Sentenza n. 1 del 1963
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SENTENZA N. 1

ANNO 1963

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori Giudici:

Prof. Gaspare AMBROSINI, Presidente

Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO

Prof. Antonino PAPALDO

Prof. Nicola JAEGER

Prof. Biagio PETROCELLI

Dott. Antonio MANCA

Prof. Aldo SANDULLI

Prof. Giuseppe BRANCA

Prof. Michele FRAGALI

Prof. Costantino MORTATI

Prof. Giuseppe CHIARELLI

Dott. Giuseppe VERZÌ

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 43 del decreto legislativo luogotenenziale 23 novembre 1944, n. 369, sulla soppressione dell'ordinamento corporativo, promosso con ordinanza emessa il 16 giugno 1961 dalla Corte di appello di Torino nel procedimento civile vertente tra Betti Carlo e l'Associazione librai italiani contro la Società Paravia e l'Associazione italiana editori, iscritta al n. 166 del Registro ordinanze 1961 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 287 del 18 novembre 1961.

Visti l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri e gli atti di costituzione in giudizio della Società Paravia, dell'Associazione italiana editori, di Betti Carlo e dell'Associazione librai italiani;

udita nell'udienza pubblica del 14 novembre 1962 la relazione del Giudice Antonino Papaldo;

uditi gli avvocati Francesco Santoro Passarelli, per la Società Paravia, Pietro Bodda e Renato Corrado, per l'Associazione editori, Aldo Dedin e Alberto Asquini, per l'Associazione librai, ed il sostituto avvocato generale dello Stato Valente Simi, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

 

Ritenuto in fatto

 

1. - Nel corso di un giudizio pendente davanti al Tribunale di Torino, nel quale il libraio Carlo Betti lamentava che la Società Paravia, in violazione dell'accordo economico collettivo 5 giugno 1935, pubblicato con decreto del Capo del Governo 14 giugno 1935, n. 942, che disciplinava il commercio librario, avesse venduto direttamente a scuole ed istituti scolastici libri di sua edizione praticando sconti superiori al 10 per cento sul prezzo di copertina, la Società convenuta eccepiva, in via preliminare, che quell'accordo e l'art. 43 del decreto legislativo luogotenenziale 23 novembre 1944, n. 369, che ha mantenuto in vigore gli accordi economici ed i contratti collettivi stipulati prima della soppressione dell'ordinamento corporativo, contrastassero con gli artt. 39 e 41 della Costituzione.

Nel processo intervennero volontariamente l'Associazione librai italiani e l'Associazione italiana editori, le quali aderirono, rispettivamente, alla domanda del Betti ed alle eccezioni della Paravia.

Avendo il Tribunale dichiarato la questione manifestamente infondata, la Società Paravia e l'Associazione italiana editori la riproposero in secondo grado.

La Corte d'appello, con ordinanza del 16 giugno 1961, sospendeva il giudizio e rimetteva gli atti alla Corte costituzionale, osservando che la disciplina legale dei prezzi contrasta con il principio d'iniziativa economica sancito dall'art. 41 della Costituzione, e che solo esigenze di ordine pubblico e di realizzazione di fini sociali possono, in singoli casi, legittimarla, mentre l'interesse in considerazione del quale fu stipulato l'accordo economico librario del 1935 non sembra potersi identificare con un interesse d'utilità sociale, che, nella specie, sarebbe quello di rendere i libri accessibili a tutti con il loro basso prezzo.

Né la conciliabilità dell'art. 43 del decreto legislativo del 1944 con l'art. 41 della Costituzione può ritenersi già affermata dalla sentenza n. 55 del 1957, con la quale la Corte costituzionale riconobbe la sopravvivenza, in forza del citato art. 43, dei contratti collettivi di lavoro stipulati prima della soppressione dell'ordinamento corporativo, perché con tale sentenza, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 509, primo comma, del Codice penale, la Corte si limitò a ricordare che, continuando, in forza dell'art. 43, i contratti collettivi di lavoro a sopravvivere, la norma penale dell'art. 509 del Codice penale, che é diretta appunto a garantire l'osservanza di quei contratti, deve ritenersi tuttora in vita.

L'ordinanza é stata notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri il 25 agosto 1961, comunicata ai Presidenti delle due Camere il 2 settembre successivo e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 18 novembre 1961.

In questa sede si sono costituiti, da una parte, la casa editrice Paravia e l'Associazione italiana editori con separate deduzioni e memorie depositate negli stessi giorni 22 settembre 1961 e 31 ottobre 1962; dall'altra, il signor Carlo Betti, con deduzioni depositate il 29 novembre 1961, e l'Associazione librai italiani, con deduzioni depositate il 3 novembre 1961 e memoria del 31 ottobre 1962.

2. - Per la Società Paravia si osserva anzitutto che l'accordo economico 5 giugno 1935 non rientra nella regolamentazione dell'art. 43 del decreto n. 369, perché questo riguarda accordi economici che regolano "rapporti fra imprenditori collaboranti, analoghi ai contratti di lavoro", mentre l'accordo librario del 1935 regola "rapporti fra imprenditori concorrenti".

Di conseguenza l'esame della legittimità costituzionale dell'art. 43 può farsi soltanto se si ritenga che tale articolo si estenda anche agli accordi economici conclusi fra associazioni di imprenditori concorrenti e limitatamente a quella parte del citato articolo che si riferisce a tali accordi.

In quest'ultima ipotesi, l'art. 43 dovrebbe ritenersi in contrasto con i precetti costituzionali.

Tra l'accordo economico del 1935 e l'art. 43 del decreto n. 369, da una parte, e gli artt. 39 e 41 della Costituzione, dall'altra, esiste un contrasto insanabile, sia rispetto alla libertà di iniziativa economica, sia rispetto all'organizzazione sindacale.

In particolare, l'illegittimità costituzionale delle citate norme starebbe sopratutto nel fatto che, a sensi dell'art. 41 della Costituzione, la legge ordinaria può porre limiti all'esercizio dell'attività economica privata solo quando tali limiti rispondano a misure protettive del benessere sociale.

Nella specie, non risponderebbe a tale finalità il mantenimento in vigore degli accordi economici diretti a limitare la libera concorrenza tra imprenditori.

Pertanto, il citato art. 43, qualora lo si ritenesse applicabile agli accordi economici limitativi della concorrenza, dovrebbe essere dichiarato costituzionalmente illegittimo.

3. - Anche per l'Associazione italiana editori si sostiene che l'accordo librario del 1935 non rientra nell'ambito di applicazione dell'art. 43 del decreto n. 369, dato che questo riguarda atti che disciplinano rapporti di lavoro ed economici tra singoli, mentre quello concerne rapporti tra federazioni. E poiché l'ordinanza di rinvio non si é pronunciata su questo punto, l'Associazione editori sostiene che l'esame di legittimità costituzionale dell'art. 43 debba farsi soltanto se lo si ritenga applicabile anche agli accordi che regolano i rapporti economici di categoria.

A questo argomento é dedicata buona parte della memoria difensiva dell'Associazione editori. Si sostiene che il citato art. 43 non ha disposto la proroga di tutta la disciplina corporativa del lavoro e della produzione, ma soltanto la disciplina dei rapporti collettivi ed individuali tra soggetti esistenti al momento della sua emanazione.

Dalla previsione dell'art. 43 sarebbero, quindi, esclusi gli accordi economici relativi alla disciplina corporativa dei limiti legali della concorrenza, poiché questa si svolgeva attraverso rapporti fra categorie ormai soppresse e fra associazioni e singoli imprenditori appartenenti a tali categorie.

L'art. 43 del decreto n. 369 si é riferito esplicitamente solo ai contratti ed accordi con efficacia "normativa, diretti cioé a porre la disciplina di rapporti collettivi ed individuali fra gli appartenenti alle categorie professionali rappresentate dalle associazioni stipulanti", e pertanto non ha potuto prorogare l'efficacia generale dell'accordo librario del 1935, trattandosi nella specie di efficacia obbligatoria e non normativa e riguardando obbligazioni nei confronti di soggetti non più esistenti.

Nel merito, si precisa che la doglianza di incostituzionalità non é rivolta contro l'art. 43 in ogni sua applicazione, ma solo in quanto manterrebbe in vigore accordi economici, come quello librario del 1935, dal contenuto contrario ai precetti costituzionali. É incostituzionale il contenuto dell'accordo, ma lo é anche l'art. 43 del decreto n. 369, che ne dispone l'obbligatorietà: l'accordo economico é l'oggetto di una situazione di diritto, e l'art. 43 é la legge formale che lo introduce, con una certa efficacia, nel nostro ordinamento.

La violazione dell'art. 41 della Costituzione é da ravvisare non nella fissazione del prezzo di copertina, il quale, essendo fissato dall'editore, non é un prezzo d'imperio, ma nella imposizione, mediante l'art. 43, dell'obbligo di non praticare sconti superiori al 10 per cento, il che si risolve in una coartazione della libera iniziativa economica. Essa, inoltre, é contraria al pubblico interesse, dato che impedisce di praticare riduzioni di prezzo e quindi di invogliare gli interessati all'acquisto di libri, limitando così la diffusione della cultura.

In tal modo l'art. 43 del decreto n. 369, nella fattispecie, rende obbligatoria una disposizione che viola il primo comma dell'art. 41 della Costituzione ed é in contrasto con i precetti di cui al secondo e terzo comma dello stesso articolo.

In conclusione, non si chiede l'annullamento del citato art. 43, ma solo una declaratoria di incostituzionalità della interpretazione di tale articolo, se intesa nel senso che esso é valido anche quando si riferisce ad accordi economici il cui contenuto sia incostituzionale

4. - La difesa del signor Betti, premesso che l'art. 43 del decreto n. 369, nel sopprimere l'organizzazione sindacale, mantenne provvisoriamente in vita tutte le norme corporative esistenti, per non lasciare senza regolamentazione numerosi rapporti creati prima della soppressione del passato ordinamento, osserva che il rinvio che l'art. 43 fa alle norme sindacali preesistenti non menoma in alcun modo la libertà dell'iniziativa privata, salvo a vedere se singole norme ritenute in vigore siano eventualmente in contrasto con tale principio.

Gli artt. 2 e 9 dell'accordo economico del 5 giugno 1935, che qui interessano, dispongono la obbligatorietà del prezzo di copertina, la tolleranza di uno sconto non superiore ad un massimo, le sanzioni ed altre conseguenze dell'inadempimento.

Clausole del genere, frequentissime in ogni sorta di liberi accordi privati, non pongono alcuna limitazione all'iniziativa economica privata, essendo o rimanendo totalmente libera la determinazione del prezzo di copertina e richiedendosene soltanto l'osservanza, una volta che esso é stato posto nella misura scelta dal privato nella sua più piena discrezionalità.

D'altra parte, il fatto che gli sconti da parte degli editori non siano illimitati e discrezionali risponde a fini di utilità sociale, che coincide, nella specie, con il pubblico interesse alla diffusione del libro, e quindi, della cultura, attraverso un sano mercato librario.

Il libraio é uno strumento di tale diffusione e dalla sua esistenza ed efficacia dipende che la diffusione possa attuarsi e svilupparsi. Una sregolata concorrenza degli editori intaccherebbe o, addirittura, annullerebbe la funzione intermediatrice del libraio, con evidente pregiudizio del pubblico interesse culturale.

5. - L'Associazione librai contesta anzitutto quanto affermato dalle controparti in ordine alla distinzione tra accordi economici regolanti rapporti tra categorie e accordi regolanti rapporti tra singoli ai fini dell'applicabilità dell'art. 43 del decreto n. 369.

Ogni accordo economico collettivo produce due ordini di effetti: effetti obbligatori nei rapporti tra le associazioni, ed effetti normativi nei confronti degli appartenenti alle categorie rappresentate dalle associazioni stipulanti. Lo stesso può dirsi per l'accordo librario del 1935. E poiché l'art. 43 del decreto del 1944 conferisce efficacia ultrattiva ai contratti collettivi ed agli accordi economici senza fare distinzioni, esso si applica anche all'accordo librario.

In ogni caso l'accordo in questione é destinato a disciplinare i contratti individuali stipulati tra editori e librai, come é previsto dall'art. 9, per cui, anche sotto questo aspetto, lo si deve considerare mantenuto in vigore dall'art. 43.

Né una differente questione di costituzionalità dell'art. 43, a seconda che si tratti di contratti collettivi o di accordi economici, potrebbe fondarsi sull'art. 39 della Costituzione, perché questo si limita a prevedere una disciplina - peraltro non ancora attuata - soltanto per i contratti collettivi di lavoro. Ed il fatto che un'analoga disciplina non sia stata prevista anche per gli accordi economici, non significa che questi siano illegittimi, ma soltanto che sono costituzionalmente irrilevanti.

Passando al merito, si espongono tesi analoghe a quelle sostenute dalla difesa del signor Betti, mettendo in rilievo che l'art. 43 del decreto n. 369 del 1944, nel sopprimere l'organizzazione sindacale, ha voluto mantenere in vita con forza di legge tutte le norme contenute sia nei contratti collettivi di lavoro che negli accordi economici proprio per fini di utilità sociale, in quanto la soppressione dell'ordinamento corporativo avrebbe travolto tutto un settore di rapporti economici con evidente danno per la sicurezza e la libertà sia di singole persone sia di vasti ceti sociali che nell'ordinamento stesso avevano trovato la necessaria tutela.

Pertanto, la sopravvivenza dei singoli accordi economici, lungi dal violare l'art. 41 della Costituzione, trova la sua ragione d'essere in principi di utilità sociale, da questo richiamati, poiché con tali accordi si sono disciplinati, nell'interesse della sicurezza e della certezza delle relazioni sociali, alcuni particolari rapporti giuridici.

Prevedendo che il prezzo sia fissato liberamente dall'editore, secondo i propri criteri industriali, in regime di libera concorrenza, l'accordo librario non interferisce in alcun modo sulla determinazione del prezzo di vendita dei libri, ma stabilisce soltanto che l'editore non può effettuare a clienti privati uno sconto superiore al 10 per cento.

Il sistema del prezzo fisso nella vendita dei libri si é dimostrato il mezzo migliore per assicurare la più larga, spedita ed economica diffusione del libro nell'interesse della cultura. L'accordo del 1935 non fa che codificare questa esigenza, ponendo un freno alla sregolatezza degli sconti librari, che costituiscono un danno sia per il commercio librario, sia per le librerie, sia per il pubblico, che finisce per sopportarne le conseguenze, perché l'abuso degli sconti porta ad un rialzo dei prezzi di copertina.

Quell'accordo non é dunque in contrasto con la utilità sociale prevista dall'art. 41 della Costituzione, ma rientra tra quei controlli legislativi intesi a coordinare ed indirizzare l'attività economica privata a fini sociali, come vuole appunto l'art. 41 della Costituzione.

É vero che l'accordo economico del 1935 tutela in certo modo la categoria dei librai, ma ciò fa in vista della loro funzione sociale di intermediari nella diffusione della cultura. Difatti il libraio compie una vera e propria opera di educazione del lettore nella scelta del libro, chiunque ne sia l'editore. Se il libraio, di fronte alla concorrenza sregolata degli editori, non potesse più svolgere la sua attività, perché ritenuta antieconomica, ogni editore, avendo interesse, se non esclusivo, almeno concorrente, al collocamento delle proprie pubblicazioni, limiterebbe l'informazione del pubblico alle proprie edizioni e la diffusione dei libri verrebbe a dipendere essenzialmente dalla organizzazione commerciale dei maggiori editori.

6. - L'Avvocatura generale dello Stato osserva che l'unico quesito che si pone alla Corte é quello inerente al lamentato contrasto tra l'art. 43 del decreto legislativo in esame e l'art. 41 della Costituzione, per risolvere il quale non é necessario vagliare il contenuto dei singoli accordi economici al fine di vedere se alcuni di essi siano conformi, o no, al pubblico interesse ed alla utilità sociale. E ciò perché l'esame dei singoli accordi é estraneo al giudizio di legittimità costituzionale, in quanto tali accordi, pur rientrando nella categoria delle fonti giuridiche, non sono leggi né atti aventi forza di legge, ma essi sono stati mantenuti dall'art. 43 nel sistema, nella efficacia, nella gerarchia delle fonti che avevano nel Codice civile.

D'altra parte, il mantenimento in vigore delle norme corporative é un problema unitario, che ha avuto una ratio unitaria e non si può frazionare in un esame analitico estraneo all'interesse generale che lo ha dettato. Quindi, per poter dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 43 non basterebbe dimostrare che un singolo contratto o una singola clausola violano principi costituzionali, ma si dovrebbe dimostrare che é in contrasto con la Costituzione la volontà di mantenere in vita tutta la disciplina collettiva dei rapporti di lavoro del periodo corporativo.

Tale disciplina é indirizzata al raggiungimento di una utilità sociale generale, perfettamente compatibile con l'art. 41 della Costituzione. L'art. 43, infatti, non considera le varie utilità particolari, ma solo quella generale di conservare le forme di autodisciplina di categoria, pur sostituendo al sistema soppresso altro sistema. Si potrebbe dire, sotto questo profilo, che l'art. 43 regola una situazione transitoria di successione di norme, conservando la disciplina collettiva con tutte le sue caratteristiche.

Nella memoria l'Avvocatura rileva che la tesi, secondo la quale gli accordi economici disciplinerebbero rapporti non fra singoli, non appare fondata perché la disciplina collettiva si riflette, per sua destinazione costante, anche sul rapporto singolo concreto. Anche nei riguardi degli accordi, che, come quello librario, regolano rapporti tra categorie uguali, l'utilità sociale generale é rappresentata dalla esigenza di mantenere in vita transitoriamente, e nel loro complesso, gli atti di disciplina collettiva posti in essere durante il cessato ordinamento corporativo.

 

Considerato in diritto

 

1. - In via preliminare occorre identificare le questioni proposte con l'ordinanza di rinvio.

La Corte ritiene che il giudice a quo abbia sollevato una sola questione: quella della legittimità costituzionale dell'art. 43 del decreto legislativo luogotenenziale 23 novembre 1944, n. 369, e non anche quella della legittimità dell'accordo economico collettivo 5 giugno 1935 per il commercio librario. Ciò risulta non soltanto dalla conclusione, che pure é chiarissima nel senso che viene denunziato unicamente l'art. 43, ma anche dall'insieme della motivazione, che richiama quell'accordo non per sottoporlo al giudizio di legittimità costituzionale ma per ricavare da alcune sue disposizioni elementi di dubbio circa la costituzionalità della norma legislativa nella quale l'accordo stesso trova la fonte della sua sopravvivenza.

2. - Una tesi che si presenta in partenza all'esame della Corte é quella sottoposta dalla difesa dell'Associazione italiana editori, secondo cui l'art. 43 del decreto 23 novembre 1944 non avrebbe prorogato l'efficacia normativa dell'accordo librario del 1935, in quanto questo, nella parte relativa alla disciplina corporativa del mercato librario fra editori e librai, non vincolati da rapporti contrattuali, avrebbe perduto vigore per effetto della soppressione dell'ordinamento corporativo e sindacale disposto dal decreto legge 9 agosto 1943, n. 721, e dallo stesso decreto n. 369 del 1944.

Un'altra tesi, che coincide solo in parte con quella esposta, ma tende allo stesso risultato, é stata sostenuta dalla difesa della Società Paravia, la quale ritiene che l'art. 43 avrebbe lasciato in vigore gli accordi economici regolanti i rapporti fra imprenditori collaboranti, analoghi ai contratti collettivi di lavoro, e non gli accordi fra imprenditori concorrenti.

La Corte non può esaminare queste tesi. Stabilire se l'accordo librario sia o non in vigore, se esso si applichi alla causa principale o se l'accordo stesso vincoli o no le parti in causa, attiene manifestamente al giudizio di rilevanza: giudizio che é stato compiuto dal giudice a quo nella sua esclusiva competenza. Ancora più chiaramente proprio del giudizio di rilevanza - e quindi estraneo a questa sede - é lo stabilire se tra le parti esistesse o non un rapporto contrattuale.

Comunque, le questioni di cui ora si é fatto cenno non attengono al giudizio di legittimità costituzionale e, pertanto, in nessun caso, la Corte potrebbe prenderle in esame.

L'assunto che l'art. 43 del decreto legislativo del 1944 avrebbe limitato l'ultrattività di alcuni e non di altri accordi economici collettivi sarebbe ugualmente inammissibile in questa sede anche se fosse prospettato per dimostrare che alcuni di tali accordi siano stati abrogati o che per qualunque altra causa (che non sia quella dell'illegittimità costituzionale) abbiano perduto la loro efficacia.

Fin dalla sua prima sentenza questa Corte dichiarò che le questioni relative all'abrogazione delle norme si muovono sopra un piano diverso da quello della legittimità costituzionale e mirano ad effetti diversi da quelli del relativo giudizio.

Così pure restano fuori dell'ambito del giudizio in questa sede le osservazioni fatte dalla difesa dell'Associazione editori circa la cessazione dell'efficacia obbligatoria degli accordi che stabilivano la disciplina corporativa dell'economia ed in particolare circa la cessazione dell'efficacia degli accordi economici che ponevano limiti alla libertà dei membri di alcune categorie produttive a favore di altre categorie produttive, e specialmente di quegli accordi economici che disciplinano la concorrenza tra i soggetti non legati da rapporti contrattuali, non potendo perdurare né l'obbligo delle associazioni stipulanti di curarne l'osservanza, né il potere disciplinare delle stesse nei confronti degli appartenenti alle categorie interessate.

Tutto ciò, anche se per avventura fosse esatto, non sposterebbe la soluzione: non é di questa sede il giudicare se un gruppo di accordi economici o un singolo accordo siano ancora vigenti e, se vigenti, quali effetti producano nei confronti delle parti che ne invochino l'applicazione.

Le tesi ora esaminate, e dichiarate non pertinenti ai fini del giudizio di legittimità costituzionale, sono state ancora dedotte sotto un altro aspetto dalla Paravia e dall'Associazione editori, le quali sostengono che la questione di costituzionalità dell'art. 43 in tanto può nascere in quanto tale norma sia intesa nel senso che essa si estenda anche a quegli accordi economici che regolano certi rapporti economici fra categorie concorrenti, giacché, se l'art. 43 si interpreta nel senso che esso abbia dato ultrattività solo agli accordi equiparabili ai contratti collettivi di lavoro, la sua legittimità non sarebbe contestabile in vista di tale equiparazione, dato che la Paravia e l'Associazione editori non dubitano della legittimità della norma nei limiti in cui essa ha dato ultrattività ai contratti collettivi di lavoro.

Per vedere quale influenza abbia una tesi siffatta sulla impostazione del giudizio di legittimità costituzionale occorre, anzitutto, ribadire ciò che si é chiarito a principio: ossia che nella presente controversia la questione proposta ha per oggetto la legittimità costituzionale dell'art. 43 e non anche quella dell'accordo librario. Ma é da soggiungere che né tale accordo né qualunque altro accordo potrebbero essere presi in esame in questa sede, non avendo essi forza di legge.

Che non avessero forza di legge anteriormente al decreto legislativo del 1944 é fuori contestazione basterà richiamare, senza bisogno di riportarne né di illustrarne il testo, gli artt. 1 e 7 delle disposizioni sulla legge in generale, senza contare le altre disposizioni del Codice civile e delle leggi particolari, alle quali fa riferimento l'att. 6 delle stesse disposizioni preliminari. Né la forza di legge poté derivare dall'art. 43 del decreto del 1944, giacché, a parte ogni considerazione sul punto se ciò fosse stato possibile, detta norma non volle affatto mutare la natura delle norme corporative che lasciava in vigore.

Nel suo chiaro significato letterale e nel suo spirito la disposizione denunziata mostra l'intento di assicurare l'ultrattività delle norme corporative allora vigenti. Il legislatore, di fronte alla soppressione di quell'ordinamento, non volendo che si determinasse una frattura immediata, stabilì che le norme corporative restassero in vigore.

Ma, nel disporre tale sopravvivenza, il legislatore non intese affatto mutare la natura, il valore e l'efficacia che quelle norme avevano nell'ordinamento già vigente e nell'ordine di gerarchia delle fonti che ad esse spettava nell'ordinamento stesso.

Ed anche se si dovesse ammettere che l'art. 43 non ebbe un compito puramente dichiarativo - quello di dichiarare, appunto, che dalla soppressione delle fonti di produzione delle norme corporative non derivava l'abrogazione delle norme stesse - anche se, cioè, si dovesse riconoscere all'art. 43 un carattere innovativo, nel senso che senza di esso le norme corporative non avrebbero potuto sopravvivere, non ne conseguirebbe che quelle norme abbiano acquistato un valore ed una efficacia pari alle norme di legge. É, quindi, inaccettabile la tesi, prospettata da una delle difese in questa sede, secondo cui solo questa Corte potrebbe dichiararne l'inefficacia, mentre ogni altro giudice non potrebbe disapplicarle a norma dell'art. 5 della legge abolitrice del contenzioso amministrativo. Al contrario, é da ritenere che solo al giudice competente per le singole controversie spetti di esaminare il valore e l'efficacia di ogni singolo accordo (per fare riferimento a ciò che interessa in questa controversia) preso nel suo complesso o di particolari disposizioni in esso contenute: esaminare se sia vigente, se e come sia efficace nei confronti delle parti in causa, se contrasti o no con norme imperative appartenenti ad un livello superiore nella gerarchia delle fonti ed in primo luogo se contrasti con norme costituzionali.

Da quanto si é fin qui esposto risulta che, ai fini dell'esame di legittimità costituzionale, l'art. 43 deve essere preso nel suo significato unitario, che é quello del suo intento di assicurare ultrattività al complesso delle norme corporative, considerate nel loro sistema e non nel singolo contenuto di esse. E pertanto appaiono ininfluenti tutte le questioni che si riferiscono alle singole norme corporative o a singoli gruppi o categorie delle norme stesse.

3. - Precisato così l'ambito dell'esame che la Corte deve compiere, si può ora procedere al raffronto tra l'art. 43 e le norme costituzionali, delle quali é stata denunziata la violazione.

Quanto al lamentato contrasto con l'art. 39, la Corte osserva che, se l'art. 43 fosse intervenuto dopo l'entrata in vigore della Costituzione, sarebbe stato logico discutere se una legge ordinaria potesse stabilire che ai sindacati spettasse di stipulare altre pattuizioni diverse dai contratti collettivi di lavoro.

Ma la situazione, rispetto all'art. 43, é completamente diversa. Nessun potere fu conservato ai sindacati. Il complesso delle norme riguardanti i rapporti collettivi di lavoro ed i rapporti economici rimase, per così dire, cristallizzato. Nel momento in cui la legge faceva cessare la fonte di produzione di quelle norme, la stessa legge ne assicurava l'efficacia per l'avvenire.

Non si può, dunque, ravvisare un contrasto tra una norma che ha assicurato ultrattività a norme prodotte da fonti eliminate dall'ordinamento e l'art. 39 che, disponendo per l'avvenire, ha delineato un nuovo sistema.

Anche rispetto all'art. 41 della Costituzione l'art. 43 deve essere esaminato solo nel suo carattere e nella sua portata generale: si deve, cioè giudicare se sia conforme al sistema dell'art. 41 una norma che ha mantenuto in vigore, ai sensi e nei limiti e con gli effetti più volte già messi in luce, il sistema delle norme emanate in regime corporativo.

Nell'ordinanza e nelle difese in questa sede il contrasto con l'art. 41 é stato dedotto sotto duplice aspetto: violazione della riserva di legge e difetto di utilità sociale.

Quanto alla riserva di legge, é da osservare che la giurisprudenza della Corte, mentre, anche di recente, ha avuto occasione di riaffermare che le limitazioni alla libera iniziativa economica possono essere disposte soltanto con legge, ha costantemente ammesso che la riserva di legge non esige che l'intera disciplina dei rapporti venga regolata con atto normativo del Parlamento, dovendosi ritenere sufficiente che questo determini i criteri, le direttive idonee a contenere in un ambito delineato l'esercizio tanto dell'attività normativa secondaria quanto di quella particolare e concreta di esecuzione affidate al Governo, evitando che esse si svolgano in modo assolutamente discrezionale (sentenze nn. 4 e 5 del 6 e 8 febbraio 1962): le determinazioni della legge possono essere diverse a seconda della natura dell'attività economica e dell'utilità sociale che si tende a perseguire, e può anche ammettersi che in talune ipotesi esse si presentino di complessità notevolmente minore che non in altre, ma non può esser dubbio che la loro totale mancanza significhi che il principio della riserva di legge non é rispettato (sentenza n. 54 del 5 giugno 1962).

Rispetto alla situazione ora in esame, é da constatare, anzitutto, che l'art. 43 é norma di legge, con lo stesso valore di una legge approvata dal Parlamento, essendo contenuto in un testo emanato in forza del decreto-legge luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151 (si veda, da ultimo, la sentenza di questa Corte del 3 luglio 1962, n. 85).

La situazione creata con l'art. 43 si presenta in termini antitetici di fronte ai casi che si sono verificati posteriormente all'entrata in vigore della Costituzione: quella norma ebbe l'intento di lasciare in vigore norme precedenti, mentre nei casi che si sono verificati posteriormente all'entrata in vigore della Costituzione le norme, denunziate come violatrici della riserva di legge posta con l'art. 41, affidavano al Governo, per esercitarli in futuro, poteri discrezionali più o meno ampi ai fini della limitazione della libertà di iniziativa economica. L'art. 43, invece, non conferì alcun potere discrezionale al Governo, né affidò alcun potere a qualunque altro organo, pubblico o privato che fosse.

Vero é che, come più volte si é posto in rilievo, le norme corporative lasciate in vigore non hanno assunto forza di legge, ma da ciò non si può dedurre che la norma che ne assicurò l'ultrattività sia venuta a trovarsi in contrasto con l'art. 41 per violazione della riserva di legge. Si consideri che il complesso delle norme delle quali fu assicurata l'ultrattività costituiva un sistema, ben definito, legittimamente prodotto in base all'ordinamento vigente al tempo della sua formazione e mantenuto in vigore con una legge emanata al momento in cui quell'ordinamento veniva soppresso. Così stando le cose, la Corte non crede che, nel caso attuale, sussista violazione della riserva di legge, qualunque opinione si possa avere circa l'effetto che le riserve di legge stabilite dalla nuova Costituzione spieghino su norme non legislative emanate prima della Costituzione stessa sulla base di un sistema anteriore.

Ed anche per quel che si riferisce alla violazione dello stesso art. 41 per il denunziato difetto di utilità sociale, si può trascurare, come non necessaria ai fini del decidere, la questione se, nei riguardi di norme anteriori alla Costituzione, l'utilità sociale, cui si riferisce l'art. 41, debba essere esaminata rispetto al momento in cui la norma anteriore fu emanata ovvero rispetto al momento dell'entrata in vigore della Costituzione od anche a momenti ancora successivi; così pure si può omettere di esaminare se nel caso attuale sia da considerare il secondo o il terzo comma dell'art. 41, in quanto nell'impostazione della questione sottoposta alla Corte dall'ordinanza e sviluppata dalle parti l'esistenza di una utilità sociale viene assunta come un presupposto comune ai due citati commi dell'art. 41: impostazione dalla quale la Corte non ritiene che sia il caso di discostarsi, apparendo essa corretta ai fini della causa.

Quel che occorre ribadire é che qui trattasi di esaminare se esista un contrasto dell'art. 43 del decreto del 1944 con l'art. 41 della Costituzione e non un contrasto delle singole norme corporative o di singoli gruppi di esse con lo stesso art. 41: contrasto che potrà essere accertato nella sede competente per il giudizio di legittimità di tali norme. Per il che rimane estraneo alla presente controversia tutto ciò su cui le parti hanno dibattuto rispetto all'accordo librario ed in particolare rispetto alla disciplina dei prezzi.

In questa sede sarà sufficiente rilevare che l'intento dell'art. 43 fu ispirato a manifesta utilità sociale nel momento in cui, soppresso l'ordinamento sindacale, si ebbe cura di assicurare la sopravvivenza delle norme corporative considerate nel loro complesso. Ed altrettanto manifesta é l'attuale utilità sociale di mantenere in vita quel complesso di norme - ai sensi e nei limiti e con gli effetti che giova ancora una volta richiamare - fino a quando, in base agli strumenti di produzione normativa ammessi dalla Costituzione, non sia possibile adeguarle alle nuove esigenze.

Nessuno, in questa controversia, ha messo in dubbio che l'art. 43, assicurando la sopravvivenza dei contratti collettivi di lavoro e rendendo possibile un collegamento con il sistema che il legislatore adotterà in applicazione dell'art. 39 della Costituzione, abbia spiegato una benefica efficacia nel campo sociale. Ora, anche se fosse vero che solo i contratti collettivi di lavoro e gli accordi economici ad essi equiparabili siano rimasti in vita, basterebbe questo per render sicura l'affermazione che l'art. 43 era e continua ad essere sorretto da evidenti scopi di utilità sociale.

 

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 43 del decreto legislativo luogotenenziale 23 novembre 1944, n. 369, concernente la soppressione delle organizzazioni sindacali fasciste e la liquidazione dei rispettivi patrimoni, in riferimento agli artt. 39 e 41 della Costituzione.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 febbraio 1963.

 Gaspare AMBROSINI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI - Giuseppe VERZÌ.

 

 

Depositata in cancelleria il 12 febbraio 1963.