone, pur dopo l'eliminazione del "premio di coltivazione" e dopo che l'obbligo del conferimento all'ammasso (in un primo momento limitato a determinati contingenti del prodotto - legge n. 454 del 1950) venne abolito, consentendosi solo un ammasso volontario, dia luogo ad ingiustificata sperequazione di trattamento rispetto a quanto praticato nei casi di canoni non pattuiti in grano.

Riguardo a tale doglianza deve, anzitutto, mettersi in rilievo l'inesattezza dell'argomentazione sulla quale é fondata, secondo cui la riduzione del canone sarebbe venuta a pesare sul concedente solo in conseguenza della trasformazione del regime dell'ammasso. In realtà fin dalle prime leggi che ebbero a togliere al proprietario la disponibilità del prodotto, questi é venuto a subire l'onere della decurtazione del canone, poiché il c. d. "premio di coltivazione", previsto dalle leggi stesse, in null'altro consisteva se non nella facoltà conferita all'affittuario di corrispondere la sua prestazione in misura inferiore a quella pattuita. É vero che tale riduzione trovava un qualche compenso, in via di media, e di fatto, nella corresponsione a favore del concedente di un prezzo per il grano da lui conferito in certa misura superiore a quello di mercato. Ma non é meno vero che di tale beneficio, anche se minore nella sua entità, egli ancora gode pur dopo il passaggio dall'ammasso totale a quello volontario per contingente. Ciò può dirsi non solo nei riguardi della quantità rientrante nel contingente ma anche per la parte rimanente. Infatti, mentre per la prima il concedente si avvantaggia in modo diretto del prezzo superiore a quello della libera contrattazione, qual é fissato dal Comitato interministeriale prezzi, per l'altra viene a godere del sovrapprezzo che indirettamente risulta dalla manovra operata dalla pubblica autorità, la quale gradua l'immissione al consumo del grano ammassato onde stabilizzare i prezzi e preservare i produttori dai ribassi che altrimenti si produrrebbero a suo danno. La cura posta dallo Stato onde ottenere tali risultati appare comprovata anche dalle recenti disposizioni consacrate nel D.M. 9 agosto 1961, che, in attuazione delle direttive fissate dal piano quinquennale per lo sviluppo dell'agricoltura, di cui alla legge 2 giugno 1961, n. 454, ha regolato l'ammasso volontario del grano, allo scopo di incoraggiare e sostenere (giovandosi degli stanziamenti di appositi contributi posti a carico dello Stato), l'iniziativa dei produttori, e ciò "anche in considerazione della nuova riduzione dell'ammasso per contingente", secondo é detto nelle premesse del decreto ministeriale predetto.

Se si tiene presente la circostanza ora messa in rilievo si rende palese l'infondatezza della tesi di parte secondo cui l'ammasso per contingente avrebbe aggravato la sperequazione fra gli stessi produttori, in quanto avrebbe diversificato le loro posizioni in base alla circostanza del tutto accidentale dell'essere o no ammessi al conferimento.

Alle considerazioni che precedono, di per sé sufficienti a far ritenere non arbitrario il trattamento differenziato disposto per i canoni in grano, sono poi da aggiungere quelle deducibili, per una parte, dagli interessi di carattere generale cui soddisfa la cultura granaria, rivolta ad un prodotto avvertito di prima necessità dalla massa della popolazione (tale, quindi, da giustificare ogni intervento dello Stato idoneo ad incrementarla, o per lo meno a non scoraggiarla), e, per l'altra parte, dalla struttura dei contratti agrari con canoni in grano, che si presenta più uniforme nelle varie regioni (tale, quindi, da non fare apparire ingiusta una riduzione operata nella stessa misura per tutte).

Non esercita influenza sulla conclusione alla quale si é pervenuti il fatto, rilevato dalla difesa dei concedenti, che la riduzione coattiva (ai sensi della legge interpretativa 5 gennaio 1955, n. 4) si applica tanto sul canone pagato in natura quanto su quello risultante dalla conversione in danaro. Infatti, l'affittuario che non produce grano nel fondo locato dovrà ragguagliare il canone al prezzo corrente (che, come si é visto, non é quello di mercato) sobbarcandosi così all'onere correlativo. Quest'ultima argomentazione é sufficiente anche a far ritenere non probante l'argomentazione di parte, che, a riprova della presunta iniquità della riduzione, fa rilevare come questa colpisca in modo uguale tutti i canoni, senza riguardo al tipo di cultura effettivamente praticato nel fondo, e tale quindi da non trovare giustificazione nei particolari oneri connessi alla produzione del grano.

Le considerazioni esposte conducono, pertanto, a far ritenere infondata l'eccezione basata sulla violazione dell'art. 3 della Costituzione.

4. - Sfornita di fondamento é anche l'eccezione, sollevata con l'ordinanza del 26 aprile 1960, di violazione degli artt. 41 e 42 della Costituzione. Infatti, tali articoli, mentre affermano in via di massima la libertà dell'iniziativa economica privata ed il libero godimento della proprietà privata, consentono tuttavia che all'una ed all'altro siano imposti limiti, al fine di farli armonizzare con l'utilità sociale e render possibile l'adempimento di quella funzione sociale che non può dissociarsi dal godimento dei beni di produzione o, più generalmente, dall'esercizio di ogni attività produttiva. L'esigenza del conseguimento di tali fini come giustifica l'imposizione di condizioni restrittive per lo svolgimento dell'autonomia contrattuale, così può consentire la modifica o l'eliminazione di clausole di contratti in corso quando esse si rivelino contrastanti con l'utilità sociale.

Nella specie la riduzione obbligatoria dei canoni in grano ha corrisposto all'esigenza di eliminare o attenuare il danno economico che sarebbe provenuto agli affittuari dal mantenimento di quelli pattuiti in contratto, in conseguenza del grave mutamento derivato dagli eventi bellici. E non può esser dubbio che ricondurre ad equità i rapporti contrattuali i quali appaiono gravemente sperequati a danno di una delle parti, e tanto più di quella da ritenere più debole, ai sensi del secondo comma dell'art. 3 della Costituzione, rientri nei poteri che l'art. 41 conferisce al legislatore.

5. - Si deve ora passare all'esame dell'altro motivo con il quale si é denunciata l'incostituzionalità degli artt. 5, ultimo comma, del D.L.C.P.S. n. 277 del 1947 e 3, ultimo comma, della legge n. 1140 del 1948, pel fatto che essi, in contrasto con l'art. 24, precludono alle parti, pei contratti con canoni in grano, il diritto di invocare avanti alle Sezioni specializzate la revisione dei canoni che risultassero sperequati.

É da ricordare al riguardo che il potere di esperimento dell'azione giudiziaria, qual é garantito dall'art. 24, ha a suo presupposto il possesso in chi l'esercita della titolarità di un diritto o di un interesse legittimo, cioè di una situazione giuridica subiettiva di vantaggio, di carattere sostanziale, il cui riconoscimento, in caso di controversia, sia posto ad oggetto della pretesa fatta valere in giudizio.

Si tratta, pertanto, di vedere se la riduzione coattiva del 30 per cento sui canoni in grano importi di per sé l'assorbimento del potere di richiedere la revisione dei canoni così ridotti, perché, se così fosse, i motivi dedotti a dimostrazione della legittimità della riduzione dovrebbero farsi valere anche per ritenere valido il divieto di perequazione.

Per quanto il punto abbia dato luogo in dottrina a dissensi di opinione, non può del tutto escludersi la compatibilità della diminuzione coattiva ed uniforme per tutta una categoria di canoni, con la riduzione ad equità dei medesimi, rendendosi possibile che la competente Sezione specializzata, dopo avere valutato, alla stregua dei criteri fissati dagli artt. 1 e 2 del D. n. 277 del 1947, le condizioni particolari relative al contratto denunciato, determini il quantitativo ritenuto equo di derrate da corrispondere dall'affittuario ed applichi poi sul medesimo la riduzione del 30 per cento (rimanendo in ogni caso precluso che la riduzione stessa sia fatta valere quale motivo di sperequazione). Tale compatibilità risulta del resto riconosciuta dallo stesso legislatore, come si desume dalle leggi che per alcune annate agrarie hanno ammesso le due categorie di misure (D. L. P. 22 giugno 1946, n. 44; art. 1 D.L.C.P.S. 12 agosto 1947, n. 975), nonché dai lavori preparatori della legge 16 maggio 1950, n. 505.

É, tuttavia, da tenere presente che l'esigenza di operare una riequilibrazione delle prestazioni corrispettive, quali erano state stipulate nei contratti agrari, prorogati sine die per opera della legge, ha trovato la sua principale ragion d'essere nel mutamento verificatosi nelle condizioni generali per effetto degli eventi bellici, ed in particolare modo nella grave alterazione del valore della moneta. Ora, mentre per la generalità dei detti contratti si é ritenuto necessario consentire la riduzione ad equità delle loro clausole con riferimento alle situazioni specifiche dei singoli rapporti, viceversa per quelli i cui canoni erano stati stipulati in grano é parso opportuno effettuare una perequazione di carattere generale ed uniforme, nella considerazione che per essi la particolarità delle situazioni proprie di questo o di quel fondo, di questa o di quella zona assumessero un valore secondario e marginale, tale da non giustificare l'esperimento di appositi giudizi in perequazione. Siffatto apprezzamento non può ritenersi irrazionale quando si richiamino le precedenti osservazioni in ordine al beneficio accordato agli affittuari con la riduzione del 30 per cento ed a quello che ai concedenti é provenuto in virtù della corresponsione di un prezzo politico del grano ammassato, prima, e poi delle provvidenze adottate in regime di ammasso per contingente.

Né potrebbe dedursi un particolare motivo di incostituzionalità per violazione dell'art. 3 dal fatto che il legislatore, per singole annate agrarie, ha accordato il rimedio della perequazione pur in presenza della riduzione coattiva, perché, una volta esclusa la sussistenza di una vera pretesa alla perequazione, sfuggono all'apprezzamento della Corte i motivi di opportunità che hanno consigliato l'adozione in via temporanea di tale trattamento.

Neppure fondata é da ritenere l'altra censura di incostituzionalità che la difesa dei concedenti ha prospettato, sempre sotto l'aspetto della violazione degli artt. 3 e 24, allegando la ingiustificata preclusione del rimedio della perequazione a danno di coloro i quali, avendo adito per l'annata agraria 1946-47 le Sezioni specializzate ed ottenuto la perequazione con riferimento anche alle riduzioni del 30 per cento, ai sensi dell'art. 2 del D. n. 975 del 1947, sono stati poi colpiti da riduzioni del canone già sottoposto ad un giudizio nel quale si era tenuto conto di tale falcidia. Infatti, la giurisprudenza della Cassazione ha sempre fatto esatta applicazione delle leggi che si sono succedute in materia, statuendo che le revisioni effettuate dal giudice per l'annata agraria 1946-47 in base al citato decreto n. 975 del 1947, devono considerarsi limitate esclusivamente a tale annata, ed ogni loro ultrattività é esclusa dalle altre leggi di proroga che, con riferimento alle annate successive, hanno ripristinato il divieto di revisione.

6. - Dalla ammissione fatta della costituzionalità delle norme che sottraggono i contratti di cui si parla al giudizio di perequazione non discende la conseguenza prospettata dalla difesa del Ceni, cioè la eliminazione nei confronti dei contratti stessi del potere garantito, in via generale, alle parti contraenti dall'art. 1467 Cod. civ., poiché deve, invece, ritenersi che questa norma trova applicazione anche per essi, allorché ricorrano le condizioni e sotto l'osservanza delle modalità ivi previste, naturalmente senza che si possa invocare come causa di eccessiva onerosità sopravvenuta la svalutazione monetaria, ed al solo fine di ottenere non già la risoluzione del contratto, bensì la modifica delle clausole relative alla prestazione del canone.  

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITIZIONALE 

pronunciando con unica sentenza sui due procedimenti riuniti indicati in epigrafe:

respinge le eccezioni di inammissibilità proposte dall'Avvocatura generale dello Stato e dalla difesa dei sigg. Lanfranchi;

dichiara non fondate le questioni proposte con l'ordinanza della Sezione specializzata del Tribunale di Mantova del 12 aprile 1960, sulla legittimità costituzionale dell'art. 5, capoverso, D.L.C.P.S. 1 aprile 1947, n. 277, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, e con l'altra ordinanza 26 aprile 1960 sulla legittimità costituzionale dell'art. 1 legge 3 agosto 1949, n. 479; art. 3 legge 15 luglio 1950, n. 505; art. 1 legge 16 giugno 1951, n. 435; art. 1 legge 11 luglio 1952, n. 765; legge 5 gennaio 1955, n. 4, nonché art. 5, capoverso, D.L. 1 aprile 1947, n. 277, e art. 3, ultimo comma, legge 18 agosto 1948, n. 1140, in relazione agli artt. 3, 24, 41, 42 della Costituzione.  

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 febbraio 1962.

Giuseppe CAPPI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco Pantaleo GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI

 

Depositata in cancelleria il 27 febbraio 1962.