SENTENZA N. 35
ANNO 1961
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori giudici:
Avv. Giuseppe CAPPI, Presidente
Prof. Gaspare AMBROSINI
Dott. Mario COSATTI
Prof. Francesco Pantaleo GABRIELI
Prof. Giuseppe CASTELLI AVOLIO
Prof. Antonino PAPALDO
Prof. Nicola JAEGER
Prof. Giovanni CASSANDRO
Prof. Biagio PETROCELLI
Dott. Antonio MANCA
Prof. Aldo SANDULLI
Prof. Giuseppe BRANCA
Prof. Michele FRAGALI
Prof. Costantino MORTATI
Prof. Giuseppe CHIARELLI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale della legge 7 luglio 1959, n. 490, promossi con le seguenti ordinanze:
1) ordinanza emessa il 2 marzo 1960 dal Consiglio di Stato in s. g. - Sezione IV - su ricorso della "Società Fondiaria Agricola Industriale" ed altre società esercenti l'industria zuccheriera contro il Presidente del Consiglio dei Ministri, quale Presidente del C.I.P., Mascolo Alfonso, Caccianini di Frisa Giovanni e l'Associazione Nazionale Bieticoltori, e con l'intervento della "Società Generale Conserve Alimentari Cirio", iscritta al n. 63 del Registro ordinanze 1960 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 174 del 16 luglio 1960;
2) ordinanza emessa il 24 giugno 1960 dal Tribunale di Modena nel procedimento civile vertente tra Meletti Luigi e la Società italiana per l'industria degli zuccheri, iscritta al n. 73 del Registro ordinanze 1960 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 216 del 3 settembre 1960.
Viste le dichiarazioni di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
udita nell'udienza pubblica del 10 maggio 1961 la relazione del Giudice Giuseppe Castelli Avolio;
uditi l'avv. Antonio Sorrentino, per la "Società Fondiaria Agricola Industriale" e le altre società, nonché, unitamente all'avv. Massimo Severo Giannini, per la Società italiana per l'industria degli zuccheri, gli avvocati Aldo Dedin e Paolo Boitani, per Caccianini di Frisa Giovanni, ed i sostituti avvocati generali dello Stato Luciano Tracanna e Stefano Varvesi, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
Ritenuto in fatto
- - Dinanzi alla IV Sezione del Consiglio di Stato pendeva il ricorso proposto dalla "Società Fondiaria Agricola Industriale", con sede in Valdagno, ed altre Società esercenti l'industria zuccheriera contro il Presidente del Consiglio dei Ministri, quale Presidente del C.I.P., nonché Mascolo Alfonso, Caccianini di Frisa Giovanni e l'Associazione Nazionale Bieticoltori, e con l'intervento della "Società Generale Conserve Alimentari Cirio", per l'annullamento della deliberazione del C.I.P. 5 giugno 1959, n. 796, relativa al prezzo delle bietole da zucchero prodotte nella campagna 1959. Su analoga eccezione dei ricorrenti fu sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge 7 luglio 1959, n. 490, sotto il profilo della violazione degli artt. 41 e 113 della Costituzione. Con ordinanza 2 marzo 1960, la questione stessa veniva rimessa alla competenza della Corte costituzionale.
- - Il Consiglio di Stato osservava nella propria ordinanza, innanzi tutto, che l'impugnato art. 5, primo comma, stabilisce che: "per le barbabietole da zucchero del raccolto 1959, il prezzo di cessione che risulta determinato dal C.I.P. alla data di pubblicazione della presente legge deve intendersi prezzo fermo", e che il secondo comma dello stesso articolo dispone che "per il raccolto di cui al comma precedente, sono confermate le altre condizioni di cessione concordate tra l'Associazione Nazionale Bieticoltori e le ditte e società saccarifere per la campagna 1957". Affermava, quindi, che la prima di tali espressioni legittima l'opinione che la norma stessa abbia interamente regolato la materia oggetto di contestazione, in quanto il richiamo "al prezzo che risulta determinato" dimostra l'intendimento non di regolare solo l'efficacia della deliberazione del C.I.P., conferendo qualifica di "fermo" al prezzo massimo con essa deliberazione stabilito, ma bensì di recepire legislativamente la misura determinata, assumendo così nella norma il prezzo stesso, come risultato della elaborazione del C.I.P. Conclusione, questa, che sarebbe confermata dalla seconda espressione citata, riproducente pressoché letteralmente l'introduzione del provvedimento impugnato, e dalla considerazione che, al momento della entrata in vigore della legge, tutte le contrattazioni relative al raccolto 1959 erano già definite, avvenendo esse, per le semine primaverili, nell'autunno dell'anno precedente e, per le semine autunnali, nei primi mesi dell'anno stesso. Ciò, infatti, come si legge nell'ordinanza, escluderebbe la possibilità di considerare valida la norma solo per il periodo successivo alla sua entrata in vigore, e ne chiarirebbe la portata comprensiva della materia regolata dalla legge impugnata "con efficacia ex tunc e senza lasciare alcun margine che possa considerarsi autonomamente regolato dall'atto amministrativo".
Da queste conclusioni il Consiglio di Stato desumeva, in tesi, l'inammissibilità del ricorso, ma traeva, peraltro, anche la conseguenza della pregiudizialità della questione di legittimità costituzionale prospettata dai ricorrenti nei termini predetti sulla pronuncia in ordine alla inammissibilità del ricorso, fondata, appunto, sul presupposto della recezione in sede legislativa del contenuto dell'atto amministrativo impugnato, e, quindi, sulla validità della relativa norma di legge.
Quanto al merito della questione di legittimità costituzionale, il Consiglio di Stato, nell'ordinanza di rimessione osservava, relativamente alla prospettata violazione dell'art. 113 della Costituzione, che la garanzia che é conferita al cittadino attraverso la potestà di impugnare in sede giurisdizionale gli atti amministrativi - quali appunto sono le deliberazioni del C.I.P., come ritenuto dalla Corte costituzionale con sentenza 8 luglio 1957, n. 103 - verrebbe meno nel caso in cui il legislatore trasformi ex post l'atto amministrativo in norma legislativa. Ciò apparirebbe tanto più evidente nel caso di specie, ove si consideri che l'art. 5 viene a stabilire un vero e proprio ius singulare per il raccolto del 1959, conferendo forza di legge al deliberato del C.I.P. al riguardo, e conservando, invece, la garanzia giurisdizionale relativamente agli altri provvedimenti considerati nella legge, di natura evidentemente amministrativa. Questo comportamento del legislatore parrebbe anzi, secondo l'ordinanza, costituire una vera e propria sanatoria dei vizi da cui fosse eventualmente affetto l'atto impugnato, e l'incostituzionalità potrebbe ravvisarsi, come pure si precisa nell'ordinanza, proprio particolarmente in relazione alla retroattività di una norma che incide, ora per allora, assorbendolo e modificandone la natura, su un atto amministrativo emanato in base ad una legge diversa. Il che varrebbe a differenziare la fattispecie in esame da quella già risolta dalla Corte costituzionale con la sentenza 25 maggio 1957, n. 60, la quale ha considerato e ritenuto costituzionalmente legittimi in relazione all'art. 113 della Costituzione i decreti di esproprio emanati in forza delle leggi sulla riforma fondiaria, decreti che la Corte costituzionale ha ricondotto nello schema della legge delegata.
- - Relativamente, poi, all'altro aspetto di incostituzionalità denunciato, il Consiglio di Stato rilevava che la norma impugnata non si risolve né in programma né in controllo, nel senso proprio che a questi termini dovrebbe attribuirsi a norma dell'art. 41 della Costituzione, terzo comma. Ed invero l'art. 5 impugnato non porrebbe un programma, poiché, mentre a tale concetto inerisce la natura di regolamentazione preventiva, esso art. 5 incide su rapporti già esauriti o in via di esaurimento.
Né potrebbe escludersi l'incostituzionalità riguardando la norma sotto il profilo del controllo, giacché, dalla contemporaneità dell'iter della deliberazione del C.I.P. e della legge impugnata, e dalla comunanza delle finalità perseguite, dovrebbe desumersi che il prezzo di cessione delle bietole fu, in entrambi i casi, il risultato degli stessi criteri di determinazione. Ora, prosegue l'ordinanza, il C.I.P. ha adottato in proposito un criterio differenziale, ragguagliato alla resa del prodotto, che potrebbe essere considerato come una partecipazione accordata ai bieticoltori sui profitti dell'industria zuccheriera, oppure, addirittura, come una sovvenzione posta a carico degli industriali ed a favore degli agricoltori. Nel che potrebbe ravvisarsi una finalità protettiva di un determinato settore economico, conseguita facendone gravare l'onere su un'altra categoria di operatori, e, quindi, un vizio di contrasto con la libertà di iniziativa economica, analogo a quello che la Corte costituzionale, con sentenza 30 dicembre 1958, n. 78, ha rilevato nel D.L.C.P.S. 16 settembre 1947, n. 929, contenente norme circa il massimo impiego dei lavoratori agricoli.
- - L'ordinanza, notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri, anche quale Presidente del C.I.P., al Mascolo, al Caccianini ed alla Società Cirio il 29 aprile 1960, ed alle ricorrenti il 30 aprile successivo, é stata comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 17 luglio 1960, n. 174.
La "Società Fondiaria Agricola Industriale" e le altre Società ricorrenti si sono costituite a mezzo dell'avv. Antonio Sorrentino il quale, in data 23 maggio 1960, ha depositato le proprie deduzioni nella cancelleria della Corte costituzionale.
- - La difesa delle società premette che la favorevole posizione garantita ai bieticoltori per l'elevatezza del prezzo del prodotto e la sicurezza del suo collocamento conseguita attraverso i contratti nazionali aveva condotto ad un progressivo espandersi della coltura, anche in virtù della collaborazione istituitasi fra bieticoltori e industriali dello zucchero mediante la fissazione di un prezzo delle bietole proporzionale a quelle delle zucchero determinato dal C.I P. (56 per cento del prezzo di un quintale di zucchero per ogni tonnellata di bietole, supponendo una polarizzazione del 13,60 per cento, con aumento della percentuale per quote superiori di polarizzazione). Con ciò, peraltro, si giunse ad una crisi di sovraproduzione che indusse il Governo a studiare opportuni provvedimenti, tra cui la riduzione del prezzo dello zucchero. Di fronte a tale eventualità - tradottasi, poi, in una reale diminuzione stabilita dal C.I.P. l'8 settembre del 1956 -, i bieticoltori proposero che il prezzo di cessione delle bietole fosse determinato dal C.I.P., onde sottrarlo autoritativamente alla disciplina precedente, che lo collegava percentualmente a quello dello zucchero. Ed il C.I.P., con provvedimento del marzo 1956, fissò il prezzo di cessione delle bietole alle fabbriche in lire 54,1990 per quintale-grado. Questo prezzo, secondo la difesa, coincideva di fatto con quello determinato con i criteri di cui al contratto nazionale del 1954 (il che avrebbe costituito oltre tutto una palese illegittimità, dovendo istituzionalmente il C.I.P. fissare i prezzi in base ai costi di produzione). Si trattava, comunque, di una coincidenza solo temporanea, perché legata alla conservazione di quel determinato prezzo dello zucchero. Ed infatti, con la successiva diminuzione del prezzo stesso, variò il rapporto fra i due prodotti, poiché quello delle bietole, fissato col detto criterio, rimase immutato.
Sempre secondo la difesa delle società zuccheriere, alla scadenza del contratto triennale 1954 i bieticoltori, non acquietandosi ai vantaggi conseguiti col mantenimento della loro favorevole posizione, prospettarono al Governo una tesi secondo cui, essendo stato accertato dal C.I.P. che il costo della materia prima occorrente per un quintale di zucchero era di lire 7.371, sulla base di una resa media convenzionale inferiore a quella effettiva, e lucrandone, quindi, gli industriali indebitamente la differenza, il prezzo di cessione delle bietole avrebbe dovuto essere ragguagliato a lire 7.371 per ogni quintale di zucchero prodotto, quale che fosse il quantitativo di bietole impiegato, salva poi la ripartizione delle somme complessive fra i bieticoltori a seconda della quantità e qualità del prodotto da loro rispettivamente ceduto. Questa tesi, secondo la difesa, non avrebbe rispecchiato esatti criteri di determinazione dei prezzi, e avrebbe suggerito, comunque, l'ovvia considerazione che, anche ammessa una certa larghezza da parte del C.I.P. a favore dell'industria, nel calcolo del costo delle bietole, dovuta alla superiorità della resa effettiva su quella convenzionale tenuta presente nel calcolo, ciò avrebbe dovuto condurre, se mai, ad una revisione del prezzo dello zucchero, e non ad un aumento del prezzo delle bietole.
Tale pretesa, inoltre, avrebbe presentato i seguenti aspetti di illegittimità: 1) violazione del principio fondamentale secondo cui i prezzi fissati dal C.I.P. costituiscono un maximum e non un corrispettivo fisso; 2) violazione dell'altro principio fondamentale secondo cui il C.I.P. deve fissare i prezzi di un prodotto sulla base dei costi di produzione del prodotto stesso, e non con riferimento ad un altro prodotto, quale, appunto, lo zucchero rispetto alle bietole; 3) fissazione di un prezzo differenziato fra i vari bieticoltori, in relazione ai diversi quantitativi percentuali di zucchero prodotti dagli zuccherifici in virtù della maggiore o minore capacità di macchinari; 4) conseguente turbamento del mercato sia per l'afflusso del prodotto ai centri di maggior resa e, quindi, di maggior profitto, sia per lo scoraggiamento delle industrie più progredite a ricavare tutto il possibile dalla materia prima, onde non accrescere troppo i costi di produzione; 5) istituzione di una prestazione coattiva a carico degli industriali, imponendo loro non un prezzo, ma un quid proporzionato alla produzione dello zucchero; 6) violazione dei limiti imposti dalla legge all'attività del C.I.P., che avrebbe così posto una disciplina tendente a realizzare fini di politica economica; 7) determinazione dei prezzi in base a presupposti errati o deformati, quali quello della differenza fra resa convenzionale e resa effettiva; 8) realizzazione di una ingiustizia manifesta per l'aumento ingiustificato di un prezzo già assai favorevole, e conseguente contrasto con la politica generale del Governo, tendente a contenere i prezzi delle derrate agricole che, come le bietole, non possono sostenere il mercato internazionale.
Aggiunge la difesa che questi motivi di illegittimità, benché riconosciuti sostanzialmente in una relazione della Segreteria del C.I.P., cui il Ministro dell'agricoltura aveva sottoposto la proposta dei bieticoltori, furono però di fatto superati dallo stesso C.I.P. che, il 7 gennaio 1959, adottò una deliberazione praticamente conforme alla proposta stessa, nominando una commissione con il compito di elaborare le modalità tecniche di liquidazione e pagamento del prezzo delle bietole, sì da garantire ai bieticoltori l'attribuzione effettiva di una quota pari a lire 7.371 sul prezzo di ogni quintale di zucchero.
Tuttavia, poiché la commissione elaborò una relazione negativa, il Ministero propose che si pervenisse praticamente allo stesso risultato modificando le percentuali di resa di cui al provvedimento del C.I.P. del marzo 1956. Ciò che, sempre secondo la narrativa dei fatti esposti dalla difesa delle industrie zuccheriere, fu attuato dal C.I.P. col provvedimento del 5 giugno 1959, col quale, appunto, il prezzo delle bietole veniva maggiorato rispetto a quello precedente, sotto un duplice aspetto, e cioè sia unitariamente per quintale-grado (da 54,1990 a 55,8426), sia perché veniva stabilita in misura inferiore la polarizzazione su cui applicare i successivi aumenti (13,20 invece che 13,60).
Impugnato per vari motivi di illegittimità il provvedimento dinanzi al Consiglio di Stato da parte degli zuccherieri, fu però, nel contempo, pubblicata la legge 7 luglio 1959, n. 490, la quale, oltre a dare facoltà ai Ministri dell'agricoltura e dell'industria di determinare i programmi annuali di coltivazione delle barbabietole e le relative modalità di attuazione, nonché le clausole dei contratti di coltivazione delle bietole non determinate dalle Associazioni nazionali maggiormente rappresentative e le qualità di seme da usare nella coltivazione delle barbabietole, stabilisce che il prezzo determinato dal C.I.P. per la cessione delle barbabietole all'industria zuccheriera é prezzo "fermo", e, con la disposizione transitoria di cui all'art. 5, dispone testualmente: "per le barbabietole da zucchero del raccolto 1959 il prezzo di cessione, che risulta determinato dal Comitato interministeriale dei prezzi, alla data di pubblicazione della presente legge, deve intendersi prezzo fermo. Per il raccolto di cui al comma precedente sono confermate le altre condizioni di cessione concordata tra l'Associazione Nazionale Bieticoltori e le ditte e le società saccarifere per la campagna 1957".
- - Secondo la difesa delle industrie saccarifere, la illegittimità costituzionale della norma impugnata sarebbe palese sotto il profilo dell'art. 113 della Costituzione. E ciò perché circoscrivere l'applicabilità dell'articolo stesso ai soli casi, non praticamente ipotizzabili, in cui il legislatore espressamente ponga il divieto di impugnazione giurisdizionale degli atti amministrativi, equivarrebbe a svuotare la garanzia costituzionale di ogni reale contenuto. Perciò essa dovrebbe valere in tutti i casi in cui la legge realizzi un siffatto risultato, come, appunto, accadrebbe nella specie col conferimento ex post del carattere legislativo ad un atto che "era e resta amministrativo".
La difesa si richiama qui alle considerazioni svolte nell'ordinanza di rinvio circa la differenziazione della ipotesi in esame da quella decisa dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 60 del 1957. Ed aggiunge, altresì, che si deve escludere, a mente della sentenza n. 103 dello stesso anno della Corte costituzionale, ogni potere dirigistico da parte del C.I.P., il quale deve limitarsi al compito di adeguare i prezzi alle sopravvenute esigenze attraverso la valutazione dei fattori della produzione, avviando, col sistema del blocco elastico dei prezzi, il mercato verso il libero scambio. Dovrebbe, quindi, ritenersi per certo che qualora, come nella specie, siano ravvisabili in un provvedimento del C.I.P. vizi di illegittimità, come l'essersi ispirato a criteri non tecnici nella determinazione di un prezzo, allo scopo di attuare fini di politica economica tendenti a favorire una categoria di operatori a detrimento di un'altra, la norma di legge che, comunque, abbia per effetto la soppressione della garanzia giurisdizionale contro il provvedimento viziato, viola l'art. 113 della Costituzione.
Questa violazione si rivelerebbe ancora più grave, in quanto la norma transitoria in esame apparirebbe adottata proprio allo specifico scopo di consentire l'elusione del precetto costituzionale, giacché fu introdotta all'ultimo momento, non figurando nel primitivo progetto; e concreterebbe una deviazione dai fini del controllo dei prezzi del C.I.P., riconosciuta anche da organi amministrativi.
- - Passando, poi, a considerare il profilo di incostituzionalità in relazione all'art. 41 della Costituzione, la difesa delle Società industriali afferma che con la norma impugnata, confermativa del provvedimento del C.I.P., si sarebbe sostanzialmente sostituito al prezzo già convenuto tra le parti un prezzo di imperio superiore; e, alle altre pattuizioni contrattuali, le norme di un contratto precedente al quale non avevano, oltre tutto, partecipato gli industriali ed i bieticoltori non aderenti alle rispettive associazioni. In tal modo, - si sostiene - sarebbe venuta a concretarsi una vera e propria soppressione dell'iniziativa economica individuale. Infatti, con l'elevazione del prezzo si sarebbe venuto a mutare un elemento essenziale del contratto, e senza possibile rivalsa da parte degli zuccherieri sul consumatore, dato che il prezzo dello zucchero é coattivamente determinato dal C.I.P. Ed anche la mutazione delle altre pattuizioni concernenti modalità, termini e prezzo di consegna del seme, le norme per la coltivazione, i tempi e i modi delle consegne, la determinazione delle tare e delle analisi, i compensi per i trasporti ecc., costituirebbero, per la vastità e l'importanza della materia investita, limitazioni tali da "interferire gravemente sulla personale iniziativa dell'operatore, sulla libera valutazione e conseguente determinazione di lui", il che concreta, appunto, violazione dell'art. 41, primo comma, della Costituzione, secondo quanto e stato ritenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza 30 dicembre 1958, n. 78.
Né ricorrerebbe, nella specie, l'applicabilità delle limitazioni di cui al terzo comma dell'art. 41, giacché non si tratterebbe, in ogni caso, di programmi o controlli diretti ad indirizzare l'attività economica e ad aumentare la produzione, inconcepibili là dove le norme incidono retroattivamente su rapporti già esauriti o in via di esaurimento.
Inoltre, l'evidente finalità protettiva della categoria dei bieticoltori a danno degli zuccherieri, perseguita con la norma in esame, non potrebbe rientrare nei "programmi" e nei "controlli" che il legislatore é autorizzato a fissare.
La difesa delle Società industriali zuccheriere ha concluso, pertanto, chiedendo dichiararsi incostituzionale l'art. 5 della legge n. 490 del 1959.
- - Si sono costituiti dinanzi alla Corte l'Associazione Nazionale Bieticoltori, in persona del Presidente, Cav. Lav. Orfeo Marchetti, nonché il dott. Giovanni Caccianini, rappresentati e difesi dagli avvocati Paolo Boitani e Aldo Dedin, in quali hanno depositato le loro deduzioni nella cancelleria il 2 agosto 1960.
Nelle deduzioni sì afferma che l'art. 5 impugnato non si limiterebbe a sussumere il prezzo determinato dal C.I.P. col provvedimento del 5 giugno 1959, ma porrebbe una norma nuova, statuendo che il prezzo allora stabilito anziché restare massimo divenga "fermo". Esulerebbe, quindi, dall'intervento legislativo ogni intento di rendere invulnerabile il provvedimento del C.I.P., tanto più che la legge del 1959 non ha né analogia né convergenza con i fini dell'ordinamento del C.I.P. "in quanto amplia l'intervento dello Stato nel discusso settore economico, per la salvaguardia di interessi precedentemente non considerati e ora sovranamente ritenuti meritevoli di protezione dal legislatore".
Onde, nella specie, non sarebbe avvenuto altro che l'emanazione di una norma legislativa formale che avrebbe reso inutile l'impugnazione del provvedimento amministrativo, e dovrebbe, perciò, escludersi qualsiasi violazione dell'art. 113 della Costituzione. Né l'asserita retroattività della legge, anche a volerla ammettere, potrebbe essere di ostacolo a tale conclusione, giacché é noto che non esistono limiti costituzionali alla retroattività della legge, salvo che per la materia penale.
Quanto all'altro aspetto della dedotta illegittimità costituzionale, osserva la difesa dell'Associazione Nazionale Bieticoltori che la norma impugnata ben può concepirsi come conforme alla norma costituzionale, potendo inserirsi in un programma economico la protezione accordata ad una categoria di operatori, tanto più che la determinazione del prezzo fisso della barbabietola fu ritenuta necessaria, appunto, per porre ordine nel settore ed infrenare le manovre speculative di talune imprese zuccheriere. E, d'altra parte, la radicale diversità dell'ipotesi in esame da quella considerata nella sentenza n. 78 del 1958 della Corte costituzionale renderebbe del tutto fuori di luogo il richiamo che a tale pronuncia fa la difesa delle Società.
Concludono, pertanto, gli avvocati Boitani e Dedin chiedendo "dichiararsi la legittimità costituzionale della norma impugnata".
- - Si é, altresì, costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato le proprie deduzioni il 19 maggio 1960.
Sostiene l'Avvocatura che la legge impugnata fu approvata dopo che la deliberazione del C.I.P. 5 giugno 1959 era già perfetta, sicché atto amministrativo e legge "si muovono nell'ambito che é loro proprio, dispiegando la consueta efficacia che é consona alla loro rispettiva forma e finalità". Onde si sarebbe fuori della previsione dell'art. 113 della Costituzione, che certamente non vieta che sia disciplinata con legge materia precedentemente regolata con atto dell'Autorità amministrativa, anche se la legge opera un rinvio ricettizio di una parte o di tutto l'atto stesso. Né d'altra parte potrebbe dubitarsi che la materia dei prezzi possa essere regolata legislativamente, anche se la stessa é attribuita per legge al C.I.P., poiché il legislatore ordinario può sempre modificare precedenti proprie disposizioni.
Inoltre, l'assunta violazione dell'art. 113 della Costituzione, sotto il profilo della intenzionale sottrazione del provvedimento C.I.P. 5 giugno 1959 alla garanzia giurisdizionale, sarebbe da respingere, poiché implicherebbe un inammissibile sindacato sui motivi ispiratori della legge.
L'Avvocatura afferma, poi, che la determinazione di un prezzo d'imperio non può costituire per se stessa violazione dell'autonomia dell'iniziativa privata, e che, anche a voler ammettere che la determinazione del primo comma dell'art. 5 impugnato abbia inciso retroattivamente su rapporti già esauriti o in via di esaurimento - il che però nega in fatto, sostenendo che i prezzi stabiliti dal C.I.P. non erano ancora definitivi - con ciò si resterebbe pur sempre nell'ambito del precetto costituzionale, dato che la retroattività della legge é vietata solo in materia penale.
Infine, secondo l'Avvocatura, sarebbe del tutto fuor di luogo l'accenno alle finalità protettive di una determinata categoria di operatori, che la legge avrebbe perseguita, poiché in tal modo verrebbe ad istituirsi, in un giudizio di legittimità costituzionale, una non consentita indagine a sfondo esclusivamente politico.
Anche l'Avvocatura conclude, quindi, chiedendo dichiararsi "la legittimità costituzionale della norma impugnata".
- - Nel procedimento civile vertente avanti al Tribunale di Modena fra Meletti Luigi e la Società italiana per l'industria degli zuccheri, promosso dal Meletti al fine di sentir dichiarare la convenuta tenuta ad accettare il quantitativo di barbabietole che esso Meletti sarebbe andato a consegnarle entro il limite massimo di quintali 2890 fissato dalla Prefettura in applicazione del D.M. 26 gennaio 1960 (art. 2), contenente il piano di coltivazione delle barbabietole per l'annata agraria 1959-60, la società convenuta ha sollevato questione di legittimità costituzionale avverso la stessa legge in questione, 7 luglio 1959, n. 490, in base alla quale erano stati emanati il decreto ministeriale invocato dall'attore e l'altro, di pari data, contenente le clausole concernenti le condizioni di cessione delle barbabietole del raccolto 1960 all'industria zuccheriera.
La questione é stata sollevata dalla convenuta in quanto la legge impugnata autorizzerebbe i Ministri dell'agricoltura e dell'industria ad imporre agli operatori privati acquisti obbligatori di bietole a prezzi ed a condizioni sottratti alla disponibilità delle parti, violando in tal modo il principio della libertà di iniziativa privata sancito dall'art. 41 della Costituzione, e stabilendo, inoltre, una delega sostanzialmente legislativa al Governo, in violazione dei principi fissati dall'art. 76 della Costituzione.
Secondo l'istanza della convenuta, la legge, con le indicate imposizioni, violerebbe, inoltre, anche il principio dell'eguaglianza tra i cittadini di cui all'art. 3 della Costituzione, nonché la libertà di associazione di cui all'art. 18 della Costituzione, osservando, a quest'ultimo riguardo, che i bieticoltori e gli zuccherieri sarebbero obbligati ad applicare i contratti stabiliti dalle rispettive associazioni, senza che queste abbiano però la loro rappresentanza.
- - Con ordinanza del 24 giugno 1960, il Tribunale ha ritenuto non manifestamente infondata la questione così proposta, "stante soprattutto il profondo incidere della legge 7 luglio 1959 sulla libertà di iniziativa economica privata", ed ha investito la Corte costituzionale della soluzione della questione stessa.
L'ordinanza, notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri ed alle parti private l'8 luglio 1960, é stata comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento a norma di legge e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 216 del 3 settembre 1960.
- - Dinanzi alla Corte costituzionale si é costituita la Società italiana per l'industria degli zuccheri, rappresentata e difesa dall'avvocato Antonio Sorrentino, che ha depositato le proprie deduzioni nella cancelleria della Corte il 4 agosto 1960.
La difesa della società si richiama ai fatti esposti nelle deduzioni relative all'altra causa precedentemente indicata, quanto alle vicende che precedettero la legge impugnata, aggiungendo che, quale nuova prova della scarsa obbiettività e dell'antigiuridicità con cui l'Autorità amministrativa riguarderebbe il problema del prezzo dello zucchero, dovrebbe assumersi la nuova riduzione del prezzo stesso disposta dal C.I.P. il 3 giugno 1960, per ragioni di carattere politico, lasciando, invece, invariato il prezzo delle bietole.
Osserva, poi, che l'art. 1 della legge impugnata é in contrasto evidente con l'ultimo comma dell'art. 41 della Costituzione, perché, mentre tale norma contiene una esplicita riserva di legge per la determinazione dei programmi e dei controlli economici, il detto art. 1 affida, invece, all'Autorità amministrativa ogni potestà al riguardo, nel campo della coltivazione delle bietole e della produzione zuccheriera. E l'ampiezza di queste facoltà, resa evidente dall'esercizio di esse effettuato mediante il decreto 26 gennaio 1960, col quale si é posta in essere una penetrante disciplina del settore, che va dalla determinazione della superficie da coltivare e della quantità del prodotto alla ripartizione ed assegnazione delle barbabietole dai relativi produttori agli zuccherifici, ed alla fissazione dei relativi controlli, confermerebbe l'illegittimità dell'attribuzione delle facoltà stesse senza limiti sostanziali e temporali all'Amministrazione.
- - Secondo la difesa della Società, non meno evidente poi sarebbe la violazione dell'art. 41, primo comma, della Costituzione, perché la legge impugnata creerebbe un sistema per cui: 1) si imporrebbe alle industrie zuccheriere di lavorare tutti e soltanto i quantitativi di bietole stabiliti d'autorità, ritirandoli per giunta solo da quei coltivatori che vengono indicati dall'Autorità amministrativa; 2) si fisserebbero autoritativamente le clausole contrattuali oltre che il prezzo di cessione delle bietole e quello di vendita dello zucchero. Con ciò si verrebbe, quindi, a sopprimere, e non solo a limitare, l'iniziativa individuale garantita, invece, dalla citata norma costituzionale, sostituendovi un regime d'imperio di carattere amministrativo e, in parte, corporativo.
La difesa della società richiama a questo proposito la sentenza n. 78 del 1958 della Corte costituzionale, secondo cui violano le libertà economiche quelle leggi che gravemente interferiscono sulla personale iniziativa dell'operatore e sulla libera valutazione e determinazione di lui. Né potrebbe ritenersi - secondo le deduzioni in esame che nella specie il cennato sistema disposto dalla legge possa inquadrarsi tra i programmi e controlli di cui al terzo comma dell'art. 41 della Costituzione, perché programmi e controlli non possono mai giungere a sopprimere l'autodeterminazione dell'operatore.
Particolarmente, poi, riguardo all'art. 2 della legge, la difesa osserva che, secondo quando avrebbe ritenuto la Corte costituzionale con la sentenza n. 103 del 1957, in tanto può ritenersi non in contrasto con l'art. 41 della Costituzione l'istituzione del C.I.P., in quanto i compiti a questo demandati sono quelli di attuare il sistema del blocco elastico dei prezzi allo scopo di avviare il mercato al libero scambio attraverso la unificazione e perequazione di taluni prezzi per tutelare la stabilità del mercato e il valore reale dei salari, con esclusione, quindi, di ogni funzione di dirigismo economico in vista di determinati fini economico-politici. Contro tali concetti urterebbe, invece, la prescrizione della obbligatorietà del prezzo, che, risolvendosi nell'imposizione di una prestazione patrimoniale, perseguirebbe, invece, un fine dichiaratamente dirigistico nel senso escluso dalla richiamata pronuncia della Corte costituzionale. Fine che sarebbe, poi, espressamente sanzionato dall'art. 1 della stessa legge, e troverebbe riscontro nella stessa relazione parlamentare, quando afferma la necessità di tutelare nei confronti degli industriali l'attività dei bieticoltori, allo scopo di ottenere la maggiore produzione e la migliore distribuzione dello zucchero, e di garantire i bieticoltori stessi dagli illeciti lucri degli acquirenti.
- - A proposito dell'art. 3 della legge impugnata, osserva la difesa che, ove questo si interpreti nel senso che gli accordi ivi previsti tra le due associazioni maggiormente rappresentative, rispettivamente dei bieticoltori e degli industriali zuccherieri, debbano intendersi vincolanti anche per coloro che delle associazioni non fanno parte, si verificherebbe con ciò una nuova violazione della libertà di iniziativa economica dei privati cui si imporrebbero clausole contrattate da altre parti.
La difesa sostiene, altresì, la violazione dell'art. 76 della Costituzione, poiché la penetrante disciplina dettata dalla legge impugnata porrebbe in evidenza la natura sostanzialmente legislativa dell'attività, affidata, invece, all'Autorità amministrativa, senza le garanzie costituzionali all'uopo previste, giacché si tratterebbe di un attribuzione fatta a Ministri singoli e non al Governo, senza limiti di tempo o direttive di sorta. A conferma del carattere sostanzialmente legislativo di tali poteri, la difesa, poi, afferma che non solo l'art. 5, ma anche l'art. 1 della legge ha carattere retroattivo, mentre i relativi decreti emanati dall'Autorità amministrativa hanno inciso su situazioni contrattuali già concluse; che il potere di dettare clausole contrattuali previsto dall'art. 3 é, in concreto, di grande complessità, sì da tradursi in una molteplicità di norme, tale da regolare tutta la disciplina dei rapporti privati in materia; che, infine, il prezzo fissato dall'art. 2 é fisso ed obbligatorio.
L'efficacia estensiva degli accordi sarebbe, poi, illegittimamente attribuita dall'art. 3 al provvedimento amministrativo di approvazione degli accordi medesimi, poiché, dato il contenuto di grave limitazione alla libertà di iniziativa economica riconoscibile nella estensione autorizzativa delle clausole, ciò potrebbe farsi - salvo il rispetto delle altre norme costituzionali - solo mediante legge, e ci si troverebbe, quindi, in presenza di un'ulteriore violazione dell'art. 76 della Costituzione.
L'art. 3 citato, inoltre, violerebbe anche, interpretato nel senso estensivo suddetto, l'art. 18 della Costituzione, che sancisce il principio della libertà di associazione. E non potrebbe obbiettarsi al riguardo l'avvenuta adozione nel nostro ordinamento dell'estensione dell'efficacia degli accordi fra le associazioni sindacali anche ai non iscritti, perché ciò sarebbe avvenuto solo nel campo dei contratti collettivi di lavoro ed in quanto lo consente l'ultimo comma dell'art. 39 della Costituzione.
Che se poi dovesse adottarsi l'interpretazione secondo cui l'efficacia degli accordi stipulati dalle associazioni é limitata ai soli iscritti, ne deriverebbe l'applicabilità delle clausole contrattuali ministeriali solo agli associati le cui associazioni non fossero riuscite a mettersi d'accordo, e in tal modo si verificherebbe una ulteriore violazione della Costituzione, e precisamente del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Carta costituzionale. Il sottostare, infatti, alle clausole autoritative sarebbe fatto dipendere dalla legge solo dalla circostanza occasionale della appartenenza o meno dell'operatore ad una organizzazione a base democratica.
Quanto all'art. 4, ne sarebbe evidente la incostituzionalità, giungendo questo a sottrarre alla disponibilità delle parti persino la scelta del seme da usare.
La difesa, infine, relativamente all'art. 5, si richiama alle deduzioni presentate nella causa rimessa alla Corte costituzionale a seguito dell'ordinanza del Consiglio di Stato 2 marzo 1960, e conclude chiedendo dichiararsi l'illegittimità costituzionale della legge 7 luglio 1959, n. 490, in relazione agli artt. 41, 76, 3 e 18 della Costituzione.
- - Si é anche costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso come per legge dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato le proprie deduzioni nella cancelleria della Corte il 28 luglio 1960.
Osserva l'Avvocatura, preliminarmente, che la questione di legittimità proposta nel giudizio principale dall'industria saccarifera investirebbe solo gli artt. 2 e 3 della legge impugnata, dato che gli artt. 1 e 4 riguarderebbero solo i bieticoltori, e l'art. 5 concernerebbe solo norme transitorie relative all'annata agraria 1959. Onde anche l'ordinanza del Tribunale di Modena dovrebbe intendersi così limitata.
Afferma poi che, a tenore dell'ordinanza stessa, dovrebbe ritenersi deferita all'esame della Corte la questione di legittimità solo sotto il profilo dell'art. 41, giacché con l'ordinanza sarebbe stato dichiarato non manifestamente infondato unicamente tale aspetto della questione.
Ciò premesso, l'Avvocatura, riferendosi alle sentenze nn. 29 del 1957 e 32 del 1959 della Corte costituzionale, rileva che l'art. 41 della Costituzione, considerato nella sua interezza, non si limita a sancire la libertà di iniziativa economica, ma espressamente prevede l'intervento del legislatore sia al fine di evitare che la iniziativa stessa si svolga in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, sia al fine di indirizzarla e coordinarla a fini sociali. E aggiunge che la legge n. 490 del 1959 pone, appunto, programmi e controlli a scopi di interesse generale espressi nell'art. 1 della legge stessa in armonia col precetto costituzionale richiamato.
Osserva, poi, che non sussisterebbe la lamentata violazione dell'art. 76 della Costituzione, in quanto la legge in esame avrebbe disposto l'attribuzione di potestà esclusivamente amministrativa a determinati organi della pubblica Amministrazione, che li eserciterebbero mediante atti formalmente e sostanzialmente amministrativi.
In proposito l'Avvocatura richiama i criteri stabiliti con la sentenza n. 103 del 1957 della Corte costituzionale in relazione alla natura amministrativa dei provvedimenti del C.I.P., natura che, in base a tale sentenza, deriverebbe dalla forma degli atti e dalla molteplicità e continuità dei compiti al C.I.P. affidati, ed afferma che questi criteri varrebbero anche rispetto alla legge in esame, che, appunto, attribuirebbe poteri ad organi amministrativi, quali i Ministri competenti, per l'esercizio di attività a carattere continuo e permanente, fondata sull'apprezzamento dell'interesse pubblico. Ed a conforto di tale assunto cita pure la sentenza n. 52 del 1958 della Corte costituzionale, la quale, appunto, avrebbe escluso l'ipotesi della delega legislativa in relazione ai provvedimenti ministeriali concernenti divieti e limitazioni in materia di esportazioni ed importazioni, riconoscendo trattarsi di attribuzione al Governo di una competenza rientrante nel campo dell'attività sostanziale amministrativa.
Rileva, infine, l'Avvocatura che l'ordinanza del Tribunale non tratta la questione di legittimità proposta dalla Società convenuta sotto il profilo degli artt. 3 e 18 della Costituzione, e che, non potendosi agevolmente trovare un collegamento fra tali disposizioni e la legge impugnata, ci si dovrebbe limitare ad affermare che la questione, sotto tale profilo, é manifestamente infondata.
L'Avvocatura conclude, quindi, chiedendo dichiararsi non fondata la questione di legittimità costituzionale della legge 7 luglio 1959, n. 490, in relazione agli artt. 41, 76, 3 e 18 della Costituzione.
- - La difesa della "Società Fondiaria Agricola Industriale" e delle altre Società ha depositato in termini una memoria illustrativa con cui ha sviluppato ampiamente le argomentazioni già prospettate nelle precedenti deduzioni.
In particolare, quanto alla violazione dell'art. 41, terzo comma, della Costituzione, aggiunge che tale norma pone una riserva di legge assoluta per quanto riguarda i programmi ed i controlli in materia economica, onde la materia dovrebbe essere regolata compiutamente dalla legge. Ma anche se si trattasse di una riserva relativa, mancherebbero nella legge impugnata i principi direttivi che pure debbono essere enunciati dal legislatore in tal caso, ai fini di limitare la discrezionalità del potere esecutivo cui viene demandato il compito di regolare nei particolari l'attuazione della legge. Infatti, le finalità indicate nell'art. 1,in modo vago e generico, non sarebbero idonee a porre una limitazione del genere. Ed, inoltre, dalla mancanza di sufficienti direttive discenderebbe, altresì, per altra via, l'esclusione del ricorso giurisdizionale, mancando il paradigma della legge cui l'atto amministrativo dovrebbe informarsi.
Quanto alla violazione del primo comma dell'art. 41, pone particolarmente in luce che con la legge in esame viene ad essere soppressa la libertà economica sia degli industriali zuccherieri come dei bieticoltori, e che vano sarebbe voler giustificare la soppressione col ricorso al secondo comma dell'art. 41, che pone soltanto un limite negativo all'eventuale svolgimento della iniziativa economica privata in contrasto con l'utilità sociale, ma non autorizza ad imporre le scelte dei contraenti e la programmazione economica in genere, come fa, invece, la legge impugnata.
Quanto alla violazione dell'art. 76 della Costituzione, controbatte le eccezioni pregiudiziali sollevate dall'Avvocatura dello Stato, sostenendo che l'ordinanza del Tribunale di Modena non circoscrive la questione di legittimità alla violazione dell'art. 41 della Costituzione, ma si limita a sottolineare, in modo non esclusivo, tale aspetto di incostituzionalità, richiamandosi, per gli altri aspetti, alle deduzioni contenute nell'istanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale formulata nel giudizio principale.
Nel merito, precisa che la violazione dell'art. 76 dovrebbe intendersi nel senso che non si può attribuire all'Autorità amministrativa, come competenza sua propria, il potere di provvedere in materia riservata alla legge.
Riguardo, poi, al profilo di incostituzionalità dedotto in relazione all'art. 113 della Costituzione, la difesa delle Società conferma il dubbio che l'art. 5 della legge impugnata possa interpretarsi nel senso di cui all'ordinanza del Consiglio di Stato. Infatti, la norma transitoria in esame avrebbe inteso soltanto attribuire al provvedimento di fissazione del prezzo di cessione delle barbabietole per l'annata 1959, emanato dal C.I.P., conseguenze giuridiche diverse da quelle che gli erano proprie nel sistema del diritto allora vigente. Tale intento sarebbe confermato dall'ulteriore intervento effettuato dal legislatore in materia quando, essendo stato fissato il prezzo di cessione delle barbabietole per il 1960 solo con provvedimento del C.I.P. in data 12 luglio 1960, e, quindi, ben oltre il termine del 31 gennaio previsto al riguardo dall'art. 2 della legge impugnata, ritenne necessario di provvedere con la legge 11 agosto 1960, n. 820, stabilendo, appunto, che il prezzo come sopra fissato dal C.I.P. doveva intendersi, anche per l'annata 1960, prezzo fermo.
Per il caso però che dovesse ritenersi esatta l'interpretazione del Consiglio di Stato, alle già svolte considerazioni a sostegno della violazione dell'art. 113 della Costituzione, la difesa aggiunge che, ad escludere la equiparabilità della trasformazione ex post di un atto amministrativo in una norma legislativa a quella della delega legislativa, di cui alla sentenza n. 60 del 1957, sta la considerazione che, mentre in quest'ultimo caso sussiste pur sempre la possibilità di un controllo di legittimità costituzionale sull'uso fatto dall'esecutivo del potere conferitogli, nella prima ipotesi anche questo controllo resterebbe evidentemente inibito.
Respinge, poi, la validità dell'argomentazione avversaria, secondo cui l'art. 5 della legge impugnata, oltre a confermare il provvedimento di determinazione del prezzo emanato dal C.I.P., porrebbe anche una norma nuova, qualificando il prezzo stesso come fermo; ed afferma in proposito che, anche ammesso questo duplice contenuto della norma, la parte confermativa sarebbe contraria all'art. 113 per le già svolte considerazioni in ordine alla soppressione della garanzia giurisdizionale, e la parte innovativa contrasterebbe con l'art. 41 della Costituzione, per la sostituzione retroattiva del prezzo stabilito fra le parti e delle altre clausole contrattuali.
- - Anche la difesa dell'Associazione Nazionale Bieticoltori e del dott. Giovanni Caccianini ha depositato in termini una memoria illustrativa delle deduzioni svolte in precedenza.
Con la detta memoria, in aggiunta a quanto già ha sostenuto, la difesa illustra ampiamente i precedenti della legge impugnata, ponendo particolarmente in evidenza i contrasti verificatisi fra bieticoltori e zuccherieri circa i criteri di determinazione del prezzo di cessione delle barbabietole, a causa sostanzialmente della richiesta dei primi di adeguare il prezzo stesso alla resa effettiva del prodotto. Questo contrasto, afferma la difesa, determinò un vero e proprio caos nel settore, e rese, pertanto, indispensabile l'intervento del legislatore al fine di imporre una regolamentazione dell'importantissimo campo della bieticoltura, in conformità a quanto é già stato fatto in altri Paesi europei.
A questa esigenza risponderebbe pienamente la istituzione di un programma di coltura nazionale delle barbabietole da attuarsi a cura della pubblica Amministrazione, nonché la istituzione del prezzo fermo, come garanzia contro gli illeciti profitti dell'industria.
Con ciò, secondo la difesa dell'Associazione, non si perseguirebbero scopi economico-politici, ma si realizzerebbero, invece, le condizioni per la conservazione e lo sviluppo della produzione bieticola, secondo le esigenze puramente economiche della Nazione.
Contesta, poi, che nella specie vi sia violazione della riserva di legge di cui all'art. 41, terzo comma, della Costituzione, in quanto l'art. 1 della legge impugnata porrebbe sufficienti limitazioni alla discrezionalità della pubblica Amministrazione, specie ove si consideri l'inconcepibilità di una regolamentazione diretta da parte del legislatore riguardo ad una materia che presenta aspetti di notevole complessità e di specifico tecnicismo.
Neppure sussisterebbe la violazione dell'art. 76 della Costituzione, trattandosi di mera attribuzione al Governo di una competenza rientrante nel campo amministrativo, al solo fine di adeguare l'esecuzione concreta della legge alle esigenze pratiche.
La difesa dell'Associazione confuta, infine, l'affermazione secondo cui la determinazione autoritativa delle clausole contrattuali inciderebbe gravemente sulla libertà dell'iniziativa economica privata, e precisa al riguardo che il prezzo di trasformazione delle bietole ed il profitto industriale sarebbero determinati dal C.I.P. indipendentemente dal prezzo di cessione delle bietole all'industria, prezzo che, a sua volta, verrebbe, invece, fissato solo in funzione delle clausole contrattuali di cessione. Onde nessuna incidenza sull'utile potrebbero avere le dette clausole, e la limitazione della libertà di iniziativa economica conseguente alla determinazione delle stesse sarebbe, quindi, assai relativa.
- - L'Avvocatura dello Stato ha depositato anch'essa due memorie illustrative riferite, rispettivamente, la prima alla causa proveniente dal Consiglio di Stato e, la seconda, a quella proveniente dal Tribunale di Modena.
Nella memoria relativa alla prima causa, l'Avvocatura ribadisce le argomentazioni già proposte ed afferma, in particolare, che la disciplina contenuta nella legge impugnata é conforme al secondo e terzo comma dell'art. 41 della Costituzione, perché appunto l'art. 1 della legge pone proprio quelle finalità di ordine sociale assunte dal legislatore costituente come limitazioni della libertà di iniziativa privata.
Nel ribadire, poi, l'infondatezza dell'interpretazione dell'art. 5 della legge impugnata contenuta nell'ordinanza del Consiglio di Stato, riafferma che l'atto amministrativo e la norma legislativa conserverebbero, ciascuno, la propria diversa individualità giuridica. Dovrebbe, quindi, escludersi qualunque soppressione della garanzia giurisdizionale in ordine alla quale, semmai, potrebbe parlarsi di un sopravvenuto difetto di interesse, per cui sì verserebbe in una ipotesi del tutto diversa da quella della violazione dell'art. 113 della Costituzione.
Queste premesse, secondo l'Avvocatura, rivelerebbero l'insufficiente valutazione del presupposto della rilevanza da parte del giudice a quo, al quale, pertanto, dovrebbero essere rinviati gli atti, previa declaratoria di insussistenza dei presupposti per la instaurazione del giudizio costituzionale. In via subordinata, l'Avvocatura ribadisce le conclusioni già proposte.
- - Nella memoria relativa alla seconda causa l'Avvocatura, in aggiunta alle già svolte tesi, afferma, riguardo all'art. 2, che il richiamo in esso contenuto alle modalità di determinazione del prezzo, stabilite in via generale dal D.L.C.P.S. n. 896 del 1947, regolante l'attività del C.I.P., escluderebbe ogni censura di incostituzionalità, e che tali modalità sono conformi all'art. 41 della Costituzione.
Osserva, poi, quanto all'art. 3 della legge impugnata, che la determinazione autoritativa delle clausole contrattuali tende in sostanza al raggiungimento dei fini sociali tutelati dall'art. 41, e che perciò il detto articolo non può considerarsi violato.
Afferma, inoltre, che l'art. 1 della legge impugnata avrebbe posto sufficienti limitazioni alla discrezionalità dell'Autorità amministrativa, sia determinando i fini della programmazione economica, sia prevedendo l'intervento delle categorie interessate nelle varie attività all'Autorità stessa demandate, per cui insussistente si rivelerebbe la dedotta violazione della riserva di legge di cui all'art. 41, terzo comma, della Costituzione.
Contesta, altresì, l'affermazione delle Società zuccheriere, secondo cui la legge imporrebbe di lavorare tutti e solo i quantitativi di bietole fissati dall'Autorità, e di ritirarli dai produttori dall'Autorità stessa indicati; ed afferma che, semmai, tale obbligo deriverebbe non dalla legge, ma dai provvedimenti amministrativi adottati in esecuzione della legge. Pertanto, in questa sede, sarebbe irrilevante la suddetta doglianza, avendo la Corte costituzionale, con la sentenza n. 8 del 1956, stabilito la inammissibilità del sindacato di legittimità costituzionale di una norma legislativa in relazione al contenuto degli atti amministrativi emanati nei casi concreti in cui della norma é stata fatta applicazione.
Richiamandosi a quanto si é detto, circa l'inammissibilità del giudizio di legittimità costituzionale di una norma di legge in relazione agli atti amministrativi che ne hanno fatto concreta applicazione, afferma che la censura di incostituzionalità mossa alla legge impugnata sotto il profilo della violazione degli artt. 3 e 18 della Costituzione sarebbe viziata da un errore di impostazione. Invero, il vincolo che investirebbe ex art. 3 della legge tutti gli interessati, indipendentemente dalla loro appartenenza alle associazioni, deriverebbe direttamente dal decreto ministeriale nel quale, in caso di approvazione, si trasferisce il contenuto degli accordi. Onde, per quanto detto, verrebbe meno ogni possibile applicazione degli artt. 3 e 18 della Costituzione.
L'Avvocatura afferma, infine, che l'efficacia della disposizione di cui all'art. 5 della legge é limitata all'annata 1959, e deve perciò tale disposizione ritenersi esclusa dal secondo giudizio, originato da una controversia relativa all'annata agraria 1960.
Considerato in diritto
- - Le due cause promosse con le ordinanze rispettivamente, l'una, del Consiglio di Stato, l'altra, del Tribunale di Modena sono evidentemente connesse: vanno, quindi, riunite e decise con unica sentenza.
- - L'Avvocatura dello Stato, nella memoria presentata nel giudizio riguardante l'ordinanza del Consiglio di Stato ha concluso chiedendo, in via preliminare, il rinvio degli atti al Consiglio, "previa declaratoria di insussistenza dei presupposti per la instaurazione del giudizio costituzionale". Trattasi ovviamente di richiesta ricollegabile alla rilevanza della questione di costituzionalità proposta; ma questa Corte ritiene di non dovere accedere a tale richiesta senza aver prima accertato se debba scendere all'esame della questione particolare sollevata con l'ordinanza del Consiglio di Stato, o se non rimanga, invece, assorbita la detta questione in quella più generale e comprensiva proposta con l'ordinanza del Tribunale di Modena.
Con questa ordinanza, si fa, infatti, questione della legittimità dell'intera legge 7 luglio 1959, n. 490, mentre con l'ordinanza del Consiglio di Stato la questione sollevata riguarda il solo art. 5 della legge.
- - Che con l'ordinanza del Tribunale di Modena si sollevi la questione di legittimità costituzionale in relazione alla intera legge é però contestato dall'Avvocatura dello Stato, la quale sostiene che l'oggetto del giudizio proposto con quella ordinanza sarebbe limitato soltanto agli artt. 2 e 3. Questa affermazione non é però esatta.
Dal punto di vista formale é da rilevare, infatti, che l'ordinanza, per quanto sintetica, si riannoda alle eccezioni sollevate nel giudizio di merito, quando riferisce che la Società convenuta aveva eccepito che la legge 7 luglio 1959, n. 490, era gravemente inficiata da illegittimità costituzionale in quanto, autorizzando i Ministri per l'agricoltura e per l'industria ad imporre agli operatori privati acquisti obbligatori di bietole a prezzi d'imperio e secondo condizioni rimesse in toto alle determinazioni di essi Ministri, veniva a porsi in contrasto sia con l'art. 41 della Costituzione, relativo alla libertà dell'iniziativa economica privata, sia con l'art. 76, che stabilisce i limiti entro i quali l'esercizio della funzione legislativa può essere delegato al Governo, sia con l'art. 3, riguardante la parità dei cittadini, sia, infine, con l'art. 18, sulla libertà di associazione. In relazione a questi riferimenti, che riflettono diversi aspetti di incostituzionalità, il Tribunale manifesta tuttavia - senza negare la possibilità di considerazione di siffatti aspetti - la propria particolare propensione a fondare la questione di legittimità costituzionale sul disposto dell'art. 41, quando, subito dopo quei riferimenti, afferma: "poiché la questione di legittimità costituzionale così sollevata non si palesa come manifestamente infondata, "stante soprattutto il profondo incidere della cennata legge 7 luglio 1959, n. 490, sulla libertà dell'iniziativa economica privata ecc. ,,". In tal modo, il Tribunale dimostra di avere una concezione unitaria, da una parte, delle disposizioni dell'intera legge, dall'altra delle norme contenute nei tre commi dell'art. 41 della Costituzione.
- - Ma che il Tribunale di Modena si sia voluto riferire all'intera legge risulta dal carattere unitario delle disposizioni della legge stessa e dalla loro interdipendenza.
Deve rilevarsi, al riguardo, che la legge impugnata consta, nella sua sostanza, di disposizioni con le quali, innanzi tutto, si conferisce ai Ministri dell'agricoltura e dell'industria il potere di determinare, con decreto emanato di concerto, all'inizio di ogni campagna agraria, sia il programma annuale di coltivazione delle barbabietole, sia le modalità di attuazione di tale programma, al fine di coordinare l'esercizio della bieticoltura e dell'industria dello zucchero con le esigenze di sviluppo economico e sociale delle zone agricole interessate e con le esigenze del consumo dello zucchero (art. 1, primo comma). E col secondo comma del detto articolo si demanda il controllo degli investimenti a bietole ad una apposita Commissione.
A questa parte, di carattere normativo generale, seguono disposizioni più specifiche, attinenti a particolari settori della disciplina economica delineata con l'art. 1. Stabilisce, infatti, l'art. 2 che il prezzo di cessione delle barbabietole deve essere determinato, per ogni annata agraria, dal C.I.P., e che il prezzo stesso deve intendersi, a tutti gli effetti, prezzo "fermo", da "inserire di diritto" nei singoli contratti, con l'espressa conseguenza dell'attribuzione all'interessato del diritto di ripetere la differenza "anche dopo il pagamento". E, quanto alle altre clausole contrattuali, dispone l'art. 3 che gli accordi stipulati fra le associazioni maggiormente rappresentative dei bieticoltori e degli industriali saccariferi sono sottoposti all'approvazione dei predetti Ministri, ai quali é, altresì, demandato il compito di stabilire direttamente le clausole contrattuali in mancanza di accordi fra le indicate associazioni.
Un aspetto strettamente tecnico della attuazione della coltura é, poi, in modo espresso contemplato dalla legge che, all'art. 4, affida sempre ai due Ministri il compito di determinare le qualità di seme che possono essere utilizzate.
Infine, nell'evidente preoccupazione di riallacciare la nuova disciplina anche al periodo immediatamente precedente, onde meglio assicurarne subito la piena operatività, con l'art. 5 la legge stabilisce che debba considerarsi "fermo" anche il prezzo di cessione già determinato dal C.I.P. come massimo per il raccolto del 1959, e che, per tale raccolto, si applicano le altre condizioni di cessione già concordate tra l'Associazione Nazionale Bieticoltori e le ditte e Società saccarifere per la campagna 1957.
Dall'esame del contenuto della legge ora esposto emerge, in modo evidente, l'organicità della disciplina posta in essere dal legislatore, che, oltre a vincolare espressamente sia i bieticoltori che gli industriali saccariferi con le disposizioni di cui agli artt. 3 e 5 relativi ai prezzi di cessione delle barbabietole, li vincola, altresì, congiuntamente, con le disposizioni di cui all'art. 1, che stabilisce il principio della programmazione economica nel settore della bieticoltura, ed investe, quindi, indubbiamente anche l'industria saccarifera, che da quel settore trae la materia prima. E pure l'art. 4, prevedendo l'intervento della pubblica Amministrazione per la scelta della qualità delle sementi, interessa indubbiamente l'industria oltre che i bieticoltori, essendo quella legata, come si é detto, alla materia prima che dalle sementi sarà raccolta.
Non può, pertanto, negarsi il carattere unitario delle disposizioni contenute nella legge, la quale, quindi, e nelle singole disposizioni, e nel suo complesso, tocca appunto, per entrambe le parti, come del resto affermava il Tribunale, la "libertà dell'iniziativa economica privata".
L'obbiezione dell'Avvocatura dello Stato circa la limitazione, da parte del Tribunale di Modena, della questione di costituzionalità ai soli artt. 2 e 3 é, quindi, da respingere e la Corte deve portare il proprio esame su tutta la legge.
- - Le premesse ora enunciate direttamente conducono a considerazioni risolutive nel merito della questione di legittimità costituzionale sollevata.
Invero, il quadro della disciplina del settore bieticolo - saccarifero testé esposto suggerisce la fondamentale considerazione - cui già innanzi si é fatto un semplice accenno e che qui conviene approfondire - che, in tal modo, il legislatore ha voluto porre in essere un organico "programma", inteso a stabilire le condizioni in base alle quali gli operatori, pur perseguendo il loro interesse, si muovano tuttavia in una direzione che tale interesse contemperi con l'utilità ed il bene sociale così come sovranamente apprezzati dallo stesso legislatore. E ciò é dimostrato dalla stessa posizione oggettiva delle norme, sia quando tale concetto mettono a base di tutta la disciplina, riferendosi ai fini di coordinamento delle varie esigenze cui il programma deve ispirarsi, sia quando, in attuazione di tale criterio generale, intervengono direttamente nella materia dei prezzi, qualificandoli come fermi, in deroga al principio per cui i prezzi sono determinati dal C.I.P. soltanto come massimi. Ed anche quando la legge prevede l'intervento dei pubblici poteri per il controllo e, in determinate ipotesi, per la formazione delle clausole contrattuali, che, col loro vario e molteplice atteggiarsi, rappresentano il modo di svolgimento della vita economica del settore, e postulano, quindi, a loro volta, una regolamentazione, ove i fini di tale vita economica si intendano garantire ed indirizzare, si palesa con evidenza il contenuto sistematico della legge sul piano della programmazione economica nel settore.
Queste considerazioni trovano ampio conforto nella relazione che accompagnava la proposta di legge di cui si discute, dove, appunto, si individuano i motivi ispiratori della legge nella necessità di intervenire nel contrasto verificatosi tra agricoltori ed industriali, al fine "di ristabilire nel settore bieticolo - saccarifero quella disciplina che fu ed é il presupposto della sua efficienza e della sua stabilità", conciliando le opposte tendenze, in vista dell'importanza sociale del settore, "che rappresenta una cospicua e sempre crescente fonte di lavoro e di benessere a disposizione del nostro Paese", le cui condizioni di esistenza e di sviluppo "é preciso e tassativo dovere garantire".
Ciò conduce alla conclusione che le varie disposizioni contenute nella legge impugnata sono intimamente collegate da un nesso sostanziale, che si identifica nel perseguimento della utilità e del bene sociale, e che vincola le norme specifiche dettate a proposito dei prezzi, delle clausole contrattuali, della qualità delle sementi ecc., sotto il comune denominatore dello scopo di programmazione economica esplicitamente enunciato nell'art. 1.
- - Se così é, se il legislatore ha voluto dettare, per raggiungere il fine innanzi indicato, quel complesso di disposizioni organiche che costituiscono la legge 7 luglio 1959, se in tal modo ha voluto "determinare" un "programma" - secondo le testuali espressioni tolte dal terzo comma dell'art. 41 della Costituzione - doveva pur sempre seguire la forma tassativamente prescritta per tal caso dalla Costituzione stessa nel detto comma dell'art. 41.
Non é qui il caso di stabilire se la norma costituzionale si riferisca ad una semplice programmazione per la produzione in un settore economico, ovvero ad una pianificazione più o meno estesa: anzi, anche a volersi riferire a qualche cosa di minore importanza che non sia una vera e propria pianificazione, giova notare che anche per un semplice "programma" la Costituzione prescrive che sia la legge a determinarlo: "la legge determina ...".
L'elemento letterale ora richiamato, di per sé sufficiente a far desumere la volontà del Costituente di condizionare alla riserva di legge la prefissione dei programmi e dei controlli relativi alla attività economica privata, risulta poi rafforzato dalla considerazione dell'incidenza delle misure previste sulla libertà dell'iniziativa privata, cioè al momento fondamentale della attività economica. Libertà che, se pure deve sempre in qualche misura essere consentita, può venire più o meno notevolmente compressa e ridotta, a seconda dei casi, in relazione ai fini sociali ai quali la medesima deve essere indirizzata. Ma ciò sempre a seguito di chiare e precise statuizioni della legge, libera espressione della volontà dell'organo rappresentativo della Nazione, e non già devoluto alla mutevole facoltà del potere esecutivo.
Ora la legge in esame attribuisce genericamente e in toto la potestà di fissare programmi e controlli concernenti il settore della bieticoltura, quei programmi e controlli che, invece, la legge doveva essa determinare, ai Ministri dell'agricoltura e dell'industria, senz'altra limitazione se non il generico riferimento al "fine di coordinare l'esercizio della bieticoltura e dell'industria zuccheriera con le esigenze di sviluppo economico e sociale delle zone agricole interessate e con le esigenze del consumo dello zucchero": il che, anche se la potestà, per mera ipotesi, fosse del potere esecutivo e non già della legge, come l'art. 41 della Costituzione espressamente impone, non varrebbe certo a sufficientemente circoscrivere la discrezionalità degli organi destinatari della potestà medesima. Tale erronea impostazione si riflette nelle varie disposizioni della legge impugnata, data la sua organicità e l'interdipendenza delle sue disposizioni. Siffatta impostazione non tiene poi conto, con l'imposizione del prezzo fermo, delle condizioni e clausole contrattuali, dell'estensione degli effetti del programma anche a rapporti esauriti, che, nell'attuale sistema di rapporti economici, é esigenza imprescindibile che ogni programmazione deve essere stabilita, con le relative norme legislative, prima della sua concreta attuazione, affinché non soltanto le autorità pubbliche, ma, altresì, i singoli operatori sappiano quali sono le finalità politiche, sociali ed economiche che attraverso la programmazione si vogliono raggiungere, si rilevino i mezzi stabiliti per il raggiungimento dei fini, si distinguano le sfere di attività dei poteri pubblici e quelle dei privati operatori, e questi siano così messi in grado di determinare i limiti e la estensione della loro libertà nei rispetti delle iniziative economiche che possano prendere.
- - Non basta, dunque, che la legge determini genericamente i fini che con i detti programmi si vogliono raggiungere. Occorre la specificazione dei fini, la precisazione dei criteri da seguire per il raggiungimento di questi fini, l'indicazione dei mezzi, la determinazione degli organi che sono chiamati ad attuare i programmi o che sono stabiliti per esercitare i controlli. Non basta attribuire un potere in vista del raggiungimento dei fini, ma bisogna anche stabilire i limiti e l'estensione del potere e prevedere gli effetti che con gli atti, derivanti da tal potere, si producono. In concreto, talvolta, la legge stessa, attraverso le sue disposizioni, determinerà, col programma, le finalità, fisserà i criteri di attuazione, gli organi, i poteri e le limitazioni dei poteri degli organi, l'estensione della libertà che pur bisogna lasciare agli operatori ed ogni altra particolarità atta a meglio disciplinare il programma; altra volta sarà più opportuno che la legge approvi semplicemente un programma o piano, separatamente formato nei suoi particolari, ma discusso con la legge stessa e allegato alla medesima, e, quindi, di essa facente parte integrante, salvo a modificare, con legge, questa legge di approvazione o il piano allegato soltanto quando circostanze di tempo o mutazioni economiche lo richiederanno. L'organo legislativo é in ciò sovrano e, a seconda dei casi, presceglierà forma e sostanza, salvi però sempre i dettami della Carta costituzionale.
- - La legge 7 luglio 1959, n. 490, va pertanto dichiarata costituzionalmente illegittima, epperò rimane assorbita l'importante questione sollevata con l'ordinanza del Consiglio di Stato.
Dichiarandosi la illegittimità costituzionale della detta legge, devesi, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, contenente disposizioni sul funzionamento della Corte costituzionale, dichiarare la conseguente illegittimità della legge 11 agosto 1960, n. 820, recante modifica all'art. 2 della predetta legge n. 490 del 1959. La citata legge, infatti, in nulla immuta al sistema della legge precedente, ma ha identico contenuto normativo: le modifiche che essa reca si limitano solo a fissare al 28 febbraio di ogni anno, invece che al 31 gennaio, la data entro la quale doveva essere stabilito il prezzo delle bietole e ad applicare anche al raccolto 1960 il prezzo fermo di cessione all'industria zuccheriera.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riunisce le due cause indicate in epigrafe;
dichiara la illegittimità costituzionale della legge 7 luglio 1959, n. 490, in riferimento all'art. 41, ultimo comma, della Costituzione;
dichiara, in conseguenza, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la illegittimità costituzionale della legge il agosto 1960, n. 820, recante modifica dell'art. 2, primo comma, della predetta legge 7 luglio 1959, n. 490.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 1961.
Giuseppe CAPPI - Gaspare AMBROSINI - Mario COSATTI - Francesco Pantaleo GABRIELI - Giuseppe CASTELLI AVOLIO - Antonino PAPALDO - Nicola JAEGER - Giovanni CASSANDRO - Biagio PETROCELLI - Antonio MANCA - Aldo SANDULLI - Giuseppe BRANCA - Michele FRAGALI - Costantino MORTATI - Giuseppe CHIARELLI
Depositata in cancelleria il 24 giugno 1961