Sentenza n. 66 del 2025

SENTENZA N. 66

ANNO 2025

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Giovanni AMOROSO;

Giudici: Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, Massimo LUCIANI, Maria Alessandra SANDULLI, Roberto Nicola CASSINELLI, Francesco Saverio MARINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano, nel procedimento penale a carico di M. C., con ordinanza del 21 giugno 2024, iscritta al n. 164 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2024.

Visti l’atto di costituzione di M. C., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e di D. M. e altri;

uditi nell’udienza pubblica del 26 marzo 2025 i Giudici relatori Francesco Viganò e Luca Antonini;

udite le avvocate Filomena Gallo e Maria Elisa D’Amico e l’avvocato Tullio Padovani per M. C., gli avvocati Carmelo Domenico Leotta e Mario Esposito per D. M. e per le altre parti intervenute, nonché l’avvocata dello Stato Gianna Maria De Socio e l’avvocato dello Stato Ruggero Di Martino per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 27 marzo 2025.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 21 giugno 2024, iscritta al n. 164 del registro ordinanze 2024, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32 (recte: 32, secondo comma,) e 117 (recte: 117, primo comma,) della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, «nella parte in cui prevede la punibilità della condotta di chi agevola l’altrui suicidio nella forma di aiuto al suicidio medicalmente assistito di persona non tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale affetta da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili che abbia manifestato la propria decisione, formatasi in modo libero e consapevole, di porre fine alla propria vita».

1.1.– Il giudice a quo deve decidere sulla richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano nei confronti di M. C., indagato, in due procedimenti penali successivamente riuniti, per il delitto di cui all’art. 580 cod. pen., commesso in data 2 agosto 2022 nei confronti di E. A. e in data 25 novembre 2022 nei confronti di R. N.

Il rimettente, premesso che, per entrambe le vicende, le indagini preliminari sono state avviate a seguito di autodenuncia dello stesso indagato, riferisce che a E. A. nel giugno del 2021 era stato diagnosticato un microcitoma polmonare, inizialmente trattato con chemioterapia; dopo pochi mesi si presentarono, però, anche carcinomi all’encefalo, ai reni, nonché al cuoio capelluto, costringendo l’interessata a un innesto cutaneo che non attecchiva, lasciando un’ampia esposizione ossea sul cranio. La malattia, nonostante l’assunzione di farmaci immunoterapici, progrediva con nuove formazioni in area addominale e la estensione di quelle precedenti a carico del polmone, provocando alla donna gravi problemi sia respiratori, soprattutto notturni, sia alla funzione renale, per i quali i sanitari le avevano prospettato l’introduzione di specifici supporti vitali.

In questa situazione, il 1° giugno 2022 E. A. aveva rifiutato un ulteriore ciclo chemioterapico, ravvisatane l’inutilità terapeutica, e il 13 luglio 2022 aveva presentato disposizioni anticipate di trattamento con espresso rifiuto di terapie salvavita, mentre già nel mese di febbraio dello stesso anno aveva iniziato su internet la ricerca di strutture che offrissero un accompagnamento al fine vita volontario, giungendo a individuare la svizzera «Pegasos», con la quale prendeva accordi e alla quale corrispondeva la somma di 10.000,00 euro. Contattava quindi M. C., che, offertale la sua disponibilità, l’accompagnava in auto presso tale struttura, dove il decesso avveniva a seguito di autosomministrazione di un farmaco letale.

Quanto a R. N., l’ordinanza espone che dai primi mesi del 2020 egli iniziava a soffrire della malattia identificata in un «Parkinson Atipico», che determinava la veloce e progressiva perdita dell’autonomia in tutte le attività quotidiane, senza peraltro incidere sulla capacità cognitiva.

Dal mese di aprile del 2021, dopo la frattura del femore destro a seguito di una caduta accidentale, R. N. non camminava più e, nello stesso periodo, la gravità della disfagia gli impediva ormai di assumere liquidi, tanto che il medico neurologo indicava la necessità di nutrizione enterale mediante gastrostomia percutanea endoscopica (PEG). Questo trattamento era stato rifiutato da R. N. e, di fatto, rinviato grazie alla sostituzione dei liquidi con l’acquagel e alla dedizione della moglie, che gli somministrava alimenti resi omogenizzati. La sua condizione era caratterizzata inoltre da aprassia, disartria, apatia, deficit della postura, deficit dell’equilibrio, del linguaggio, della memoria e degli orientamenti, nonché da movimenti involontari. Da ultimo, nel febbraio del 2022 R. N. contraeva il virus COVID-19, subendo un ulteriore aggravamento che lo costringeva all’immobilità e all’allettamento, pur con un quadro cognitivo globalmente conservato. Dalla documentazione clinica relativa al periodo ottobre-novembre 2022 risultavano altresì disfagia, incontinenza urinaria e fecale, totale dipendenza nelle cosiddette activities of day living, dolori diffusi da allettamento, ulcere cutanee, necessità frequente di trattazione di secrezioni bronchiali.

In questo contesto, già nella primavera del 2022 R. N. aveva manifestato l’intenzione di porre fine volontariamente alla sua vita, consapevole che nessuna terapia avrebbe potuto migliorare la sua condizione.

Determinato nel non volere accettare ulteriori e maggiori sofferenze, egli aveva esplicitamente richiesto alla moglie, per realizzare il suo proposito, di contattare l’Associazione Luca Coscioni, riuscendo così a incontrare M. C. e a chiedergli aiuto. Dopo ulteriori contatti tra i due, nel giorno concordato M. C. accompagnava R. N. alla struttura svizzera «Dignitas», dove questi decedeva per auto assunzione di un farmaco letale.

1.2.– Diversamente da quanto prospettato nella richiesta di archiviazione del pubblico ministero, che la considera rientrare nell’area di non punibilità dell’agevolazione al suicidio, come circoscritta dalla sentenza n. 242 del 2019 di questa Corte, il giudice a quo ritiene che la condotta dell’indagato sia astrattamente sussumibile nell’alveo della previsione punitiva dell’art. 580 cod. pen. Mancherebbe, infatti, uno dei requisiti a cui la non punibilità è subordinata, risultando «accertato che all’atto dell’esecuzione della condotta incriminata» nessuna delle due persone offese «dipendev[a] da un trattamento sanitario vitale».

Per il resto, ricorrerebbero gli altri tre requisiti delineati dalla stessa sentenza.

Sia E. A., sia R. N., infatti, «erano affetti da una malattia irreversibile», che, secondo le valutazioni dei consulenti tecnici del pubblico ministero, era giunta in una fase terminale. In particolare, il rifiuto opposto da E. A. a qualsiasi cura aveva portato a «un’aspettativa di vita quantificabile in pochi mesi»; quanto alla malattia di R. N., connotata per una evoluzione degenerativa più rapida della media dei casi, la prognosi, pur se non del tutto valutabile, «era sicuramente infausta a breve termine».

Entrambi, inoltre, «consapevoli delle sofferenze» connesse alle rispettive patologie, avevano formato in maniera autonoma e libera la «decisione di morire» e di «rifiutare le terapie proposte (ulteriore ciclo di chemioterapia per la sig.ra [A.] e posizionamento [PEG] per il sig. [N.])», contattando l’indagato M. C. per l’organizzazione del viaggio e il trasporto in Svizzera, che non potevano porre in essere autonomamente.

Il giudice a quo osserva, poi, che «[e]ntrambi avevano scelto di affidarsi a cliniche svizzere», rilevando che in tale Stato il suicidio assistito, il cui fondamento poggerebbe sugli artt. 114 e 115 del codice penale svizzero, è da sempre l’unica pratica di fine vita considerata lecita, subordinata solo all’assenza in capo all’agente di motivi egoistici.

Richiamando, in via generale, le direttive adottate dall’Accademia svizzera delle scienze mediche per disciplinare il comportamento dei medici in ordine alle pratiche per il fine vita, il rimettente ritiene che «[e]merg[a] chiara la centralità della volontà del paziente», essendo concesso al medico di assecondare esclusivamente richieste provenienti da soggetti capaci di intendere e di volere. Nel caso di rifiuto di una terapia, invece, varrebbero anche le intenzioni manifestate in epoca antecedente da un soggetto attualmente incapace di intendere e di volere; meccanismo, questo, «equivalente» alle disposizioni anticipate di trattamento disciplinate dalla legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento).

Sempre secondo il rimettente, affinché l’aiuto al suicidio possa considerarsi legittimo per quell’ordinamento, il medico che intenda prestarlo è tenuto ad assicurarsi che: a) la malattia di cui soffre il paziente legittimi la supposizione del suo decesso imminente; b) trattamenti alternativi siano stati proposti e, se accettati dal paziente, adottati; c) una terza persona (non necessariamente il medico stesso) abbia accertato che il paziente sia in grado di intendere e di volere, che abbia riflettuto a lungo sul suo desiderio di morte e che tale persistente desiderio non sia il risultato di pressioni esterne.

In definitiva, secondo il giudice a quo «risult[erebbe] evidente» la presenza in entrambi i casi di tre dei requisiti indicati dalla sentenza n. 242 del 2019, «all’esito di un normato e preciso iter burocratico medico, giuridicamente rilevante anche se svoltosi all’estero (nella specie, la Svizzera)», mentre «[d]ifett[erebbe] chiaramente» il quarto, ossia quello di essere i malati tenuti in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale.

1.3.– Ciò premesso, l’ordinanza di rimessione ritiene che la richiesta di archiviazione non possa essere accolta, non essendo sostenibile l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 580 cod. pen., come risultante dalla sentenza di questa Corte n. 242 del 2019, che il pubblico ministero ha proposto sulla base della equivalenza tra il rifiuto di un trattamento sanitario di sostegno vitale in atto e il rifiuto di un trattamento sanitario futile o inutile, in quanto espressivo di accanimento terapeutico. Si tratterebbe, infatti, di una «applicazione analogica», stante la «irriducibilità di fondo» dei due presupposti: in un caso, vi è la «sottoposizione» a un trattamento sanitario di sostegno vitale, che il paziente ha rifiutato chiedendone l’interruzione; nell’altro caso, vi è la «prospettazione» di un trattamento «mai iniziato e che il paziente di fatto non ha mai rifiutato espressamente».

Tuttavia, conclude sul punto l’ordinanza, proprio perché il singolo giudice, in via interpretativa, non potrebbe «spostare il delicato baricentro» su cui poggia la causa di giustificazione elaborata da questa Corte, la risoluzione della questione di legittimità costituzionale sollevata diverrebbe rilevante ai fini della definizione del giudizio.

1.4.– Un primo profilo di censura dell’art. 580 cod. pen. è prospettato in riferimento al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., poiché dall’ambito applicativo della «scriminante procedurale» riconosciuta dalla sentenza n. 242 del 2019 di questa Corte risulterebbe esclusa «una situazione sostanzialmente identica», cioè quella del soggetto affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psichiche intollerabili, e capace di prendere decisioni libere e consapevoli, ma che non sia tenuto in vita da un trattamento sanitario di sostegno vitale.

In casi del genere, infatti, si determinerebbe «una irragionevole disparità di trattamento», unicamente in quanto il paziente «non ha voluto iniziare un trattamento sanitario vitale perché ritenuto inutile».

Richiamando le valutazioni della scienza medica illustrate nella consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero, il giudice rimettente qualifica come «trattamenti di supporto vitale» gli interventi che: a) «[n]on hanno funzione curativa, ma di sostituzione transitoria o permanente di una funzione d’organo compromessa, allo scopo di mantenere in vita il paziente»; b) «[s]i trovano in rapporto diretto con il mantenimento in vita del paziente stesso, nel senso che la sospensione del trattamento determina necessariamente la morte del paziente in un tempo più o meno lungo».

Tali interventi non sarebbero praticati, né praticabili, quando, «sulla base di una considerazione squisitamente medica», si rivelino «inutili, futili e come tali qualificabili come "accanimento terapeutico”» ai sensi dell’art. 2, comma 2, della legge n. 219 del 2017.

Inoltre, riportando le conclusioni del consulente tecnico del pubblico ministero, il rimettente osserva che il supporto vitale non sarebbe «un passo obbligato fra la vita e la morte», affermazione che vedrebbe concorde «larghissima parte della comunità medica, clinica e scientifica».

Nel caso di specie, in base alle risultanze della consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero, i trattamenti proposti a E. A. e R. N. sarebbero stati inutili, poiché la loro attivazione «non avrebbe provocato un efficace contrasto alla patologia e la morte sarebbe comunque sopraggiunta inesorabilmente con l’aggravio di generare ai pazienti, per effetto dell’avvio dei […] trattamenti, atroci sofferenze così da rendere gli ultimi giorni di vita, infernali».

Ciò premesso, il giudice a quo sottolinea il carattere irragionevole, e dunque discriminatorio, della esclusione dalle pratiche di suicidio assistito di chi, pur affetto da una patologia irreversibile e destinato a morte certa, «non abbia in corso un trattamento di sostegno vitale in quanto futile o inutile». Anche tali persone, al pari di quelle tenute in vita da un simile trattamento, «affrontano con certezza la prospettiva della loro morte, più o meno imminente, preceduta da un periodo più o meno lungo di decadimento fisico, accompagnato spesso da acute sofferenze fisiche».

Pertanto, sarebbero «fattori del tutto accidentali», dipendenti dal tipo di patologia da cui il soggetto è affetto, le differenze costituite dalla attuale, o non attuale, «benché certa e prossima», sottoposizione a un trattamento di sostegno vitale (TSV).

Nella specie, avendo entrambe le persone rifiutato di sottoporsi a trattamenti sanitari vitali futili, secondo la scienza medica, la sanzione per l’aiuto al suicidio loro prestato finirebbe per trattare in maniera differente situazioni sostanzialmente identiche a quella in cui il TSV è in corso.

1.5.– È, inoltre, dedotta la violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., dal momento che l’esercizio del diritto all’autodeterminazione nelle scelte terapeutiche verrebbe limitato imponendo al paziente «un’unica modalità di congedo [d]alla vita», ossia di «iniziare un trattamento sanitario», seppure ab origine inutile, «per poterlo poi interrompere».

Ciò farebbe aumentare la sofferenza della persona, esposta all’ulteriore sacrificio fisico per le conseguenze che il trattamento proposto provocherebbe.

Pertanto, nel caso in cui il suddetto trattamento non sia attivo e nemmeno se ne prospetti l’utilità e laddove il paziente rifiuti le cure palliative e la sedazione profonda, egli sarebbe lasciato ad attendere la morte «senza alcuna tutela per la sua dignità di uomo» e di persona.

1.6.– Da ultimo, l’art. 580 cod. pen. si porrebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU.

Pur dando atto della mancanza di consenso sul tema tra gli ordinamenti dei Paesi europei, l’ordinanza di rimessione rileva che, una volta ammessa dalla normativa italiana la liceità, nei limiti già indicati, del suicidio medicalmente assistito, questo dovrebbe «essere assicurato senza discriminazione […] a tutti i malati che si trovano nelle medesime condizioni».

Pertanto, il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, quale condizione di liceità dell’aiuto al suicidio, violerebbe i suddetti parametri perché, per un verso, non vi sarebbe giustificazione all’ingerenza statale rispetto alla contrazione del diritto di autodeterminazione del paziente; per altro verso, si determinerebbe una discriminazione basata su una condizione personale del tutto accidentale, dipendente dalla tipologia della malattia.

2.– Con atto depositato il 7 ottobre 2024 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, e, comunque, la manifesta infondatezza delle stesse.

2.1.– Anzitutto, difetterebbe il requisito della rilevanza delle questioni sollevate, essendo pacifico che nei casi in esame – relativi a fatti successivi alla pubblicazione della sentenza n. 242 del 2019 di questa Corte – non è stata seguita la procedura medicalizzata di cui alla legge n. 219 del 2017.

Al riguardo, l’ordinanza di rimessione si limiterebbe a un riferimento «del tutto astratto e generico» alla normativa vigente in Svizzera, «pretende[ndo] indebitamente di equiparare» quest’ultima al sistema procedurale, composito e con valenza sostanziale, delineato dalla legge citata. Essa, inoltre, perverrebbe ad affermare il positivo riscontro di tre requisiti di cui alla menzionata sentenza di questa Corte sulla base di elementi reperiti «al di fuori dei rigorosi e precisi controlli prescritti dalla legge».

Da ciò conseguirebbe che, quand’anche le questioni fossero ritenute fondate, il giudice a quo non potrebbe comunque pervenire all’archiviazione del procedimento penale, in difetto di una verifica esaustiva dei suddetti requisiti sostanziali.

2.2.– Le questioni sarebbero, comunque, manifestamente infondate, dovendosene ravvisare la «esatta sovrapponibilità» con quelle che questa Corte ha dichiarato non fondate con la sentenza n. 135 del 2024, depositata dopo la pubblicazione dell’ordinanza di rimessione.

2.3.– La difesa statale svolge poi gli specifici argomenti a sostegno della non fondatezza delle questioni, premettendo di ritenere «fuorviante» il riferimento compiuto dall’ordinanza di rimessione alla futilità o inutilità dei trattamenti di sostegno vitale, essendo evidente che, in relazione a malattie irreversibili, l’utilità non andrebbe riferita alla guarigione, ma al fine di assicurare al malato «il mantenimento in vita».

Quanto alla censura di violazione dell’art. 3 Cost., l’Avvocatura riporta la sentenza n. 135 del 2024 di questa Corte, che, al punto 7.1. del Considerato in diritto, ha affrontato la medesima questione, rilevando che la ratio della illegittimità costituzionale dichiarata dalla citata sentenza n. 242 del 2019 «non si estende a pazienti che dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno (o non hanno ancora) la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure», il che comporterebbe il venir meno del «presupposto stesso della censura di irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe».

Secondo la difesa statale, dunque, non sarebbe irragionevole limitare l’ambito di applicazione della causa di non punibilità ai soli soggetti che dipendano da un trattamento di sostegno vitale, «essendo quel requisito positivamente regolato» dalla legge n. 219 del 2017, che questa Corte avrebbe utilizzato per ricavare «i criteri di riempimento costituzionalmente necessari» fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento.

2.4.– Con riferimento alle doglianze di violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost. l’Avvocatura si riporta integralmente alle affermazioni illustrate nel punto 7.2. della richiamata sentenza n. 135 del 2024, ritenendole «perfettamente idonee a confutare gli analoghi dubbi» qui prospettati.

2.5.– Anche le censure di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, sarebbero da ritenere non fondate, sulla base delle considerazioni sviluppate nella menzionata sentenza di questa Corte, di cui è integralmente riportato il punto 7.4.

3.– Con atto depositato in data 8 ottobre 2024 si è costituito in giudizio M. C., chiedendo l’accoglimento delle questioni.

3.1.– Ad avviso della parte, queste sarebbero rilevanti perché la eventuale decisione di fondatezza «condizioner[ebbe] in ogni caso il percorso logico-interpretativo» che il giudice a quo dovrebbe seguire per assumere le sue determinazioni in ordine alla richiesta di archiviazione nei confronti della parte medesima (è citata la sentenza n. 135 del 2024 di questa Corte), restando irrilevante che questa «debba comunque essere rigettata» per l’assenza della condizione della dipendenza da un trattamento di sostegno vitale oppure per il mancato rispetto della procedura medicalizzata.

Inoltre, valutando la motivazione della odierna ordinanza di rimessione alla luce delle concrete vicende oggetto del giudizio a quo, si dovrebbe ritenere che i casi già esaminati da questa Corte nelle sentenze n. 242 del 2019 e n. 135 del 2024 siano «solo parzialmente sovrapponibili» a quelli di cui oggi si discute; ciò che escluderebbe, sotto questo profilo, una eventuale decisione in rito.

In particolare, la prospettazione alla base delle questioni decise dalla più recente sentenza sarebbe stata «incentrata sull’asserita assenza di un rapporto di funzionalità tra la dipendenza da un trattamento di sostegno e la tutela del bene vita», mentre i profili di legittimità costituzionale dedotti dall’odierno rimettente atterrebbero «al possibile accanimento terapeutico conseguente alla somministrazione» di tale trattamento, richiedendo perciò «un nuovo scrutinio» da parte di questa Corte.

Le odierne questioni differirebbero dalle precedenti «anche sotto il profilo che attiene alla interpretazione del requisito della dipendenza da un trattamento di sostegno vitale», venendo specificamente in rilievo la «ratio che anima le scriminanti di tipo procedurale», le quali esprimerebbero un bilanciamento di interessi operato ex ante perché «ancorato ad una procedura costitutiva di liceità tassativamente predeterminata».

Ancora, rispetto al più vicino precedente sarebbe differente il "verso” delle questioni sollevate, con le quali sarebbe, in sostanza, messa in discussione, «proprio nel suo fondamento, la scelta di incriminazione delle condotte agevolative dell’atto suicidario».

3.2.– Quanto al merito, la parte ritiene che il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale porterebbe «gravi discriminazioni tra malati», assoggettando la tutela della loro libertà di autodeterminazione nella fase finale della vita a «un elemento del tutto arbitrario ed estemporaneo, rispetto al fine di proteggere la vita umana da raggiri».

Inoltre, la previsione di tale requisito violerebbe la dignità umana, dal momento che la compressione della libertà di autodeterminarsi della persona malata terminale «si ripercuote[rebbe] in modo doloroso sulla sua condizione di vita», impedendole di scegliere come congedarsi dalla vita stessa.

È sottolineata altresì l’importanza che avrebbe una decisione di accoglimento o interpretativa di accoglimento, anche a fronte di prassi delle aziende sanitarie e di giudici comuni maturate a seguito della sentenza n. 135 del 2024 di questa Corte. Al riguardo, la parte segnala che M. O., ammessa come interveniente nel giudizio deciso dalla pronuncia richiamata, si è vista negare dalla competente azienda sanitaria la ricorrenza dei presupposti per considerare i trattamenti ai quali ella è costretta alla stregua di un trattamento di sostegno vitale.

Attraverso una sentenza interpretativa di accoglimento, pertanto, verrebbe ridefinito «il rapporto tra il requisito dell’essere tenuto in vita mediante un trattamento di sostegno vitale e gli altri tre requisiti» rilevanti, in modo che il primo sia «ritenuto come funzionale all’accertamento dell’esistenza dei requisiti della patologia irreversibile e della grave sofferenza fisica o psicologica, corroborandone l’esistenza in concreto».

4.– Con atto depositato in data 8 ottobre 2024 sono intervenuti, ad opponendum, D. M., P. F., M.L. R. e L. M., persone che dichiarano di trovarsi «in talune delle condizioni che integrano l’ipotesi di non punibilità di aiuto al suicidio all’esito della sentenza n. 242 del 2019», senza essere tuttavia soggette a trattamenti di sostegno vitale, nei sensi di cui alla sentenza n. 135 del 2024.

Gli intervenienti, infatti, sono affetti da patologie irreversibili ossia, rispettivamente, da tetraparesi spastica e da broncopatia asmatica; da mielopatia cronica ed emosiderosi del sistema nervoso centrale; da morbo di Friedreich; da tetraparesi spastica. Sono inoltre persone capaci di volontà libera e autonoma, che, con il supporto delle persone a loro vicine e dei sanitari, «hanno saputo fino ad oggi sempre resistere dinnanzi ai momenti di maggior sofferenza fisica e psicologica».

Ciò premesso, essi sostengono di essere titolari di un interesse qualificato legittimante l’intervento nel giudizio dal momento che, se le questioni di legittimità costituzionale fossero accolte, verrebbe meno parte della tutela penale che oggi l’art. 580 cod. pen. accorda loro. In particolare, avrebbero interesse a che l’ordinamento italiano continui a conservare il requisito del trattamento di sostegno vitale quale condizione per la non punibilità dell’aiuto al suicidio, in quanto senza il riferimento ad un elemento oggettivamente determinabile come quello in discussione, si verificherebbe una apertura amplissima al suicidio assistito, che sarebbe indicativa di un giudizio di minor valore della propria vita rispetto a quella degli altri consociati. Qui si radicherebbe il loro interesse attuale e diretto a intervenire nel giudizio, perché in questo modo temono di subire spinte, dirette o indirette, a congedarsi dalla vita.

Rimarcato che, «pur nella sofferenza di una vita come malati gravi, [essi] vogliono vivere», gli intervenienti segnalano tuttavia il rischio di «essere indotti ad una richiesta "anticonservativa”», la quale, in assenza di un riferimento a uno stato oggettivamente accertabile di non autonomia dei processi vitali, si ridurrebbe «ad una mera, individuale disposizione della propria esistenza».

Sussisterebbe, dunque, l’interesse attuale e diretto a intervenire nel giudizio, posto che l’eventuale insorgenza di tale volontà "anticonservativa”, che essi auspicano mai maturi, «rischierebbe di non consentire loro, in pratica, di far valere in tempo utile le proprie ragioni».

In ogni caso, l’eventuale pronuncia di accoglimento inciderebbe in maniera immediata, diretta e attuale sul diritto alla dignità personale degli intervenienti, che «si vedrebbero destinatari da parte dell’ordinamento di un giudizio di minor valore della propria vita rispetto a quella degli altri consociati».

Infine, gli intervenienti richiamano l’ordinanza pronunciata da questa Corte all’udienza del 19 giugno 2024 nel giudizio deciso dalla sentenza n. 135 del 2024, sostenendo che, allo stesso modo delle persone allora ammesse a intervenire, anche essi, date le loro condizioni, rischiano di non avere altra sede processuale a cui accedere per la tutela dei propri diritti.

5.– Sono pervenute cinque opinioni scritte di amici curiae, ammesse con decreto presidenziale del 10 febbraio 2025.

In particolare, hanno depositato opinioni a sostegno delle questioni di legittimità costituzionale prospettate le associazioni Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica APS e Consulta di bioetica ONLUS.

Hanno invece depositato opinioni che invitano questa Corte a dichiarare inammissibili o non fondate tali questioni le associazioni Scienza & vita, Comitato ditelo sui tetti, Osservatorio sull’attività parlamentare vera lex?, Centro studi Rosario Livatino e Unione per la promozione sociale - ODV.

5.1.– L’Associazione Coscioni sottolinea il carattere discriminatorio e irragionevole del requisito del trattamento di sostegno vitale, quando, in assenza dello stesso, una persona affetta da patologie progressive come quelle oncologiche o neurodegenerative chieda di accedere alla morte assistita.

Si tratterebbe di una questione «rima[sta] di fatto aperta», nonostante il chiarimento fornito dalla sentenza n. 135 del 2024, che riguarderebbe situazioni, identiche, di persone «a cui non sia stato ancora prescritto un trattamento […] che inevitabilmente arriverà», costrette a giungere a quel punto di sofferenza per poter accedere al fine vita.

5.2.– L’opinione della Consulta di bioetica ritiene che i casi di irragionevolezza della incriminazione dell’aiuto al suicidio individuati dalla sentenza n. 242 del 2019 rappresentino «un "sottoinsieme” di un più ampio insieme» nel quale andrebbero ricomprese «tutte quelle situazioni in cui il paziente è in una condizione di prognosi infausta a breve termine o di morte imminente». In questo senso, non potrebbe incidere sul disvalore della condotta il fatto che la morte a breve termine sia dovuta al rifiuto o all’interruzione del trattamento di sostegno vitale invece che al decorso della malattia.

Sarebbe, anzi, irragionevole negare la possibilità di accedere al suicidio medicalmente assistito a chi versi in una situazione di prognosi infausta «a breve termine "naturale”», garantendola, invece, quando tale situazione sia «"indotta” dal legittimo rifiuto o dalla legittima interruzione» del trattamento di sostegno vitale.

D’altro canto, oltre a rilevare che per i malati in questione un simile trattamento, quand’anche «clinicamente immaginabile, si configurerebbe in termini di futilità», non essendo in grado di produrre significativi miglioramenti della situazione clinica o di posticipare l’evento morte, l’amicus richiama la disciplina della sedazione palliativa profonda, i cui unici requisiti, ai sensi dell’art. 2, comma 2, della legge n. 219 del 2017, sarebbero la prognosi infausta a breve termine e la sofferenza.

La Consulta di bioetica aggiunge delle considerazioni di carattere medico legale sulla nozione di trattamento di sostegno vitale, evidenziando che, per casi come quelli oggetto del giudizio a quo, tale trattamento dovrebbe essere considerato non proporzionato, né appropriato, risultando dunque «arbitrario ed illecito». Pertanto, mantenere il requisito della sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale quale condizione per l’accesso al suicidio medicalmente assistito significherebbe, di fatto, imporre tali trattamenti a pazienti rispetto ai quali essi si presentano «sproporzionati e futili e quindi configurano accanimento terapeutico», in contrasto con le previsioni dell’art. 2 della legge n. 219 del 2017.

5.3.– L’Associazione Scienza & vita sostiene, anzitutto, «l’assoluta irrilevanza» delle questioni, dal momento che nelle vicende oggetto del giudizio a quo, relative a fatti successivi alla citata sentenza n. 242 del 2019, non sarebbero state rispettate le condizioni procedimentali da tale pronuncia indicate.

Quanto alla censura di violazione dell’art. 3 Cost., l’amicus ne assume la non fondatezza, osservando che la sentenza n. 242 del 2019 ha collegato l’area di non punibilità ai casi nei quali il paziente ha già la possibilità di "lasciarsi morire”, chiedendo la sospensione dei presidi vitali, con contestuale sedazione palliativa profonda, ai sensi dell’art. 2, comma 2, della legge n. 219 del 2017 – disposizione che circoscrive tale possibilità alle ipotesi di morte imminente e alla presenza di uno più sintomi refrattari –, mentre l’ordinanza di rimessione mirerebbe a «uscire fuori dall’ambito della prossimità della morte per consentire l’aiuto al suicidio in tutti i casi di malattia inguaribile e irreversibile».

Ancora, nel valutare le censure inerenti alla lesione della dignità umana, occorrerebbe considerare che questa sarebbe garantita dalla «cura "attiva e totale” offerta dalle cure palliative», la cui realizzazione, mediante il reale coinvolgimento del malato, assicurerebbe la libera scelta, la stessa autonomia e la dignità della persona. Pertanto, sarebbe imprescindibile inserire un percorso di cure simili tra le condizioni per l’accesso al suicidio, il cui accertamento in concreto andrebbe operato da strutture pubbliche e non «rimess[o] alla valutazione di associazioni e "cliniche” estere», eventualmente portatrici di interessi economici.

5.4.– L’opinione del Comitato ditelo sui tetti e dell’Osservatorio sull’attività parlamentare vera lex? chiede di dichiarare l’inammissibilità delle questioni, il cui obiettivo sarebbe quello di ottenere da questa Corte «la creazione di una nuova ed ulteriore fattispecie» di accesso al suicidio assistito rispetto a quella già individuata dalla sentenza n. 242 del 2019, laddove, invece, spetterebbe esclusivamente alla sede legislativa la creazione di nuovi diritti.

Le questioni sarebbero in ogni caso inammissibili «non essendosi realisticamente avverate nel caso di specie le condizioni procedurali di non punibilità» fissate dalla richiamata pronuncia.

Nel merito, l’opinione sottolinea, in particolare, che il percorso delineato dal giudice a quo porterebbe a rimettere il bene vita «alla sola determinazione del singolo»; per quanto la percezione soggettiva del malato della dignità del morire sia un elemento di rilievo, essa dovrebbe «cedere nel confronto con il "non uccidere”».

5.5.– Il Centro studi Rosario Livatino e l’Unione per la promozione sociale - ODV richiamano l’attenzione sulla ricorrenza «di un rifiuto puramente ipotetico dei trattamenti di sostegno vitale in entrambe le concrete fattispecie di reato oggetto di accertamento nel giudizio a quo». Pertanto, difetterebbe comunque lo specifico requisito individuato dalla sentenza n. 242 del 2019, confermato dalla successiva sentenza n. 135 del 2024, e le questioni di legittimità costituzionale risulterebbero manifestamente infondate.

Andrebbe escluso, però, che allo stesso esito si possa pervenire assimilando «un rifiuto puramente ipotetico di un trattamento di sostegno vitale a un vero e proprio rifiuto di un analogo trattamento», specificamente indicato dai sanitari e da questi ritenuto proporzionato nel caso concreto. In tal modo, diventerebbe «del tutto evanescente» il requisito del trattamento di sostegno vitale, e verrebbe invaso «surrettiziamente il campo della discrezionalità legislativa», con l’effetto che «la circoscritta area di non punibilità dell’aiuto al suicidio finirebbe di fatto per essere ampliata a dismisura».

L’opinione, inoltre, sostiene che le questioni siano irrilevanti, e di conseguenza inammissibili, in ragione dell’incompetenza per territorio del giudice a quo, rilevabile ictu oculi. Nella specie, poiché l’indagato accompagnò in Svizzera entrambe le persone offese utilizzando l’automobile, dovrebbe applicarsi anzitutto l’art. 10, comma 3, del codice di procedura penale, che, regolando la competenza territoriale per i fatti commessi in parte in Italia e in parte all’estero, rinvia agli artt. 8 e 9 dello stesso codice.

Non risultando applicabili, nel caso in esame, i criteri stabiliti dalla prima delle due disposizioni, in forza del comma 1 dell’art. 9 sarebbe competente il giudice dell’ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione, da intendere come luogo sito nel territorio dello Stato.

Risulterebbe quindi evidente come, in base a tale criterio, la competenza non possa spettare al Tribunale di Milano, il cui circondario non confina con la Svizzera.

6.– In prossimità dell’udienza la parte ha depositato memoria, osservando, in punto di rilevanza delle questioni, che la sentenza n. 135 del 2024 ha respinto una eccezione «del tutto analoga» a quella formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, e che, quand’anche il giudice a quo rigettasse la richiesta di archiviazione ritenendo che l’indagato abbia operato «al di fuori del perimetro della procedura medicalizzata», sarebbe «innegabile che l’accoglimento delle questioni inciderebbe sulla formulazione della motivazione del rinvio a giudizio».

Nel merito, la parte ritiene che il «fondamento assiologico» della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen. operata dalla sentenza n. 242 del 2019 risiederebbe «nel diritto alla salute della persona malata», e che questa Corte avrebbe considerato il suicidio assistito come «uno dei metodi con cui la persona malata può liberarsi da trattamenti sanitari» ritenuti non più in grado di alleviare le sofferenze in modo compatibile con la sua personale concezione di dignità. D’altronde, sarebbe indubitabile che il concetto di salute ricomprenda «dinamicamente» la liberazione da sofferenze fisiche o psicologiche ritenute assolutamente intollerabili, prospettiva che rileverebbe come «diritto all’autodeterminazione terapeutica nella fase finale della vita».

6.1.– Ciò premesso, consapevole della valutazione compiuta da questa Corte con la sentenza n. 135 del 2024, la parte non prospetta «una caducazione o erosione del requisito dell’essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale», chiedendo piuttosto, sulla scia del thema decidendum posto dall’ordinanza di rimessione, «un ulteriore sforzo ermeneutico», connesso alla specificità dell’applicazione del suddetto requisito a una «nuova categoria di persone malate, la cui prospettiva di vita è molto ridotta», ossia i pazienti con «prognosi infausta a breve termine». Questa locuzione, presente nell’art. 2 della legge n. 219 del 2017 – disposizione idonea a costituire un ulteriore punto di riferimento normativo, come già avvenuto per la procedura medicalizzata nella sentenza n. 242 del 2019 – ricomprenderebbe, infatti, «persone che vedono limitata in modo assoluto la libertà di congedarsi dalla vita», secondo una prospettiva non ancora esaminata da questa Corte.

Ad avviso della parte, dal tenore del comma 2 del richiamato art. 2 – ai sensi del quale «[n]ei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente» – si desumerebbe che nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine «lo stadio della malattia è molto avanzato e […] non è (ancora) possibile procedere alla sedazione palliativa profonda continua, a meno che non ricorrano sintomi refrattari alle cure».

Alla persona in tale condizione, nella quale nessun trattamento potrebbe ormai curare la malattia, ma solo «arginare nel tempo il processo di morte», si imporrebbe quale unica modalità di congedarsi dalla vita quella di «affrontare la malattia […] con cure di contenimento, […] impattanti sulle condizioni di vita» e indispensabili per lenire le sofferenze e assicurare una fase finale della vita dignitosa, «ma non sovrapponibili» ai trattamenti di sostegno vitale, non potendo valere «a sostenere le funzioni vitali della persona», attesa l’imminente sopravvenienza del decorso infausto. In altri termini, «[l]e cure di contenimento della malattia, in queste condizioni, non sono assimilabili ai trattamenti di sostegno vitale, perché sono volte a alleviare le sofferenze».

La situazione di questi malati, che si trovano «ad attendere la morte, ormai certa e vicina», sarebbe dunque diversa da quella delle persone cui si riferiscono i giudizi principali dai quali sono originate le questioni di legittimità costituzionale decise con le sentenze n. 242 del 2019 e n. 135 del 2024; nel caso di E. A., rileverebbero la prognosi infausta a brevissimo termine e l’assenza di un trattamento di sostegno vitale in atto; nel caso di R. N., l’incertezza del decorso della patologia, anch’essa a prognosi infausta, e la ricorrenza di trattamenti potenzialmente rientranti nella interpretazione estensiva di cui alla sentenza n. 135 del 2024, essendo egli «completamente dipendente da caregivers».

In particolare, il caso di E. A., oltre a riguardare «una categoria di persone diversa e nuova rispetto a quelle» già portate all’attenzione di questa Corte, porrebbe «nuovamente in dubbio la legittimità costituzionale del requisito del trattamento di sostegno vitale, comunque interpretato».

6.2.– Anche alle persone malate con prognosi infausta a breve termine, che non possono rifiutare trattamenti di sostegno vitale, anche estensivamente interpretati, perché ancora non ne necessitano, dovrebbe dunque essere assicurato un livello minimo di esercizio del diritto di autodeterminazione terapeutica nella fase finale della vita, rendendo penalmente lecita la condotta di agevolazione al suicidio nei loro confronti. Infatti, essendo il decesso comunque imminente, per il progredire della malattia che nessuna terapia potrebbe fermare, «queste persone non hanno neanche "bisogno” di rinunciare a un trattamento sanitario per congedarsi dalla vita, perché la morte arriverebbe, ineluttabile, in ogni caso». D’altro canto, la situazione di dovere «attendere l’arrivo della morte, con l’ausilio di cure volte a contenere i sintomi, ormai refrattari alle terapie, ma non realmente curative», renderebbe la persona «prigioniera», fino al sopraggiungere della morte, al pari del malato sostenuto nelle proprie funzioni vitali da un trattamento sanitario.

Nelle situazioni in esame, l’impossibilità di accedere al suicidio medicalmente assistito sarebbe irragionevole, sacrificando l’autodeterminazione della persona senza tutelare alcun interesse o diritto costituzionale. Non si potrebbe, dunque, esigere la dimostrazione di avere rifiutato «ogni forma di terapia» per potersi congedare dalla vita, traducendosi tale requisito in un onere sproporzionato e futile a carico della persona malata. Inoltre, sostiene la parte, per lo stesso motivo «la condizione dell’essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno si pone in contrasto col principio di offensività».

Per altro verso, richiedere che la malattia si aggravi al punto che alla persona siano prospettati trattamenti di sostegno vitale significherebbe «vanifica[re], su un piano pratico», l’accesso all’aiuto al suicidio, facendo sì che la procedura di verifica dei relativi requisiti si trasformi in «una lotta contro il tempo».

Concludendo sul punto, ad avviso della difesa della parte i principi di proporzione e di ragionevolezza richiederebbero che «la "prognosi infausta a breve termine” elida la condizione di non punibilità dell’essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale», ferme restando le altre tre già individuate da questa Corte.

In tal modo, nel solco delle precedenti pronunce, sarebbe fornita tutela sul piano costituzionale a persone malate, «più fragili e vulnerabili di tutt[e le] altr[e]», a fronte di una situazione normativa che, allo stato, «è di segno diametralmente opposto a tale assetto».

Nemmeno potrebbe ritenersi che spetti esclusivamente al Parlamento farsi carico di tale tutela, ove si consideri che, sebbene si tratti del soggetto istituzionalmente privilegiato per offrire una disciplina della materia del fine vita, una inerzia del legislatore non potrebbe ripercuotersi a detrimento dei diritti fondamentali della persona.

Per la categoria delle persone con prognosi infausta a breve termine, che viene in rilievo con carattere di novità nell’odierno giudizio, si dovrebbe riconoscere che le cure, anziché rappresentare uno strumento funzionale a contrastare la malattia, si porrebbero, in alcuni casi, «come un ulteriore mezzo di perpetuazione della patologia contro il benessere della persona», ragione per la quale la persona malata deciderebbe di opporsi a tali trattamenti non correlati al sostegno di funzioni vitali. Nelle ipotesi considerate, sarebbe irragionevole non tenere conto che il diritto al rifiuto delle cure dovrebbe consentire alla persona «la liberazione dalle sofferenze e dalla patologia, compresi gli strumenti volti a lenirne i sintomi», per congedarsi dalla vita secondo «la propria visione di dignità personale».

Peraltro, precisa la difesa della parte, sarebbe evidente che l’estensione della procedura di verifica delle condizioni per l’accesso al suicidio assistito alla categoria dei pazienti con prognosi infausta a breve termine non pregiudicherebbe la posizione «di tutti coloro che non ne facciano richiesta», e non inciderebbe, pertanto, «sul diritto alla vita di chi intende congedarsi dalla vita attendendo il decorso della malattia».

In definitiva, la persona con prognosi infausta a breve termine e quella tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale sarebbero in una situazione «del tutto analoga», ove si valuti «il vero nucleo della questione», ovvero la liberazione della prima «dalle sofferenze e dalla patologia che giustificano la necessità delle cure».

Le considerazioni da ultimo svolte sarebbero particolarmente pertinenti nel caso di E. A., che «non aveva alcuna prospettiva terapeutica di sostegno vitale idonea a migliorare le sue condizioni». In una simile situazione, nella quale la sottoposizione a un trattamento di sostegno vitale risulta «inefficace o scientificamente "impossibile”», sarebbe discriminatorio richiedere siffatto requisito, dovendosi, dunque, ammettere come alternativa la «prognosi quoad vitam infausta a breve termine», idonea a fare venire meno la discriminazione verso i malati in questione. I trattamenti di sostegno vitale sarebbero, per costoro, un «inutile accanimento terapeutico (dunque del tutto inefficaci) o […] inesistenti» nelle condizioni in cui, in assenza di cure da percorrere, il malato «è indirizzato a terapie di supporto che contengono la sofferenza negli ultimi periodi di vita».

6.3.– Quanto alla diversa situazione di R. N., pur ricompresa nell’ambito della nozione di sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale delineata dalla sentenza n. 135 del 2024, secondo la difesa della parte essa varrebbe a evidenziare la necessità di estendere con efficacia erga omnes l’interpretazione operata da tale pronuncia, mediante una sentenza interpretativa di accoglimento. Un intervento di questo genere sarebbe preferibile quando vengano in rilievo diritti fondamentali, esigenze di determinatezza, eguaglianza, parità di trattamento e certezza del diritto (è richiamata la sentenza n. 7 del 2025 di questa Corte).

Pertanto, tenuto conto della perdurante incertezza sul significato da attribuire al requisito in esame, la parte auspica l’accoglimento delle questioni «nei termini prospettati», oppure, in subordine, l’adozione di una sentenza interpretativa di accoglimento, idonea a evitare che le aziende sanitarie locali non si adeguino alla interpretazione indicata da questa Corte, «imponendo controlli particolarmente problematici».

7.– Anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato memoria, rilevando che gli «indubbi elementi di peculiarità», presenti nel giudizio principale ed evidenziati dall’atto di costituzione della parte, possono essere «ben valorizzati e inquadrati» nell’ambito, in particolare, della sentenza n. 135 del 2024.

7.1.– In questa prospettiva, il profilo della inutilità o della futilità del trattamento di sostegno vitale, sottolineato dal giudice rimettente, non sarebbe a ben vedere dirimente. La citata pronuncia avrebbe chiarito che tali trattamenti sono quelli «necessari (e quindi […] "utili” e anzi indispensabili)» per assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, discendendo da ciò che il concetto di "inutilità” del trattamento debba essere valutato, nella specie, «con riferimento al fine del mantenimento in vita del paziente e non già al fine della sua guarigione», ormai impossibile. In effetti, dall’ordinanza di rimessione risulterebbe che le due persone malate non necessitavano di trattamenti di sostegno vitale nel senso dianzi esposto, sebbene «probabilmente, per l’evolversi della patologia, in futuro [sarebbero andate] incontro a tale necessità».

Secondo l’Avvocatura, questo profilo peculiare della questione sarebbe stato già affrontato dalla sentenza n. 135 del 2024, laddove «ha ribadito la centralità del requisito oggettivo rappresentato dall’assoggettamento a trattamenti di sostegno vitale», la cui necessità dovrebbe essere attuale e non già futura, «anche se prevedibile o addirittura certa», costituendo tale requisito «un irrinunciabile contrappeso al principio di autodeterminazione», nell’ottica del bilanciamento con quello di tutela della vita umana, operazione da riservare a scelte discrezionali del legislatore.

Pertanto, conclude l’Avvocatura, sarebbe impossibile, allo stato, superare il requisito rappresentato dalla «"attuale” necessità di sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale», essendo questo il solo parametro oggettivo a presidio del principio di tutela della vita umana a fronte della richiesta di suicidio assistito.

7.2.– Per la difesa dello Stato, anche il secondo profilo di novità evidenziato dalla parte – relativo alla prospettazione del requisito dell’assoggettamento a trattamenti di sostegno vitale come circostanza, la cui mancanza determinerebbe la punibilità di chi aiuta al suicidio – dovrebbe essere analizzato alla luce dei principi già affermati dalla recente sentenza n. 135 del 2024, della quale la memoria richiama i passaggi concernenti le ragioni del «mantenimento, attorno alla persona, di una "cintura di protezione” […] contro scelte autodistruttive».

8.– La memoria depositata dagli intervenienti, recante in allegato una certificazione medica attestante l’attuale capacità psichica degli interessati, ribadisce l’ammissibilità del richiesto intervento in ragione della posizione distinta e qualificata da essi rivestita, che li renderebbe «portatori di un interesse immediatamente coinvolto dalla decisione che sarà assunta», avendo manifestato nel giudizio costituzionale «la chiara volontà di vivere» e la precisa convinzione che l’accoglimento delle questioni sollevate causerebbe loro «un irreparabile vulnus nel godimento dei diritti alla vita e alla dignità personale».

Inoltre, rilevando una analogia, «seppur in una opposta prospettiva», con la posizione degli intervenienti ammessi da questa Corte all’udienza del 19 giugno 2024, nel giudizio deciso con la sentenza n. 135 del 2024, la memoria auspica che sia evitata una disparità di trattamento tra categorie di malati, in riferimento al diritto di difesa e al contraddittorio.

La memoria, per il resto, riprende e sviluppa gli argomenti prospettati nell’atto di intervento.

8.1.– Ciò premesso, la memoria chiede che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili, potendosi rilevare ictu oculi la incompetenza territoriale del giudice a quo, sostanzialmente per le stesse ragioni indicate dagli amici curiae Centro studi Rosario Livatino e Unione per la promozione sociale - ODV.

In ogni caso, delle questioni andrebbe ravvisata la manifesta infondatezza, perché, in entrambe le fattispecie oggetto del giudizio a quo, il rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale risulta «puramente ipotetico». Questa situazione non potrebbe essere assimilata a quella considerata dalla sentenza n. 135 del 2024, cioè del rifiuto manifestato in concreto nel momento in cui il trattamento sia stato effettivamente proposto al paziente, se non facendo diventare tale requisito «del tutto evanescente», realizzando così «in maniera surrettizia» il risultato che la citata sentenza «ha invece opportunamente riservato alla discrezionalità del legislatore».

8.2.– La memoria è poi integrata da distinte dichiarazioni redatte e sottoscritte dagli intervenienti, con le quali, esponendo le rispettive vicende personali, essi sollecitano l’ammissione in giudizio a tutela della dignità personale di cui sono titolari.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe il GIP del Tribunale di Milano ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 cod. pen., in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 CEDU, «nella parte in cui prevede la punibilità della condotta di chi agevola l’altrui suicidio nella forma di aiuto al suicidio medicalmente assistito di persona non tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale affetta da una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili che abbia manifestato la propria decisione, formatasi in modo libero e consapevole, di porre fine alla propria vita».

In sostanza, il giudice a quo ripropone a questa Corte i dubbi – già dichiarati non fondati dalla sentenza n. 135 del 2024, pubblicata successivamente al deposito dell’ordinanza di rimessione – relativi alla compatibilità costituzionale del requisito della dipendenza del paziente da un trattamento di sostegno vitale, indicato dalla sentenza n. 242 del 2019 come una delle condizioni in presenza delle quali la condotta di aiuto al suicidio non può essere ritenuta punibile.

Rispetto però a quella che ha dato luogo alla sentenza n. 135 del 2024, l’ordinanza ora esaminata muove dallo specifico presupposto interpretativo secondo cui il requisito in parola non sarebbe integrato nella situazione in cui il paziente rifiuti l’attivazione di un trattamento di sostegno vitale, pur in presenza di una indicazione medica in tal senso, allorché lo stesso paziente ritenga tale trattamento «futile o inutile in quanto espressivo di accanimento terapeutico».

Ad avviso del rimettente, questa limitazione della possibilità di accesso al suicidio assistito contrasterebbe con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., irragionevolmente escludendo i pazienti che, essendo affetti da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, ed essendo ancora capaci di assumere decisioni libere e consapevoli, abbiano deciso di non sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale.

Inoltre, il requisito in parola violerebbe il diritto all’autodeterminazione nelle scelte terapeutiche, riconosciuto dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendo al paziente «un’unica modalità di congedo [dalla] vita»: quella di iniziare un trattamento sanitario di sostegno vitale al solo scopo di poterlo poi interrompere.

Infine, esso comprimerebbe senza adeguata giustificazione il diritto, riconosciuto dall’art. 8 CEDU, all’autodeterminazione del paziente, realizzando al contempo – in contrasto con l’art. 14 CEDU – una discriminazione tra pazienti basata su una condizione personale del tutto accidentale, dipendente dalla tipologia della malattia di cui il singolo paziente soffre.

2.– Va anzitutto ribadita l’ammissibilità degli interventi di D. M., P. F., M.L. R. e L. M., per le ragioni indicate nell’ordinanza letta all’udienza del 26 marzo 2025, allegata alla presente sentenza.

3.– Quanto all’ammissibilità delle questioni, va rilevato quanto segue.

3.1.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce il difetto di rilevanza delle questioni, dal momento che lo stesso giudice rimettente dà atto che nel caso sottoposto al suo esame non è stata seguita la "procedura medicalizzata” di cui alla legge n. 219 del 2017, il cui rispetto è indicato nella sentenza n. 242 del 2019 come indispensabile presupposto per la non punibilità delle condotte di aiuto al suicidio. Da ciò conseguirebbe che, quand’anche le questioni di legittimità costituzionale fossero ritenute fondate, il giudice a quo non potrebbe comunque pervenire all’archiviazione del procedimento penale.

Osservazioni analoghe sono svolte da vari amici curiae.

L’eccezione è tuttavia infondata, per le medesime ragioni che hanno condotto questa Corte, nella sentenza n. 135 del 2024, a disattendere l’identica eccezione già sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato. L’accoglimento delle odierne questioni, infatti, inciderebbe quantomeno sull’iter motivazionale della decisione che il rimettente è chiamato ad assumere (punto 3.1. del Considerato in diritto, e ivi puntuali riferimenti alla giurisprudenza della Corte, cui adde, ora, sentenza n. 52 del 2025, punto 4.1. del Considerato in diritto e, a contrario, sentenza n. 43 del 2025, punto 6 del Considerato in diritto). Infatti, il GIP non potrebbe rigettare la richiesta di archiviazione, come ora ritiene di dover fare, in ragione dell’insussistenza di una delle condizioni sostanziali della non punibilità, ma semmai unicamente per il mancato rispetto delle condizioni procedurali fissate dalla sentenza n. 242 del 2019.

3.2.– La difesa degli intervenienti privati eccepisce – sulla base di argomenti condivisi anche da due amici curiae – l’irrilevanza delle questioni prospettate in ragione dell’incompetenza per territorio del giudice a quo, che sarebbe riscontrabile ictu oculi.

Poiché, infatti, l’indagato avrebbe accompagnato in automobile in Svizzera entrambi i pazienti, egli avrebbe compiuto in Italia una parte soltanto della condotta, con conseguente applicazione dell’art. 10, comma 3, cod. proc. pen. Quest’ultima disposizione rinvia, per la determinazione del giudice competente, ai precedenti artt. 8 e 9. Stante l’inapplicabilità dell’art. 8 cod. proc. pen., sarebbe in questo caso pertinente l’art. 9, comma 1, cod. proc. pen., a tenore del quale sarebbe competente «il giudice dell’ultimo luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione», intendendosi per tale un «luogo» che sia parte del territorio italiano: e dunque il luogo in cui è avvenuto l’attraversamento della frontiera.

Nemmeno questa eccezione è fondata.

Non può in effetti ritenersi implausibile la competenza del Tribunale di Milano, in applicazione delle regole suppletive indicate dall’art. 9, commi 2 e 3, cod. proc. pen., non emergendo con evidenza dagli atti di causa l’ultimo luogo in cui sarebbe avvenuta una parte dell’azione ai sensi dell’art. 9, comma 1, cod. proc. pen. Non può pertanto affermarsi che il difetto di competenza del giudice a quo sia rilevabile ictu oculi da questa Corte, come sarebbe invece necessario ai fini della dichiarazione di inammissibilità delle questioni sollevate (negli stessi termini, sentenza n. 135 del 2024 e precedenti ivi citati).

4.– Ai fini dell’esame del merito delle questioni prospettate, occorre anzitutto precisarne l’oggetto.

4.1.– La difesa della parte ha, in particolare nella memoria illustrativa e nella discussione orale, argomentato che l’odierna ordinanza di rimessione porrebbe problemi giuridici nuovi e, comunque, diversi da quelli già affrontati nelle precedenti sentenze n. 242 del 2019 e n. 135 del 2024. Essi si riferirebbero alla specifica situazione di pazienti «con prognosi infausta a breve termine» ai sensi dell’art. 2, comma 2, della legge n. 219 del 2017, rispetto ai quali non sarebbero (ancora) medicalmente indicati trattamenti di sostegno vitale, né la sedazione palliativa profonda continua (che presuppone, ai sensi del secondo periodo dello stesso art. 2, comma 2, della legge n. 219 del 2017, la presenza di «sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari»).

Tali pazienti, tra i quali si annoverano quelli affetti da patologie oncologiche in stato avanzato, potrebbero ormai – secondo la difesa della parte – essere trattati soltanto attraverso terapie palliative, stante tra l’altro il divieto – posto dalla citata disposizione – di «ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure» e di «ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati».

Sarebbe quindi irragionevole costringere tali pazienti ad attendere, per accedere al suicidio assistito, il momento in cui l’avanzare della malattia renda indicata l’attivazione di trattamenti di sostegno vitale.

Conseguentemente, la medesima ratio che sorregge la sentenza n. 242 del 2019 dovrebbe indurre questa Corte a riconoscere una nuova e diversa ipotesi di non punibilità dell’aiuto al suicidio, caratterizzata dalla presenza, oltre che dei requisiti "procedurali”, dei tre requisiti sostanziali della patologia irreversibile, delle sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili e della capacità di assumere decisioni libere e consapevoli, di un ulteriore requisito alternativo rispetto all’essere il paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, rappresentato – per l’appunto – dalla «prognosi infausta a breve termine».

In questa situazione, infatti, il paziente avrebbe il diritto di rifiutare le terapie palliative, unicamente finalizzate a lenire i sintomi della malattia, e di decidere invece di concludere subito la vita secondo la propria visione della dignità personale.

4.2.– La prospettazione appena riferita non corrisponde, tuttavia, a quella articolata nell’ordinanza di rimessione: la quale non auspica che al requisito dell’essere il paziente tenuto in vita da un trattamento di sostegno vitale sia affiancato quello, alternativo, della prognosi infausta a breve termine; ma argomenta, invece, nel senso della necessità di eliminare tout court il requisito della dipendenza da trattamento di sostegno vitale. Ciò in quanto tale requisito non consentirebbe – irragionevolmente, a giudizio del rimettente – l’accesso al suicidio assistito di pazienti che abbiano rifiutato un trattamento di sostegno vitale, ritenendolo inutile o sproporzionato.

Questa Corte è tenuta, dunque, a fornire risposta unicamente alle censure formulate nell’ordinanza di rimessione, che sono del resto assai precise nell’individuazione del requisito relativo al trattamento di sostegno vitale, risultante dall’integrazione dell’art. 580 cod. pen. operata dalla precedente sentenza n. 242 del 2019, del quale si chiede la radicale ablazione.

5.– Tali censure ruotano attorno al presupposto interpretativo secondo cui l’area di non punibilità sancita dalla sentenza n. 242 del 2019 non si estenderebbe alla situazione in cui il paziente rifiuti l’attivazione di un trattamento di sostegno vitale, pur in presenza di una indicazione medica in tal senso, in quanto da lui ritenuto «futile» o comunque «espressivo di accanimento terapeutico».

Questo presupposto ermeneutico, tuttavia, non è corretto, alla luce di quanto espressamente argomentato nella sentenza n. 135 del 2024.

5.1.– Al punto 7.2. del Considerato in diritto di tale pronuncia, questa Corte ha in effetti replicato a un argomento dell’allora rimettente, il quale già lamentava che il requisito in parola condizionasse «in modo perverso» l’esercizio del diritto all’autodeterminazione del paziente, inducendolo «ad accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale, magari anche fortemente invasivi, che altrimenti avrebbe rifiutato, al solo fine di creare le condizioni per l’accesso al suicidio assistito».

«In senso contrario» si è osservato, in quell’occasione, che «il diritto fondamentale scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., di fronte al quale questa Corte ha ritenuto non giustificabile sul piano costituzionale un divieto assoluto di aiuto al suicidio, comprende anche – prima ancora del diritto a interrompere i trattamenti sanitari in corso, benché necessari alla sopravvivenza – quello di rifiutare ab origine l’attivazione dei trattamenti stessi. Dal punto di vista costituzionale, non vi può essere, dunque, distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può pretendere l’interruzione, e quella del paziente che, per sopravvivere, necessiti, in base a valutazione medica, dell’attivazione di simili trattamenti, che però può rifiutare: nell’uno e nell’altro caso, la Costituzione e, in ossequio ad essa, la legge ordinaria (art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017) riconoscono al malato il diritto di scegliere di congedarsi dalla vita con effetti vincolanti nei confronti dei terzi».

Di qui la conclusione: «[n]on c’è dubbio, pertanto, che i principi affermati nella sentenza n. 242 del 2019 valgano per entrambe le ipotesi. Sarebbe, del resto, paradossale che il paziente debba accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale solo per interromperli quanto prima, essendo la sua volontà quella di accedere al suicidio assistito».

5.2.– Queste affermazioni meritano, oggi, integrale conferma. Conseguentemente, nella misura in cui sussista una indicazione medica di necessità dell’attivazione di un trattamento di sostegno vitale – nel senso precisato dalla sentenza n. 135 del 2024, al punto 8 del Considerato in diritto –, il paziente può rifiutarlo e accedere al suicidio assistito, ovviamente laddove sussistano tutti gli altri requisiti sostanziali e procedurali indicati dalla sentenza n. 242 del 2019.

Spetterà dunque al giudice a quo valutare se la situazione descritta sussistesse rispetto ai due pazienti il cui suicidio sarebbe stato agevolato dall’indagato.

6.– Ciò precisato, le censure del rimettente debbono essere ritenute infondate, sostanzialmente per le medesime ragioni poste a base della sentenza n. 135 del 2024, che questa Corte ritiene di dovere qui integralmente confermare.

6.1.– A proposito dell’asserita lesione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., il rimettente considera irragionevole la disparità di disciplina tra il paziente che abbia accesso al suicidio assistito, essendo già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, e quello che invece tali trattamenti abbia rifiutato, nonostante un’indicazione medica in tal senso, ritenendoli comunque futili o espressivi di accanimento terapeutico.

In realtà, la lamentata disparità non sussiste, ove si consideri che anche nella seconda situazione il paziente ben può rifiutare il trattamento indicato quale clinicamente necessario per l’espletamento delle sue funzioni vitali, trovandosi così anch’egli nella condizione di avere accesso al suicidio assistito.

Laddove invece il paziente non si trovi in tale condizione e decida di rifiutare trattamenti (terapeutici o palliativi) che non possono essere considerati «necessar[i] ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente» – in quanto l’omissione o interruzione degli stessi non «determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo» – la diversità di disciplina rispetto ai pazienti che hanno accesso al suicidio assistito dovrà essere considerata non irragionevole, per le medesime considerazioni già esplicitate da questa Corte nella sentenza n. 135 del 2024 (punto 7.1. del Considerato in diritto) in riferimento alla censura di violazione dell’art. 3 Cost. allora formulata.

In assenza di un trattamento di sostegno vitale in atto, o almeno di un’indicazione medica relativa alla necessità di attivare un simile trattamento, il paziente non si trova ancora nella condizione di poter optare per la propria morte sulla base della legge n. 219 del 2017, rifiutando (rispettivamente) la prosecuzione o la stessa attivazione di un tale trattamento. Pertanto, la sua situazione non è assimilabile a quella di un paziente la cui vita dipenda, ormai, dal trattamento in questione; il che rende costituzionalmente non censurabile, al metro dell’art. 3 Cost., la diversa disciplina prevista per le due ipotesi.

6.2.– Quanto all’asserita lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente fondato sugli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., essa parimenti sussisterebbe – nella prospettazione del giudice a quo – in relazione alla circostanza che la disciplina oggi vigente costringerebbe il paziente a sottoporsi al trattamento di sostegno vitale al solo scopo di poterlo poi legittimamente rifiutare e accedere, così, al suicidio assistito; ciò che finirebbe per imporre al paziente un’unica modalità di congedarsi dalla vita.

Anche in questo caso, l’argomento è in radice viziato dall’erroneo presupposto di cui si è detto, non essendo affatto necessario – ai fini dell’accesso al suicidio assistito – che il paziente inizi il trattamento di sostegno vitale giudicato necessario dal medico, per poi chiedere di interromperlo.

In assenza di una tale indicazione medica, non possono in questa sede che reiterarsi le considerazioni già svolte dalla sentenza n. 135 del 2024 (punto 7.2. del Considerato in diritto) in relazione al significativo margine di discrezionalità che questa Corte ha riconosciuto al legislatore nel bilanciamento tra il dovere di tutela della vita umana, discendente dall’art. 2 Cost., e il principio dell’«autonomia» del paziente «nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, e che è a sua volta un aspetto del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona». Tale margine di discrezionalità rende costituzionalmente non obbligata la scelta – non preclusa, in ipotesi, al legislatore, laddove appresti le necessarie garanzie contro i rischi di abuso e di abbandono del malato di cui meglio si dirà più innanzi – di consentire l’accesso al suicidio assistito anche a pazienti capaci di assumere decisioni libere e responsabili, affetti da patologie irreversibili che cagionino loro sofferenze intollerabili, ma le cui funzioni vitali non dipendano da trattamenti di sostegno vitale.

6.3.– Infine, quanto alle censure concernenti la lamentata violazione, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., degli artt. 8 e 14 CEDU, esse, per un verso, devono essere dichiarate non fondate nella misura in cui assumono a presupposto l’impossibilità di equiparare l’effettiva sottoposizione a un trattamento medico di sostegno vitale al rifiuto dello stesso, pur in presenza di una valutazione medica relativa alla sua necessità nel caso concreto.

Per altro verso, nella misura in cui le censure in parola mirino a estendere la non punibilità dell’aiuto al suicidio oltre tale ultima ipotesi, esse devono essere giudicate non fondate sulla base della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, 13 giugno 2024, Dániel Karsai, contro Ungheria: pronuncia non esaminata dal rimettente, ma ampiamente ripresa da questa Corte nella sentenza n. 135 del 2024 (punto 7.4. del Considerato in diritto). In tale pronuncia – da cui questa Corte non ha ritenuto, nella sentenza n. 135 del 2024, di discostarsi – la Corte EDU riconosce agli Stati parte un considerevole margine di apprezzamento nel bilanciare il diritto alla vita privata – necessariamente coinvolto dalla decisione su come e quando morire – e le ragioni di tutela della vita umana, anche in ragione della persistente assenza di un consenso in materia tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa.

«Né, infine», si è parimenti rilevato nella sentenza n. 135 del 2024, con considerazioni che qui non possono che reiterarsi, «può essere ravvisato un contrasto con il divieto di discriminazione ai sensi dell’art. 14 CEDU. Per le medesime ragioni già illustrate a proposito della censura formulata in riferimento all’art. 3 Cost. […], non può infatti ritenersi irragionevole la limitazione della liceità dell’aiuto al suicidio ai soli pazienti che abbiano già la possibilità, in forza del diritto costituzionale, di porre fine alla loro esistenza rifiutando i trattamenti di sostegno vitale».

6.4.– Da tutto ciò discende la non fondatezza delle questioni prospettate.

7.– Appare, peraltro, anche in questa occasione opportuno ribadire il carattere essenziale che rivestono i requisiti e le condizioni procedurali per la non punibilità dell’aiuto al suicidio cui ha fatto riferimento la giurisprudenza di questa Corte. Essi, nella perdurante assenza di una legislazione che disciplini la materia, sono funzionali a creare una "cintura di protezione” per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio assistito «subiscano interferenze di ogni genere» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto).

Anche nel contesto del pluralismo etico che caratterizza una democrazia liberale, solo «una concezione astratta dell’autonomia individuale» (ordinanza n. 207 del 2018) del soggetto, nel senso etimologico di abs-tractus (ovvero tratto fuori, in forza di una visione individualistica assoluta, dal contesto sociale), può rivelarsi insensibile a questa preoccupazione: se l’autodeterminazione, infatti, è costretta o comunque condizionata dalle circostanze, allora non è più tale.

È proprio la tutela della libertà di autodeterminazione a giustificarne, innanzitutto affinché sia genuina e responsabile, il bilanciamento con il dovere dello Stato di tutela della vita, la quale «si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona» (sentenze n. 135 del 2024, punto 5.1. del Considerato in diritto, e n. 50 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto, la quale precisa, poi, al punto 5.3.: «[q]uando viene in rilievo il bene della vita umana, dunque, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima»).

Si tratta dunque di una prospettiva radicalmente diversa da quella che animava la ratio originaria della punizione dell’aiuto al suicidio prevista dall’art. 580 cod. pen., rivolta a «tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile, anche in funzione dell’interesse che la collettività riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto).

Dal principio personalista di cui all’art. 2 Cost. non si ricava quindi il dovere di vivere cui si rifaceva l’originaria ratio dell’art. 580 cod. pen., bensì, rovesciando la prospettiva, il preciso «dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo» (ordinanza n. 207 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto).

In definitiva, se l’autodeterminazione della persona «evoca l’idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte», tale nozione deve essere sottoposta «a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana; bilanciamento nell’operare il quale il legislatore deve poter disporre, ad avviso di questa Corte, di un significativo margine di apprezzamento» (sentenza n. 135 del 2024, punto 7.3. del Considerato in diritto).

Del resto, l’affermazione del dovere dello Stato di tutelare la vita umana è stata alla base anche della recente decisione di inammissibilità di un referendum abrogativo che mirava a rendere lecito l’omicidio del consenziente (sentenza n. 50 del 2022), «il cui esito positivo sarebbe stato quello di lasciare la vita umana in una situazione di insufficiente protezione, in contrasto con gli obblighi costituzionali e convenzionali menzionati» (sentenza n. 135 del 2024, punto 5.1. del Considerato in diritto).

È proprio in tale prospettiva che la giurisprudenza di questa Corte ha sviluppato, su un duplice livello, le condizioni per accedere al suicidio assistito, dato che se questo, per un verso, «amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona nel decidere liberamente sul proprio destino», «crea – al tempo stesso – rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che, esso pure, discende dall’art. 2 Cost.» (sentenza n. 135 del 2024, punto 7.2. del Considerato in diritto).

7.1.– Il primo livello attiene alla necessità di prevenire il pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili, perché in situazioni di fragilità e sofferenza la scelta di porre fine alla propria vita potrebbe essere indotta o sollecitata da terze persone, per le ragioni più diverse.

Bisogna considerare, infatti, la situazione delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare, magari per ragioni di personale tornaconto, all’esecuzione di una loro scelta suicidaria (ordinanza n. 207 del 2018, punto 6 del Considerato in diritto).

Non marginale è poi il rischio che la richiesta di accesso al suicidio assistito costituisca una scelta non sufficientemente meditata, come ha recentemente rilevato la Corte EDU (sentenza Karsai, paragrafo 151), sottolineando altresì come l’accertamento della genuinità della richiesta del paziente divenga particolarmente difficoltoso in determinate situazioni cliniche, come nelle patologie neurodegenerative.

Sono quindi le esigenze di tutela delle persone deboli e vulnerabili che danno rilievo alle precise condizioni procedurali costantemente ribadite da questa Corte (sentenze n. 135 del 2024 e n. 242 del 2019, ordinanza n. 207 del 2018).

La «procedura medicalizzata», di cui all’art. 1 della legge n. 219 del 2017, è infatti funzionale a garantire che l’accesso al suicidio assistito avvenga nell’ambito di una seria assistenza medica; in sua assenza la patologia non può essere inquadrata in modo adeguato e la prospettiva della morte come unica via di uscita potrebbe essere frutto di un irrimediabile abbaglio.

In questo contesto assume grande importanza la concreta messa a disposizione di un percorso di cure palliative, che configura «un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente» (sentenza n. 242 del 2019 e ordinanza n. 207 del 2018).

Infatti, il contatto con sanitari e con una struttura effettivamente in grado di assicurare la tempestiva attivazione di terapie palliative può garantire il diritto dei pazienti a ricevere informazioni complete sul loro percorso di cura e permettere a ogni persona l’opportunità di confrontarsi con la malattia e con l’ultimo tratto del cammino di vita in maniera dignitosa e libera da sofferenze, anche nella prospettiva di prevenire e ridurre in misura molto rilevante la domanda di suicidio assistito.

L’altra condizione è quella del necessario coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale, a garanzia di un disinteressato accertamento della sussistenza dei requisiti di liceità dell’accesso alla procedura di suicidio assistito.

Infine, in attesa di un organico intervento del legislatore – che ben potrebbe individuare strutture più calibrate, dal punto di vista delle competenze di etica clinica –, un’ulteriore condizione è quella del necessario parere del comitato etico territorialmente competente, funzionale anche alla specifica esigenza di ottenere un parere terzo in relazione alla domanda di accesso al suicidio assistito.

7.2.– Il secondo livello è quello di contrastare derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso.

I rischi in questione, infatti, «non riguardano solo la possibilità che vengano compiute condotte apertamente abusive da parte di terzi a danno della singola persona che compia la scelta di porre termine alla propria esistenza, ma riguardano anche – come si è osservato (Corte suprema del Regno Unito, Nicklinson e altri, paragrafo 228) – la possibilità che, in presenza di una legislazione permissiva non accompagnata dalle necessarie garanzie sostanziali e procedimentali, si crei una "pressione sociale indiretta” su altre persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte» (sentenza n. 135 del 2024, punto 7.2. del Considerato in diritto).

In un contesto storico caratterizzato da tensioni sull’allocazione delle risorse pubbliche, il cosiddetto "diritto di morire” rivendicato in alcune circostanze potrebbe essere paradossalmente percepito dal malato come un "dovere di morire” per non "essere di peso”, con un grave abbassamento della sensibilità morale collettiva che tutela le persone più fragili, spesso, peraltro, "invisibili”.

Tale scivolamento colliderebbe frontalmente con il principio personalista che anima la Costituzione italiana.

Da questo principio deriva, invece, il dovere della Repubblica di rispondere all’appello che sgorga dalla fragilità, in modo che una persona malata possa avvertire la solidarietà attorno a sé non a tratti, non a prolungate intermittenze, ma in via continuativa, attraverso un percorso di effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociale.

Diventa quindi cruciale garantire adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte. È inoltre rilevante mettere a disposizione delle persone con malattie inguaribili tutti gli strumenti tecnologici e informatici che permettono loro di superare l’isolamento e ampliare la possibilità di comunicazione e interazione con gli altri. Al tempo stesso non può essere trascurato il "prendersi cura” anche di coloro che, nelle famiglie o all’interno delle relazioni affettive, assistono i pazienti in situazioni particolarmente difficili e per lunghi periodi.

7.3.– Già nell’ordinanza n. 207 del 2018 questa Corte aveva, peraltro, stigmatizzato il rischio di una «prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative» (punto 10 del Considerato in diritto), del resto inserite nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza.

Va evidenziato che, a oggi, in Italia: a) non è garantito un accesso universale ed equo alle cure palliative nei vari contesti sanitari, sia domiciliari che ospedalieri; b) vi sono spesso lunghe liste di attesa (intollerabili in relazione a chi versa in situazioni di grave sofferenza); c) si sconta una mancanza di personale adeguatamente formato e una distribuzione territoriale dell’offerta troppo divaricata (in tal senso Comitato nazionale per la bioetica, parere "Cure Palliative”, approvato il 14 dicembre 2023); d) la stessa effettiva presa in carico da parte del servizio sociosanitario, per queste persone, è a volte insufficiente.

Questa Corte, pertanto, non può che rinnovare, con decisione, lo «stringente appello» al legislatore (sentenza n. 135 del 2024, punto 10 del Considerato in diritto) affinché dia corso a un adeguato sviluppo delle reti di cure palliative e di una effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociosanitario, al fine di evitare un ricorso improprio al suicidio assistito.

8.– Va, infine, ribadito con forza l’auspicio, già formulato nell’ordinanza n. 207 del 2018, nella sentenza n. 242 del 2019 e da ultimo nella sentenza n. 135 del 2024, che il legislatore e il Servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione a quanto stabilito dalla sentenza n. 242 del 2019, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina nel rispetto delle esigenze richiamate ancora una volta dalla presente pronuncia.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 32, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 marzo 2025.

F.to:

Giovanni AMOROSO, Presidente

Francesco VIGANÒ

Luca ANTONINI, Redattori

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 20 maggio 2025

 

 

Allegato:

Ordinanza letta all'udienza del 26 marzo 2025

ORDINANZA

Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 580 del codice penale, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano, con ordinanza del 21 giugno 2024, iscritta al numero 164 del registro ordinanze 2024, e pubblicata nel numero 38 della Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, dell'anno 2024.

Rilevato che, in data 8 ottobre 2024, hanno depositato atto di intervento D. M., P. F., M.L. R. e L. M., persone che deducono di essere capaci di assumere decisioni libere e autonome e affette da patologie irreversibili, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, finora sopportate anche grazie all'assistenza delle persone a loro vicine e dei sanitari, e che precisano di non essere soggette a trattamenti di sostegno vitale, nei sensi di cui alla sentenza n. 135 del 2024 di questa Corte;

che, in particolare, a sostegno della propria legittimazione, gli intervenienti assumono: a) di essere titolari di un interesse qualificato a che l'ordinamento continui a conservare il suddetto requisito, posto a presidio del loro diritto alla vita; b) che, in assenza dello stesso, sarebbe per loro concreto il rischio di «essere indotti ad una richiesta "anticonservativa"» di aiuto al suicidio, che equivarrebbe «ad una sorta di annichilazione del loro valore personale e, comunque, ad una mera, individuale disposizione della propria esistenza»; c) che l'evenienza da ultimo ipotizzata «rischierebbe di non consentire loro, in pratica, di far valere in tempo utile le proprie ragioni»; d) che altrettanto immediata e diretta sarebbe l'incidenza, sul loro diritto alla dignità personale, di una pronuncia di fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, poiché essi «si vedrebbero destinatari da parte dell'ordinamento di un giudizio di minor valore della propria vita rispetto a quella degli altri consociati»; e) che non avrebbero altra sede processuale a cui accedere per la tutela dei propri diritti.

Considerato che D. M., P. F., M.L. R. e L. M. non sono parti del giudizio principale;

che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze allegate alle sentenze n. 39 del 2024, n. 130 del 2023 e n. 158 del 2020), la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale);

che, in questo ambito, l'intervento di soggetti estranei al giudizio principale è ammissibile soltanto quando si tratti di terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio (art. 4, comma 3, delle Norme integrative) e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura (ex plurimis, ordinanze allegate alle sentenze n. 39 e n. 22 del 2024, n. 206 del 2019);

che l'intervento è, quindi, normalmente ammissibile solo nell'ipotesi in cui l'incidenza sulla posizione soggettiva dell'interveniente non derivi, come per tutte le altre situazioni sostanziali disciplinate dalla norma censurata, dalla pronuncia sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma sia conseguenza immediata e diretta dell'effetto che la pronuncia di questa Corte produrrebbe sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo (ex plurimis, ordinanze allegate alle sentenze n. 135 e n. 22 del 2024, n. 130 del 2023 e n. 210 del 2021);

che questa Corte, in un giudizio di legittimità costituzionale sullo stesso art. 580 cod. pen., ha ammesso l'intervento di due persone, pur estranee al giudizio principale, in quanto «l'evoluzione delle rispettive patologie rischierebbe di non consentire loro, in pratica, di far valere in tempo utile le proprie ragioni» in relazione a questioni che, coinvolgendo «la vita stessa» delle intervenienti, richiedevano a questa Corte in particolar modo di «assicurare tutela al diritto di difesa nella sua essenziale dimensione di effettività» (ordinanza allegata alla sentenza n. 135 del 2024);

che, in ragione della patologia da cui ognuno degli intervenienti è affetto, anche le questioni di legittimità costituzionale in esame coinvolgono problematiche attinenti alla vita e alle personalissime decisioni intorno a essa;

che, nella prospettiva, già richiamata, di assicurare tutela al diritto di difesa, la peculiare posizione degli intervenienti trova in questo giudizio incidentale l'unica sede per essere fatta valere;

che, pertanto, D. M., P. F., M.L. R. e L. M. sono legittimati a partecipare al presente giudizio.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara ammissibili gli interventi spiegati da D. M., P. F., M.L. R. e L. M.

F.to: Giovanni Amoroso, Presidente


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