Sentenza n. 152 del 2024

SENTENZA N. 152

ANNO 2024

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta da:

Presidente: Augusto Antonio BARBERA;

Giudici: Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, lettera b), della legge della Regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 6 (Riforma del sistema amministrativo regionale e locale. Unione europea e relazioni internazionali. Innovazione e semplificazione. Rapporti con l’Università), in «combinato disposto» con gli artt. 25 e 29 della legge della Regione Emilia-Romagna 27 maggio 1994, n. 24 (Disciplina delle nomine di competenza regionale e della proroga degli organi amministrativi. Disposizioni sull’organizzazione regionale), promosso dal Consiglio di Stato, sezione sesta, nel procedimento vertente tra la Regione Emilia-Romagna e M. B. e altri, con ordinanza del 5 dicembre 2023, iscritta al n. 9 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2024.

Visti gli atti di costituzione della Regione Emilia-Romagna e di M. B. e altri;

udita nell’udienza pubblica del 21 maggio 2024 la Giudice relatrice Emanuela Navarretta;

uditi gli avvocati Maria Chiara Lista per la Regione Emilia-Romagna e Domenico Fata per M. B. e altri;

deliberato nella camera di consiglio del 21 maggio 2024.

Ritenuto in fatto

1.– Con l’ordinanza del 5 dicembre 2023 (reg. ord. n. 9 del 2024), il Consiglio di Stato, sezione sesta, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, lettera b), della legge della Regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 6 (Riforma del sistema amministrativo regionale e locale. Unione europea e relazioni internazionali. Innovazione e semplificazione. Rapporti con l’Università), «nel suo combinato disposto con gli artt. 25 e 29 della legge della Regione Emilia-Romagna 27 maggio 1994, n. 24» (Disciplina delle nomine di competenza regionale e della proroga degli organi amministrativi. Disposizioni sull’organizzazione regionale), per violazione degli artt. 3, 9 e 117, secondo comma, lettere l) ed s), della Costituzione.

2.– In punto di fatto, il rimettente riferisce che, con ricorso notificato il 24 ottobre 2022, M. B., S. B., F. G., M. P., F. B., V. B., S. B. e O. T.– partecipanti e consiglieri della Partecipanza agraria di Cento – impugnavano, dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, il decreto del Presidente della Giunta della Regione Emilia-Romagna, 11 ottobre 2022, n. 142.

Tale decreto aveva disposto – ai sensi degli artt. 49, comma 1, lettera b), e 50 della legge reg. Emilia-Romagna n. 6 del 2004, nonché dell’art. 29 della legge reg. Emilia-Romagna n. 24 del 1994 – lo scioglimento degli organi statutari della suddetta partecipanza agraria e la nomina del commissario straordinario, con il compito di provvedere alla gestione provvisoria dell’ente e alla convocazione delle elezioni per il rinnovo degli organi statutari. In particolare, il citato decreto veniva motivato facendo riferimento a presunte irregolarità gestionali, comprendenti la tardiva approvazione dei bilanci e la mancata verbalizzazione di deliberazioni assunte dagli organi associativi, in contrasto con lo statuto dell’ente.

Secondo quanto riporta il giudice a quo, il TAR Emilia-Romagna accoglieva il ricorso per l’annullamento del provvedimento sulla base del primo motivo dedotto, ritenendo che, «in applicazione del combinato disposto degli artt. 9, comma 1, e 10 della l. n. 62 del 1953, [fosse] “condivisibile l’assunto dei ricorrenti circa l’intervenuta abrogazione da parte della legge n. 168 del 2017 della normativa regionale in tema di vigilanza e controllo degli organi delle Partecipanze agrarie”». Dichiarava, pertanto, assorbiti gli altri motivi di censura.

Il rimettente rappresenta, di seguito, che, con ricorso notificato il 26 giugno 2023 e depositato il 27 giugno 2023, la Regione Emilia-Romagna proponeva appello, formulando plurimi motivi.

Infine, il Consiglio di Stato riferisce che nel giudizio a quo si sono costituiti gli appellati, i quali hanno riproposto le censure assorbite in primo grado, compresa l’eccezione di illegittimità costituzionale «degli artt. 49 e 50 della legge della Regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 6, nonché dell’art. 29 della legge della Regione Emilia-Romagna 27 maggio 1994, n. 24, per contrasto con gli artt. 9 e 117 c. 2 lett. s), Cost.».

3.– Così compendiate le premesse in fatto, il rimettente espone di aver accolto il primo motivo di appello, avendo escluso che «tra la disciplina regionale di che trattasi e quella statale, sopravvenuta, contenuta nella l. n. 168 del 2017 vi [fosse] assoluta incompatibilità ex art. 15 disp. prel c.c.», il che lo ha indotto a ritenere che la normativa regionale in parola «sia da considerarsi vigente e non sia stata abrogata».

Il giudice a quo rileva quindi di dover procedere «allo scrutinio dei motivi del ricorso di primo grado dichiarati assorbiti e non esaminati dal giudice di prime cure e riproposti dagli appellati, per l’ipotesi di accoglimento dell’appello, ex art. 101, comma 2, c.p.a.».

In tale contesto, il rimettente solleva – come richiesto dagli appellati – questioni di legittimità costituzionale «dell’art. 49 comma 1 lett. b) della legge della Regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 6, nel suo combinato disposto con gli artt. 25 e 29 della legge della Regione Emilia-Romagna 27 maggio 1994 n. 24, per contrasto con gli artt. 3, 9 e 117, comma 2, lett. l) e s) Cost.».

4.– Il Consiglio di Stato ritiene anzitutto che le questioni siano rilevanti, in quanto, «dopo la definizione (con il suo accoglimento) dell’appello» avverso la sentenza del TAR, la riconosciuta, persistente vigenza delle norme censurate renderebbe necessaria la loro applicazione al caso in esame.

Esclude inoltre che vi siano margini per esperire un tentativo di interpretazione conforme della disciplina regionale in scrutinio, stante il «chiaro ed inequivoco tenore letterale» delle disposizioni che recano le norme censurate.

5.– Passando a esaminare la non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente premette che la materia dei controlli pubblici sul funzionamento degli organi statutari delle partecipanze agrarie (e, in generale, degli enti esponenziali delle collettività titolari di diritti di uso civico e di proprietà collettive) si colloca al crocevia di una pluralità di competenze legislative, statali e regionali, anche a carattere trasversale.

5.1.– In particolare, alla luce delle previsioni dettate dalla legge 20 novembre 2017, n. 168 (Norme in materia di domini collettivi), ritiene che verrebbe, anzitutto, in rilievo la materia «ordinamento civile», di esclusiva competenza legislativa statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

Richiama, in proposito, la giurisprudenza di questa Corte che ha ricondotto a tale materia il regime dominicale degli usi civici e delle proprietà collettive (vengono menzionate le sentenze n. 236 del 2022 e n. 113 del 2018).

Evoca, inoltre, quei segmenti della giurisprudenza costituzionale, in cui questa Corte, da un lato, avrebbe evidenziato «la permanenza di funzioni amministrative, anche di controllo, delegate», alle stesse regioni, ai sensi dell’art. 66, comma quarto, del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382) e, da un altro lato, avrebbe precisato che la «delega si limita, per l’appunto, alle funzioni amministrative e, dunque, non consente alle Regioni di disciplinare i presupposti sostanziali dei diversi meccanismi e, invero, nemmeno di intervenire sui relativi procedimenti, ove il [distacco dal] modello delineato dal legislatore statale finisca per tradursi in un diverso modo di incidere sul regime giuridico di tali beni, operante solo nella singola regione» (è richiamata, ancora, la sentenza n. 236 del 2022).

Il giudice a quo ritiene, in particolare, che «quantomeno i “presupposti sostanziali” di attivazione ed esercizio delle funzioni amministrative (tra cui quelle di controllo) in subiecta materia, in quanto intimamente connessi con lo statuto giuridico privatistico dell’ente, ricadano nell’ambito dell’“ordinamento civile” e siano da riservare, come tali, alla legislazione statuale».

A fronte di tale rilievo osserva che l’art. 49, comma 1, lettera b), della legge reg. Emilia-Romagna n. 6 del 2004 avrebbe introdotto non solo un inedito limite alla «capacità di autonormazione» e di «gestione del patrimonio», garantite dalla legge n. 168 del 2017 agli enti esponenziali dei domini collettivi, ma anche una «forma di sindacato (amministrativo) sulla sua attività alternativo a quello, previsto dal diritto comune, in tema di associazioni (artt. 21 e 23 c.c.)».

Similmente, deduce che la medesima norma regionale avrebbe delineato una peculiare ipotesi di decadenza coattiva degli organi dell’ente esponenziale della collettività, intervenendo direttamente sulla vita e sul funzionamento interno degli enti esponenziali in questione, operando una scelta irragionevole, sproporzionata e non rispettosa dello spirito della riforma dei domini collettivi. Ciò sarebbe avvenuto in forza della norma disposta dallo stesso art. 49, comma 1, lettera b), della citata legge regionale, ove si fa salva la «eventuale applicazione del titolo III, capo II, della legge regionale n. 24 del 1994» alle partecipanze agrarie e, segnatamente, dell’art. 29, comma 1, di quella stessa legge (in materia di «[c]ontrolli sostitutivi»).

5.2.– Il Consiglio di Stato sostiene, di seguito, che le norme censurate violerebbero anche la competenza legislativa esclusiva statale nella materia «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

Sul punto, il rimettente osserva che la legge n. 168 del 2017 ha «spostato l’asse di disciplina da un approccio eminentemente economico-produttivo (quale quello che ne giustificava l’attrazione, nel vecchio assetto del Titolo V della Costituzione, alla materia della “agricoltura e foreste”) ad uno che è anche di tutela paesaggistico-ambientale, animato dalla finalità di preservare quelle proprietà a favore delle generazioni future», in linea con la nuova formulazione dell’art. 9, terzo comma, Cost., come da ultimo novellato dalla legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1 (Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell’ambiente).

Il giudice a quo ritiene che vi sarebbero «aspetti di indefettibile sovrapposizione funzionale e strutturale tra la tutela paesistico-ambientale e quella dominicale dei beni di uso civico» (è richiamata ancora la sentenza n. 113 del 2018 di questa Corte) e che intervenire sul funzionamento dell’ente, cui è affidata «detta funzione composita», equivarrebbe a «condizionare mediatamente il disbrigo di quest’ultima, così invadendo una sfera di appannaggio esclusivo della normativa statale».

5.3.– Da ultimo, pur concedendo che «resta comunque fermo in capo alle Regioni a statuto ordinario, con riguardo agli usi civici, il titolo competenziale in materia di “agricoltura”», il Consiglio di Stato osserva che la stessa giurisprudenza costituzionale avrebbe precisato «come “nell’intero arco temporale di vigenza del Titolo V, Parte II, della Costituzione – sia nella versione antecedente alla [legge costituzionale] 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), sia in quella successiva – e, quindi, neppure a seguito dei D.P.R. n. 11 del 1972 e D.P.R. n. 616 del 1977 [...], il regime civilistico dei beni civici sia mai passato nella sfera di competenza delle Regioni. Infatti, la materia “agricoltura e foreste” di cui al previgente art. 117 Cost., che giustificava il trasferimento delle funzioni amministrative alle Regioni e l’inserimento degli usi civici nei relativi statuti, mai avrebbe potuto comprendere la disciplina della titolarità e dell’esercizio di diritti dominicali sulle terre civiche”» (è citata di nuovo la sentenza n. 113 del 2018).

6.– Con atto depositato il 23 febbraio 2024, si è costituita in giudizio la Regione Emilia-Romagna, eccependo l’inammissibilità e la manifesta infondatezza delle questioni sollevate.

6.1.– La difesa regionale anzitutto si sofferma sulle ragioni che avrebbero determinato la Regione a disporre lo scioglimento degli organi statutari della partecipanza agraria e la nomina del commissario straordinario, riferendo di una situazione «fortemente compromessa».

Tra le «rilevanti illegittimità» che sarebbero state perpetrate viene, in particolare, richiamato il rifiuto da parte degli organi della partecipanza di trasmettere alla Regione, ai fini del controllo preventivo, il «nuovo “Regolamento di divisione dei capi” (terreni) adottato con quattro modifiche introdotte nel 2020», il quale – sempre a quanto riferisce la difesa regionale – conterrebbe «disposizioni contrastanti con lo Statuto della Partecipanza e con il divieto di ripartire tra i singoli membri della collettività beneficiaria di diritti di uso civico, i proventi della gestione dei beni a cui tali diritti ineriscono» (viene richiamato, in proposito, il regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332, recante «Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici nel Regno»).

La difesa della Regione riferisce inoltre che, a seguito di «violazioni plateali delle competenze fra gli Organi» e di altre ripetute irregolarità, aveva provveduto a disporre lo scioglimento degli organi della partecipanza agraria e alla nomina di un commissario straordinario, che avrebbe operato per circa otto mesi, portando a termine una serie di adempimenti indifferibili.

Infine, espone che, a seguito della sentenza del TAR che ha annullato i provvedimenti regionali, l’ente sarebbe stato riconsegnato «nelle mani dei ricorrenti vittoriosi», che avrebbero dovuto procedere a una nuova elezione degli organi, dopodiché l’accoglimento del primo motivo di appello da parte del Consiglio di Stato avrebbe, invece, confermato la legittimità dei provvedimenti regionali impugnati.

6.2.– Così compendiato il contesto di fatto e di diritto che fa da sfondo alle odierne questioni di legittimità costituzionale, la Regione ritiene che le censure sollevate in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere l) ed s), Cost. siano manifestamente infondate.

6.2.1.– La difesa regionale mostra di condividere l’assunto, da cui muove anche il rimettente, per cui non competerebbe alla Regione «legiferare sull’ordinamento degli Enti di gestione delle proprietà collettive». Tuttavia, ritiene che la Regione non avrebbe mai dettato regole concernenti «[l]’ordinamento degli Enti del settore […] se non per organizzare le proprie attività nell’ambito delle funzioni trasferite, come per ogni altra materia, in applicazione del previgente art. 117 Cost.». Ad avviso della difesa regionale, le norme censurate atterrebbero al profilo del «controllo pubblico su tali Istituzioni, in ragione della qualificazione “latamente pubblicistica degli interessi su cui incide l’attività dagli stessi esercitata”» (è richiamata in tal senso Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 10 gennaio 2003, n. 1912).

6.2.2.– Di seguito, la difesa regionale ricostruisce la sequenza normativa con cui si sarebbe determinata l’attribuzione alle regioni di competenze delegate nella materia de qua, soffermandosi in particolare sul quadro normativo che disciplina le partecipanze agrarie e sui compiti di tutela e vigilanza esercitati prima dagli organi statali e poi dalle regioni. Conclude, dunque, nel senso che non vi sarebbero «mai stati dubbi sull’assoggettamento di tali Enti ai medesimi controlli previsti per gli Enti locali», e che l’attribuzione a essi della personalità di diritto privato ai sensi della legge n. 168 del 2017 non avrebbe mutato la portata delle norme applicabili.

In particolare, insiste sulla permanente vigenza della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l’art. 26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall’art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751) e del relativo regolamento esecutivo r.d. n. 332 del 1928, come peraltro prospettato dallo stesso rimettente in ossequio ai recenti pronunciamenti della Corte di cassazione e di questa Corte (vengono richiamate Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 10 maggio 2023, n. 12570 e la sentenza di questa Corte n. 119 del 2023, delle quali la difesa regionale riporta ampi stralci).

Peraltro, ad avviso della Regione, anche se la legge n. 168 del 2017 avesse modificato la normativa sui controlli, la relativa disciplina regionale si rivelerebbe «assolutamente conforme a quella statale sulle persone giuridiche, secondo la quale i soggetti privati che per scopo istituzionale gestiscono un patrimonio del quale i beneficiari possono godere, ma non disporre, s[arebbero] soggetti, a tutela di questo, ai controlli amministrativi di cui all’art. 25 cod. civ.».

La Regione ritiene dunque che «le Partecipanze e gli altri Enti gestori di proprietà collettive siano ancora soggetti ai controlli previsti dalle leggi dello Stato» e che «la Regione possa attribuire ancora vigenza ed operatività alla disciplina delle funzioni che esercita per delega». In tal senso, militerebbe il d.P.R. n. 616 del 1977, nella misura in cui, ad avviso della difesa regionale, avrebbe consentito alle regioni di «gestire gli usi civici nell’ambito della materia “agricoltura e foreste”» e, a monte, avrebbe trasferito alle regioni «anche le competenze sulle persone giuridiche private in tutte le materie trattate dallo stesso decreto».

6.2.3.– La difesa regionale dubita, invece, della «effettiva sottrazione delle proprietà collettive alla materia agricoltura», che sarebbe sottesa all’impostazione fatta propria dal giudice a quo. Al contrario, la stessa legge n. 168 del 2017 avrebbe continuato a individuare nello sfruttamento di risorse agro-silvo-pastorali il rapporto originario tra i beni e i titolari dei diritti ivi disciplinati. In tale quadro, la Regione ritiene che la funzione ambientale e paesaggistica, valorizzata sempre più anche nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità, non sostituirebbe, ma si affiancherebbe a quella agro-silvo-pastorale, che è tradizionalmente attribuita ai domini collettivi, e dalla quale è possibile ancora trarre un inquadramento nella materia «agricoltura».

6.3.– Di seguito, la Regione Emilia-Romagna ritiene inammissibili le questioni sollevate.

Sostiene, infatti, che le censure del rimettente non avrebbero dovuto essere riferite alle norme regionali, quanto piuttosto all’art. 14 del d.P.R. n. 616 del 1977, nella parte in cui trasferisce alle regioni il potere di controllo anche sugli enti privati di cui all’art. 12 del codice civile, nonché all’art. 66, commi quinto e sesto, del medesimo d.P.R., nella parte in cui collega tale trasferimento alla materia «agricoltura e foreste» (tramite il richiamo al decreto del Presidente della Repubblica 15 gennaio 1972, n. 11, recante «Trasferimento alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di agricoltura e foreste, di caccia e di pesca nelle acque interne e dei relativi personali ed uffici»).

Ad avviso della difesa regionale, infatti, le norme censurate sarebbero state adottate proprio sulla base di tale trasferimento e si sarebbero limitate a prevedere disposizioni organizzative dell’attività delegata, in applicazione dell’art. 117 Cost. nel testo antecedente alla riforma.

7.– Con atto depositato il 23 febbraio 2024, si sono costituiti in giudizio i signori M. B., S. B., F. G., M. P., F. B., V. B., S. B. e O. T., parti appellate nel giudizio a quo, e hanno insistito per l’accoglimento delle questioni sollevate.

7.1.– Secondo la difesa delle parti private, la legge n. 168 del 2017 avrebbe avuto un rilevante impatto sulla materia, sicché la natura stessa dei domini collettivi, il superamento della configurazione in chiave «pubblicistica che la legge n. 1766/1927 aveva loro conferito» e la riconosciuta «capacità di autonormazione» di tali enti (art. 1, comma 1, lettera b, della legge n. 168 del 2017) porterebbero a escludere che «la Partecipanza possa essere destinataria della disciplina di cui all’art. 29 l.r. 24/1994», applicabile agli enti dipendenti dalla Regione.

In particolare, sostengono che, «se anche un controllo potesse essere considerato non incongruo – alla stregua di quello che il codice civile prevede per le cooperative (art. 2545 quaterdecies c.c.) o per le Fondazioni di origine bancaria (cfr la legge Ciampi n. 461 del 1998 e il d.l. n. 28/2010) [–] questo potrebbe provenire soltanto dallo Stato – con leggi speciali – per la competenza ad esso solo ascrivibile in materia di ordinamento civile».

7.2.– Le parti private contestano, inoltre, che le norme regionali possano essere giustificate in virtù di quanto disposto dall’art. 3, comma 7, della stessa legge n. 168 del 2017, essendo tale norma – settoriale – riferita espressamente alle sole «organizzazioni montane».

7.3.– Infine, la difesa delle parti private ritiene che l’assoggettamento degli enti di cui trattasi ai poteri di vigilanza e di controllo regionali non potrebbe essere considerato espressione della competenza legislativa regionale nella materia «agricoltura e foreste», stante, da una parte, l’allontanamento dalla cultura dei controlli amministrativi dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione del 2001 e, da un’altra parte, la progressiva valorizzazione della proprietà collettiva in chiave di tutela paesaggistico-ambientale che attrae la materia in questione alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (vengono richiamate in tal senso le sentenze n. 71 del 2020 e n. 113 del 2018).

8.– Con memoria integrativa depositata il 19 aprile 2024, la parti private hanno ulteriormente insistito per l’accoglimento delle questioni sollevate.

8.1.– Esse ritengono, anzitutto, destituite di fondamento le ricostruzioni in fatto prospettate dalla Regione e insistono nel sostenere che questa si sia spinta ben oltre la disciplina delle funzioni che le erano state delegate con il d.P.R. n. 616 del 1977, intervenendo direttamente sulle modalità di gestione, e ingerendosi «nella “capacità di autonormazione” e di “gestione del patrimonio”» dell’ente.

8.2.– Secondo la difesa delle parti private, vari argomenti condurrebbero al medesimo esito della declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate.

La normativa regionale, nel contemplare penetranti poteri di controllo e vigilanza sulle partecipanze agrarie, risulterebbe anzitutto priva di giustificazione nel mutato quadro costituzionale e legislativo di riferimento, con la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione e con il riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato in capo agli enti esponenziali.

D’altro canto, sempre in base alla difesa delle parti private, non vi sarebbe stato – alla luce della giurisprudenza costituzionale – alcun trasferimento di competenze legislative concernente i «presupposti sostanziali di attivazione e di esercizio delle funzioni amministrative». Questi, infatti, in quanto «intimamente connessi con lo statuto giuridico privatistico» delle partecipanze, ricadrebbero nella materia «ordinamento civile», la cui regolamentazione spetta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Le norme censurate finirebbero, in sostanza, per introdurre un sindacato alternativo a quello di diritto comune previsto per le associazioni dagli artt. 21 e 23 cod. civ.

8.3.– Infine, le parti private insistono sulla natura dei domini collettivi, come risulta dalla definizione di cui alla legge n. 168 del 2017, quali ordinamenti giuridici primari delle comunità originarie, verso le quali l’ordinamento costituzionale procederebbe a un mero riconoscimento. La loro difesa riconnette quindi la legislazione del 2017 – che avrebbe «tono costituzionale» – al più recente intervento di revisione costituzionale dell’art. 9 Cost., nella misura in cui per i domini collettivi sarebbe stato previsto il compito di «fare da ponte tra le generazioni passate […] e i futuri abitanti di quelle terre». La difesa delle parti private richiama pertanto la giurisprudenza costituzionale, che ha progressivamente valorizzato in chiave ambientale i domini collettivi, e aderisce alle censure del rimettente sulla violazione della competenza legislativa esclusiva statale nella materia «tutela dell’ambiente», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., che verrebbe arrecata dalle norme regionali oggetto delle questioni sollevate, posto che tali norme finirebbero «con l’incidere almeno indirettamente anche sullo svolgimento delle funzioni di protezione dell’ambiente».

8.4.– Quanto all’eccezione sollevata dalla Regione sull’asserita inammissibilità delle questioni per omessa impugnazione degli artt. 14 e 66 del d.P.R. n. 616 del 1977, essa – secondo la difesa delle parti private – sarebbe non fondata, posto che nessuna norma avrebbe delegato alle regioni competenze legislative in materia di vigilanza e di controllo.

9.– Con memoria integrativa depositata il 30 aprile 2024, la Regione Emilia-Romagna ribadisce che l’indiscussa natura di persona giuridica di diritto privato della partecipanza agraria non sarebbe in alcun modo decisiva ai fini della «valutazione del suo assoggettamento a controlli amministrativi», e ciò sarebbe comprovato dalla circostanza che le fondazioni sarebbero sottoposte a «controlli amministrativi non molto diversi da quelli degli enti locali». A tale conclusione condurrebbe anche la considerazione dell’indubitabile interesse pubblico, sotteso alla conservazione dei beni appartenenti alle comunità anche ai fini della trasmissione alle generazioni future.

Ad avviso della difesa regionale, non vi sarebbe sovrapposizione tra le competenze esercitate dallo Stato nella legge n. 168 del 2017 e quanto disposto dalla Regione in materia di controlli, poiché quello previsto delle norme censurate «non [sarebbe] un controllo sul merito dei diritti civilistici di uso civico, o limitante dette facoltà, o interessante la disciplina sulla titolarità e l’esercizio dei diritti domenicali sulle terre civiche», bensì riguarderebbe «il diverso profilo della regolarità e legittimità procedurale dei meccanismi di elezione e di funzionamento dell’Ente, che è a presidio e a tutela degli stessi soggetti titolari partecipanti, al fine – di indiscutibile interesse pubblico – di assicurare, attraverso la regolarità delle procedure e […] la piena rispondenza della formazione degli Organi di amministrazione dell’Ente, alla legge, allo Statuto, e al Regolamento di cui si è autodotato, la continuità nel tempo di un “dominio collettivo”, quanto più possibile aderente agli scopi suoi propri».

La Regione insiste, dunque, nel ritenere che il controllo previsto dalle norme censurate non possa considerarsi una illegittima estensione di poteri di controllo originariamente concepiti per enti dipendenti e strumentali della Regione stessa, ma sia una tipologia di controllo specificamente prevista per le partecipanze agrarie, secondo una ratio che sarebbe identica a quella che sovrintende ai controlli sulle fondazioni.

La difesa della Regione replica, infine, agli argomenti esposti dalle parti private nell’atto di costituzione, ribadendo il «palese contrasto» tra le delibere di modifica del regolamento per la divisione dei capi e lo statuto della partecipanza, richiamando, a tale riguardo, la pronuncia del Tribunale ordinario di Ferrara, sezione civile, 27 marzo 2024, con la quale sono state «dichiarate nulle per contrasto con le regole statutarie» varie delibere degli organi della partecipanza. Conclude ribadendo che l’entrata in vigore della legge n. 168 del 2017, la quale nulla avrebbe disposto in materia di controllo, avrebbe confermato la persistente vigenza di un potere di vigilanza sugli enti esponenziali della partecipanza.

10.– All’udienza pubblica del 21 maggio 2024 la difesa della Regione Emilia-Romagna ha insistito per le conclusioni rassegnate negli scritti difensivi, sottolineando come la decisione di questa Corte sia destinata a trascendere la dimensione regionale. Nella medesima udienza anche la difesa delle parti private è intervenuta per ribadire l’adesione alla prospettazione dell’ordinanza di rimessione.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 9 del 2024), il Consiglio di Stato, sezione sesta, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, lettera b), della legge reg. Emilia-Romagna n. 6 del 2004, «nel suo combinato disposto con gli artt. 25 e 29 della legge della Regione Emilia-Romagna 27 maggio 1994 n. 24», per violazione degli artt. 3, 9 e 117, secondo comma, lettere l) ed s), Cost., con riguardo – rispettivamente – alle materie «ordinamento civile» e «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali».

2.– Il menzionato art. 49 prevede: «la Giunta regionale esercita il controllo preventivo di legittimità sulle deliberazioni […] b) delle Partecipanze agrarie dell’Emilia-Romagna concernenti gli Statuti ed i regolamenti, ferma restando l’eventuale applicazione del titolo III, capo II, della legge regionale n. 24 del 1994». Tra le disposizioni ivi ricomprese rientrano l’art. 25 della legge reg. Emilia-Romagna n. 24 del 1994, secondo cui il citato Capo II riguarda soggetti qualificati come «enti dipendenti» dalla Regione, e l’art. 29 della medesima legge regionale, che prevede incisivi poteri di scioglimento degli organi e di commissariamento dell’ente.

3.– La rimettente sezione del Consiglio di Stato riferisce di essere stata adita in sede di appello avverso la decisione del TAR Emilia-Romagna, che aveva accolto il ricorso di un gruppo di consiglieri e magistrati della Partecipanza agraria di Cento. Innanzi al giudice di prime cure, i ricorrenti avevano chiesto l’annullamento delle delibere regionali con le quali erano stati disposti lo scioglimento degli organi statutari della partecipanza agraria e la nomina di un commissario. Il TAR Emilia-Romagna aveva accolto il primo motivo di ricorso, reputando non più vigenti le norme regionali poste alla base dell’adozione degli atti contestati.

La Regione ha proposto appello avverso tale decisione.

In sede di gravame, il giudice a quo ha riformato la sentenza di primo grado, ravvisando la perdurante vigenza delle norme regionali in parola, della cui legittimità costituzionale nondimeno dubita.

4.– Il rimettente solleva, pertanto, plurime questioni di legittimità costituzionale che motiva, sotto il profilo della rilevanza, avendo riguardo alla necessaria applicazione delle norme censurate nel giudizio di appello pendente.

Quanto alla non manifesta infondatezza, ritiene che l’art. 49, comma 1, lettera b), della legge reg. Emilia-Romagna n. 6 del 2004, «nel suo combinato disposto con gli artt. 25 e 29 della legge della Regione Emilia-Romagna 27 maggio 1994, n. 24», vìoli l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., con riguardo alla materia «ordinamento civile», in quanto inciderebbe sui «presupposti sostanziali» di attivazione e di esercizio delle funzioni di controllo sugli enti esponenziali dei domini collettivi.

Le medesime norme contrasterebbero inoltre con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., con riguardo alla materia «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», nonché con l’art. 9 Cost., poiché, prevedendo «ficcanti poteri di matrice autoritativa in grado di condizionare profondamente la vita degli enti esponenziali della collettività», finirebbero «con l’incidere, almeno indirettamente, anche sullo svolgimento delle funzioni di protezione dell’ambiente ad essi affidate».

Infine, il giudice a quo lamenta la violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza e non proporzionalità, là dove le norme censurate, introducendo un’ipotesi di decadenza coattiva degli organi dell’ente esponenziale della collettività, interverrebbero direttamente sulla vita e sul funzionamento interno di tali enti, operando una scelta irragionevole, sproporzionata e non rispettosa dello spirito della riforma dei domini collettivi di cui alla legge n. 168 del 2017.

5.– Con atto depositato il 23 febbraio 2024, si è costituita in giudizio la Regione Emilia-Romagna che ha, anzitutto, sollevato una eccezione di inammissibilità.

La difesa regionale, assumendo che la competenza della Regione a dettare regole in materia di controlli sugli enti esponenziali deriverebbe dal trasferimento alle regioni delle funzioni amministrative di controllo sulle persone giuridiche di diritto privato – trasferimento a sua volta correlato alla competenza legislativa regionale nella materia «agricoltura e foreste» –, eccepisce che il rimettente avrebbe erroneamente appuntato le proprie censure sulle norme regionali in epigrafe.

Pertanto – secondo la Regione – il contrasto con le norme costituzionali sopra citate, lamentato dal rimettente, deriverebbe semmai da quanto previsto dall’art. 1 del d.P.R. n. 11 del 1972 e dagli artt. 14 e 66 del d.P.R. n. 616 del 1977.

5.1.– È dunque necessario esaminare anzitutto tale eccezione di inammissibilità, che si rivela non fondata.

L’assunto ermeneutico da cui muove la Regione non attiene al rito, bensì al merito delle questioni; di conseguenza, è in quel contesto che va esaminata l’eccezione.

6.– Prima di procedere con l’esame del merito, occorre delimitare la corretta estensione del thema decidendum.

Il rimettente solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, lettera b), della legge reg. Emilia-Romagna n. 6 del 2004, in «combinato disposto con gli artt. 25 e 29 della legge della Regione Emilia-Romagna 27 maggio 1994, n. 24».

L’atto introduttivo sembra individuare l’oggetto delle questioni sia nella norma che disciplina il controllo preventivo di legittimità sugli atti della partecipanza, sia in quella che – attraverso il rinvio al Titolo III, Capo II, della legge reg. Emilia-Romagna n. 24 del 1994 – consente lo scioglimento degli organi della partecipanza, nonché la nomina di un commissario per l’amministrazione provvisoria.

Sennonché, la controversia pendente dinanzi al giudice amministrativo concerne esclusivamente l’esercizio dei poteri normati dalla legge reg. Emilia-Romagna n. 24 del 1994, in virtù del citato rinvio. Il giudizio da cui originano le presenti questioni di legittimità costituzionale deriva, infatti, dalla impugnazione della sentenza del TAR Emilia-Romagna, che aveva annullato il provvedimento della Giunta regionale di scioglimento degli organi e di nomina del commissario.

Di conseguenza, è soltanto su tale disciplina che questa Corte è chiamata a pronunciarsi.

7.– Così circoscritto l’oggetto delle censure, occorre indagare, in via prioritaria, la questione sollevata in riferimento all’art. 117, comma secondo, lettera l), Cost., con riguardo alla materia «ordinamento civile».

8.– La questione è fondata.

9.– L’art. 49, comma 1, lettera b), della legge reg. Emilia-Romagna n. 6 del 2004 – nel far salva «l’eventuale applicazione del titolo III, capo II, della legge regionale n. 24 del 1994» – ascrive le partecipanze agrarie dell’Emilia-Romagna agli «enti dipendenti» dalla Regione (art. 25 della citata legge regionale) e le sottopone alla normativa concernente «[i]ndirizzi e vigilanza nei confronti degli enti, istituti e aziende dipendenti dalla Regione», prevista dal citato Capo II, che comprende anche i «[c]ontrolli sostitutivi» disposti dall’art. 29 della medesima legge.

A fronte di tale disciplina, l’esame della questione posta con riguardo alla competenza legislativa statale nella materia «ordinamento civile» si articola in tre passaggi argomentativi: la natura privatistica degli enti esponenziali delle partecipanze agrarie (infra, punto 10 del Considerato in diritto); la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella determinazione delle tipologie di controlli che il soggetto pubblico – sia esso statale o regionale – può esercitare nei confronti di enti di diritto privato (infra, punto 11 del Considerato in diritto); la sussistenza di una invasione di tale competenza da parte delle norme regionali censurate (infra, punto 12 del Considerato in diritto).

10.– Partendo dall’esame della natura degli enti esponenziali, va premesso che la partecipanza agraria è un’antichissima forma di proprietà collettiva di terreni, risalente al medioevo, derivante per lo più da atti di diritto privato (in origine costitutivi di enfiteusi perpetue) e tuttora in uso specie in Emilia, nel Veneto e in Piemonte.

Si tratta di una tra le molteplici forme di domini collettivi – che si sono sviluppate, con nomi e specificità diverse, nel territorio italiano – caratterizzata: dall’uso collettivo della terra da parte di famiglie che, in origine, «possedendo esclusivamente terre atte a coltura agraria», vi avevano apportato «sostanziali e permanenti migliorie» (secondo quanto disposto dall’art. 65 del r.d. n. 332 del 1928); dalla divisione dei terreni (in vista del loro utilizzo), che si effettua ogni vent’anni tra i figli maschi delle famiglie partecipanti (cosiddetti capisti); dalla assegnazione degli appezzamenti (cosiddetti capi), a patto che si dimostri l’abitazione nel territorio; dalla titolarità collettiva e indifferenziata della proprietà; dall’amministrazione affidata a una associazione agraria, quale ente esponenziale della collettività medesima.

10.1.– Un riconoscimento delle partecipanze agrarie quali enti esponenziali di proprietà collettive si rinviene già nella legge 4 agosto 1894, n. 397 (Sull’ordinamento dei dominii collettivi nelle provincie dell’ex Stato Pontificio) – poi abrogata con il decreto legislativo 13 dicembre 2010, n. 212 (Abrogazione di disposizioni legislative statali, a norma dell’articolo 14, comma 14-quater, della legge 28 novembre 2005, n. 246) – in base alla quale, da un lato, dovevano considerarsi persone giuridiche «le associazioni istituite a profitto […] di una determinata classe di cittadini per la coltivazione o il godimento collettivo dei fondi» (art. 1, primo comma, della citata legge) e, da un altro lato, dovevano costituirsi in associazioni «considerate egualmente persone giuridiche» gli «utenti ai quali [fosse] stata o [sarebbe stata] assegnata la proprietà collettiva dei fondi», a seguito di meccanismi di affrancazione di terre mediante pagamento di un canone annuo al proprietario (secondo comma del citato art. 1).

Con l’introduzione della legge n. 1766 del 1927, finalizzata alla liquidazione degli usi civici – ritenuti responsabili delle «conflittualità nel mondo agricolo» (sentenza n. 236 del 2022; in senso analogo, sentenza n. 119 del 2023) – si registra, invece, un approccio cauto e diffidente rispetto all’«uso promiscuo delle risorse fondiarie» (sentenza n. 228 del 2021 e, negli stessi termini, sentenza n. 236 del 2022) e, dunque, rispetto a un modello di proprietà collettiva – facente capo a un ente esponenziale associativo – che sfugge alla dicotomia proprietà privata individuale-proprietà pubblica.

Ne è un chiaro riflesso l’art. 25, terzo comma, della citata legge, secondo cui «[n]on sarà permessa la costituzione di nuove associazioni per il godimento comune dei diritti di cui all’art. 1, ma potrà accordarsi il riconoscimento a quelle che siano già esistenti di fatto». Queste ultime avrebbero dovuto adeguare, nel termine di un anno, statuti e regolamenti alla stessa legge n. 1766 del 1927, sottoponendo tali atti a un controllo preventivo (art. 59 del r.d. n. 332 del 1928), fermo restando, in caso di inerzia, un possibile intervento sostitutivo del soggetto pubblico (art. 60 del medesimo regio decreto).

10.2.– Lo scenario muta radicalmente con l’introduzione della legge n. 168 del 2017 che, sin dal titolo dedicato ai «domini collettivi», dà testimonianza di un chiaro favor per il modello della proprietà collettiva, facente capo a enti esponenziali di diritto privato.

In particolare, avendo riguardo ai domini collettivi appartenenti a comunità familiari, l’art. 3, comma 1, lettera e), della citata legge ascrive ai beni collettivi «le terre collettive comunque denominate, appartenenti a famiglie discendenti dagli antichi originari del luogo, nonché le terre collettive disciplinate dagli articoli 34 della legge 25 luglio 1952, n. 991, 10 e 11 della legge 3 dicembre 1971, n. 1102, e 3 della legge 31 gennaio 1994, n. 97»: vengono, dunque, ricomprese non solo le comunità familiari montane – quelle evocate nella seconda parte della disposizione – ma tutti i domini collettivi appartenenti a comunità familiari, fra cui le partecipanze agrarie.

Quanto agli enti esponenziali delle collettività titolari dei domini, l’art. 1, comma 2, sempre della legge n. 168 del 2017 afferma espressamente che essi «hanno personalità giuridica di diritto privato ed autonomia statutaria». L’art. 2, comma 4, della medesima legge precisa, inoltre, che i «beni di proprietà collettiva e i beni gravati da diritti di uso civico sono amministrati dagli enti esponenziali delle collettività titolari».

In definitiva, dalla legge n. 168 del 2017 emergono una esplicita opzione a favore della qualificazione privatistica degli enti esponenziali, con un riconoscimento ex lege della personalità giuridica di diritto privato, nonché una valorizzazione della proprietà collettiva, che sottende una responsabilizzazione delle comunità chiamate a preservare l’ambiente, anche nell’interesse delle generazioni future.

Si delinea, dunque, uno stretto legame fra la tutela dell’ambiente e l’uso collettivo dei beni, la cui gestione è assegnata a un ente di diritto privato.

Simile scelta si pone in sintonia con quel generale ripensamento dei rapporti fra pubblico e privato, che si evince dalla riforma del Titolo V della Costituzione (art. 4 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante «Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione»), nella parte in cui ha valorizzato – sulla base del principio di sussidiarietà – il fenomeno dell’associazionismo «per lo svolgimento di attività di interesse generale» (art. 118, quarto comma, Cost.).

Nel caso dei domini collettivi, il legislatore dimostra peraltro una spiccata propensione a favorire la gestione da parte degli enti di diritto privato, avendo previsto che i comuni possano gestire i beni collettivi solo qualora manchino enti esponenziali, e stabilendo che, in tal caso, i comuni li devono amministrare in maniera «separata» e ferma restando la «facoltà delle popolazioni interessate [di] costituire i comitati per l’amministrazione separata dei beni di uso civico frazionali, ai sensi della legge 17 aprile 1957, n. 278» (art. 2, comma 4, della legge n. 168 del 2017).

10.3.– Tanto premesso, la chiara opzione a favore della natura privatistica degli enti esponenziali non comporta che essi siano, in quanto tali, sottratti a qualunque controllo (infra, punto 12.1.3. del Considerato in diritto). Nell’evoluzione della disciplina degli enti di diritto privato sono state, invero, superate solo quelle previsioni che denotavano un’originaria diffidenza, da parte dello stesso legislatore codicistico, verso il fenomeno delle organizzazioni collettive: sono stati abrogati gli artt. 17, 600 e 786 cod. civ. in materia di acquisti dell’ente (con l’art. 13 della legge 15 maggio 1997, n. 127, recante «Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo» – come sostituito dall’art. 1, comma 1, della legge 22 giugno 2000, n. 192, recante «Modifica dell’articolo 13 della legge 15 maggio 1997, n. 127, e dell’articolo 473 del codice civile») ed è stato semplificato il meccanismo del riconoscimento degli enti quali persone giuridiche, che ha inciso anche sulla disciplina relativa alle modifiche dello statuto e dell’atto costitutivo, ai sensi degli artt. 1 e 2 del decreto del Presidente della Repubblica 10 febbraio 2000, n. 361, recante «Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti di riconoscimento di persone giuridiche private e di approvazione delle modifiche dell’atto costitutivo e dello statuto (n. 17 dell’allegato 1 della legge 15 marzo 1997, n. 59)».

Infine, non è dato desumere dalla peculiare valorizzazione della gestione affidata a enti esponenziali di diritto privato e dalla qualificazione dei domini collettivi alla stregua di «ordinament[i] giuridic[i] primari […] delle comunità originarie» (art. 1, comma 1, della legge n. 168 del 2017) una loro presunta incompatibilità rispetto a qualsivoglia forma di controllo.

Il profilo da verificare è, allora, quello della competenza – fra Stato e regioni – a regolare tale aspetto della disciplina degli enti di diritto privato.

11.– Questa Corte ha già in passato evidenziato come l’individuazione dei controlli che autorità pubbliche possono esercitare su enti di diritto privato si deve ascrivere alla competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia «ordinamento civile», in quanto profilo che si riverbera sullo statuto e sulla vita dell’ente e le cui ragioni non variano in funzione della collocazione territoriale del soggetto collettivo.

In particolare, intervenendo sulla disciplina degli enti del Terzo settore, questa Corte ha precisato che «ricade tipicamente nella competenza statale [relativa alla] materia “ordinamento civile” non solo la conformazione specifica e l’organizzazione [di tali enti], ma anche la definizione delle “regole essenziali di correlazione con le autorità pubbliche”» (sentenza n. 131 del 2020 e, negli stessi termini, sentenza n. 185 del 2018). Ha inoltre evidenziato che l’ordinamento civile «comprende tali discipline, allo scopo di garantire l’uniformità di trattamento sull’intero territorio nazionale, in ossequio al principio costituzionale di eguaglianza (ex plurimis, sentenze n. 287 del 2016, n. 97 del 2014, n. 290 del 2013, n. 123 del 2010 e n. 401 del 2007)» (ancora, sentenza n. 185 del 2018).

In termini analoghi, anche in precedenza, a fronte di altri enti (nello specifico le fondazioni bancarie) che avevano acquisito una natura privatistica, questa Corte ha incisivamente affermato che «[c]iò che conta […,] ai fini della determinazione della portata da assegnare al riparto delle competenze legislative delineato dall’art. 117, secondo e terzo comma, della Costituzione, è la qualificazione degli enti in questione quali fondazioni-persone giuridiche private, […] come tali rientranti nell’ambito dell’ordinamento civile» (sentenze n. 438 del 2007; in senso analogo sentenze n. 301 e n. 300 del 2003). A tale materia, «che l’art. 117, secondo comma, della Costituzione assegna alla competenza legislativa esclusiva dello Stato», va, infatti, ascritta «la disciplina delle persone giuridiche di diritto privato» (sentenza n. 300 del 2003).

12.– Ciò precisato, deve ritenersi che l’art. 49 della legge reg. Emilia-Romagna n. 6 del 2004, nella parte in cui fa salva l’eventuale applicazione alle partecipanze agrarie del Titolo III, Capo II, della legge reg. Emilia-Romagna n. 24 del 1994, abbia invaso la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia «ordinamento civile».

12.1.– La disciplina censurata non si limita a regolare profili organizzativi, indicando i soggetti competenti, a livello regionale, a effettuare controlli previsti dalle fonti statali, ma ascrive le partecipanze agrarie agli «enti dipendenti» dalla Regione (art. 25 della legge reg. Emilia-Romagna n. 24 del 1994) e rende applicabile alle medesime l’intero Titolo III, Capo II, della legge reg. Emilia-Romagna n. 24 del 1994, dedicato a «[i]ndirizzi e vigilanza nei confronti degli enti, istituti e aziende dipendenti dalla Regione», compreso l’art. 29 della medesima legge regionale.

Quest’ultimo, in particolare, prevede, al comma 1, che, «[i]n caso di gravi disfunzioni o deficienze amministrative, per violazioni di legge o di regolamenti ovvero per altre irregolarità che compromettano il normale funzionamento di un ente dipendente, il Presidente della Giunta regionale, previa conforme delibera del Consiglio, adottata su proposta della Giunta, decreta lo scioglimento degli organi dell’ente stesso. Con il medesimo decreto il Presidente nomina altresì un commissario per l’amministrazione provvisoria»; al comma 2, aggiunge che, «[n]elle more della procedura di cui al comma 1, il Presidente della Giunta regionale, per motivi di grave e urgente necessità, può sospendere con proprio decreto gli organi medesimi nominando un commissario per la provvisoria amministrazione dell’ente»; e, infine, al comma 3, stabilisce che «[i]n caso di omissione o di ritardo nell’adozione di un atto obbligatorio per espressa disposizione, il Presidente della Giunta regionale assegna un termine per il suo compimento, trascorso il quale, dispone l’invio di un commissario per l’adozione dell’atto stesso».

12.1.1.– Ebbene, tale previsione estende alle partecipanze agrarie la vigilanza propria degli enti dipendenti dalla Regione, dettando una disciplina che non trova corrispondenza in norme dettate dallo Stato, come invece sostenuto dalla difesa regionale.

Non giova, in primo luogo, richiamare l’art. 60 del r.d. n. 332 del 1928.

In tale disposizione, infatti, si rinviene il riferimento a un intervento sostitutivo del prefetto, anche per mezzo di un suo commissario, concernente il solo e peculiare caso nel quale le associazioni agrarie non avessero – nel termine di un anno dalla entrata in vigore del citato regio decreto – proceduto alla revisione dello statuto e del regolamento per rendere tali atti conformi alla legge n. 1766 del 1927, come richiesto dall’art. 59 del medesimo regio decreto. Inoltre, il citato art. 60 evoca un intervento sostitutivo che neppure corrisponde all’incisivo potere di scioglimento degli organi e di commissariamento dell’ente previsto dalla disciplina regionale.

In secondo luogo, non è pertinente richiamare, a supporto delle norme censurate, l’art. 25 cod. civ., dettato in materia di controllo e di vigilanza sulle fondazioni.

Non compete, infatti, alla Regione estendere alle partecipanze agrarie la disciplina prescritta dalle fonti statali per le fondazioni.

La peculiare gestione di una proprietà collettiva dedita alla coltivazione della terra e alla protezione dell’ambiente, anche nell’interesse delle generazioni future, non fa venire meno nelle partecipanze agrarie i tratti associativi.

12.1.2.– Quanto sopra evidenziato, non conduce, pertanto, a ritenere – ciò di cui si duole la difesa regionale – che, in assenza degli incisivi poteri di vigilanza disposti dalla Regione Emilia-Romagna, non vi sarebbero strumenti per reagire agli abusi delle maggioranze nelle partecipanze agrarie.

Premesso che il legislatore statale potrebbe intervenire, prevedendo forme di controllo ispirate a una logica collaborativa nella tutela del bene ambientale e adeguate ai tratti peculiari degli enti esponenziali delle comunità familiari, in ogni caso, resta applicabile la disciplina codicistica dell’art. 23 cod. civ., in materia di associazioni.

Questa, da un lato, consente di annullare le deliberazioni dell’assemblea contrarie alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto, su istanza del pubblico ministero, oltre che degli organi dell’ente e di qualunque associato (primo comma del citato articolo) e, da un altro lato, permette di sospendere, su iniziativa della «autorità governativa», «[l]’esecuzione delle deliberazioni contrarie all’ordine pubblico o al buon costume» (quarto comma sempre dell’art. 23 cod. civ.).

12.2.– A fronte, dunque, di una disciplina regionale che non si limita a regolare profili organizzativi relativi alla funzione di controllo, ma che determina il contenuto del controllo stesso, non si può accogliere l’eccezione sollevata in rito dalla Regione, ma che in effetti – come già in precedenza chiarito (supra, punto 5.1. del Considerato in diritto) – incide sul merito.

In particolare, non si può condividere l’idea secondo cui le norme regionali censurate si collocherebbero nell’ambito della competenza legislativa regionale residuale nella materia «agricoltura e foreste», correlata al trasferimento delle funzioni amministrative, ai sensi dell’art. 1, primo comma, lettera r), del d.P.R. n. 11 del 1972 e degli artt. 14 e 66 del d.P.R. n. 616 del 1977.

La materia «agricoltura e foreste», che è servita a giustificare il trasferimento alle regioni di alcune funzioni amministrative di controllo sulle persone giuridiche, consente alle medesime regioni di regolamentare solo i profili organizzativi del controllo. Viceversa, non presentando tale materia alcuna diretta connessione con lo statuto giuridico di enti di diritto privato, non le autorizza a stabilire i contenuti del controllo stesso.

Argomentando nei termini prospettati dalla difesa regionale, si giungerebbe paradossalmente a ritenere che, a seconda degli ambiti in cui gli enti svolgono la loro attività, e, dunque, a seconda delle materie più vicine a quei settori, la competenza a normare la tipologia e il contenuto dei controlli sulle persone giuridiche di diritto privato potrebbe spettare talora allo Stato talora alle regioni, finendo per variare di volta in volta e per essere, in ogni caso, frammentata sul territorio nazionale.

Sennonché, questa Corte ha già avuto modo di affermare che il trasferimento di competenze amministrative non comporta un trasferimento di competenze legislative, se non per quanto concerne i profili organizzativi (come del resto espressamente prevede l’art. 7 del d.P.R. n. 616 del 1977). Sulla base di tale principio ha, pertanto, escluso che, «nell’intero arco temporale di vigenza del Titolo V, Parte II, della Costituzione – sia nella versione antecedente alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), sia in quella successiva – e, quindi, neppure a seguito dei d.P.R. n. 11 del 1972 e n. 616 del 1977 […], il regime civilistico dei beni civici sia mai passato nella sfera di competenza delle Regioni. Infatti, la materia “agricoltura e foreste” di cui al previgente art. 117 Cost., che giustificava il trasferimento delle funzioni amministrative alle Regioni e l’inserimento degli usi civici nei relativi statuti, mai avrebbe potuto comprendere la disciplina della titolarità e dell’esercizio di diritti dominicali sulle terre civiche» (sentenza n. 71 del 2020 e, in precedenza, sentenza n. 113 del 2018).

Non vi è ragione per cui tale principio non debba operare anche con riferimento a una disciplina – qual è quella relativa al controllo sugli enti esponenziali di diritto privato – che è parimenti attratta nell’orbita dell’ordinamento civile (supra, punto 11 del Considerato in diritto).

12.3.– Da ultimo, le norme censurate non trovano supporto neppure nell’art. 3, comma 1, lettera b), numero 4), della legge 31 gennaio 1994, n. 97 (Nuove disposizioni per le zone montane), che consentiva alle regioni di regolare il «coordinamento tra organizzazioni, comuni e comunità montane, garantendo appropriate forme sostitutive di gestione, preferibilmente consortile, dei beni in proprietà collettiva in caso di inerzia o impossibilità di funzionamento delle organizzazioni stesse».

Tale delega – cui ha posto termine l’art. 3, comma 7, della legge n. 168 del 2017, limitando il suo esercizio ai dodici mesi successivi alla data di entrata in vigore della legge e affidando, di seguito, i relativi adempimenti agli atti degli enti esponenziali delle collettività – riguardava, infatti, le comunità montane (qualunque forma e denominazione avessero).

Ebbene, l’art. 49 della legge reg. Emilia-Romagna n. 6 del 2004 non può correlarsi alla citata delega, in quanto regolamenta (nel Titolo IV, Capo III, della citata legge regionale) le partecipanze agrarie, tenendole distinte dalle «[c]omunità e [dai] territori montani», la cui disciplina è prevista al Titolo II, Capo III, sempre della legge reg. Emilia-Romagna n. 6 del 2004.

Oltretutto, l’art. 49, direttamente o mediante il rinvio alla legge reg. Emilia-Romagna n. 24 del 1994, prevede controlli preventivi e sostitutivi, nonché, più in generale, poteri di indirizzo e di vigilanza dell’ente che non coincidono con quanto indicato nella delega.

13.– Per le ragioni esposte, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, lettera b), della legge reg. Emilia-Romagna n. 6 del 2004, sollevata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., è fondata nella parte in cui rende applicabile alle partecipanze agrarie la disciplina relativa a indirizzi e vigilanza degli enti dipendenti dalla Regione, prevista dal Titolo III, Capo II, della legge reg. Emilia-Romagna n. 24 del 1994.

È, pertanto, costituzionalmente illegittimo l’art. 49, comma 1, lettera b), della legge reg. Emilia-Romagna n. 6 del 2004, limitatamente alle parole «, ferma restando l’eventuale applicazione del titolo III, capo II, della legge regionale n. 24 del 1994».

14.– Resta assorbito ogni ulteriore profilo di censura.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 49, comma 1, lettera b), della legge della Regione Emilia-Romagna 24 marzo 2004, n. 6 (Riforma del sistema amministrativo regionale e locale. Unione europea e relazioni internazionali. Innovazione e semplificazione. Rapporti con l’Università), limitatamente alle parole «, ferma restando l’eventuale applicazione del titolo III, capo II, della legge regionale n. 24 del 1994».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2024.

F.to:

Augusto Antonio BARBERA, Presidente

Emanuela NAVARRETTA, Redattrice

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 26 luglio 2024