ORDINANZA N. 172
ANNO 2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giuliano AMATO;
Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi da 261 a 268, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), promossi dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per il Lazio, con due ordinanze del 22 giugno 2020, iscritte, rispettivamente, ai numeri 54 e 55 del registro ordinanze 2021 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 2021.
Visti gli atti di costituzione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 giugno 2022 il Giudice relatore Stefano Petitti;
deliberato nella camera di consiglio del 23 giugno 2022.
Ritenuto che, con distinte ordinanze del 22 giugno 2020, iscritte ai numeri 54 e 55 del registro ordinanze 2021, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per il Lazio, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi da 261 a 268, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), in riferimento agli artt. 3, 23, 36, 38 e 53 della Costituzione, «in relazione all’intervento di decurtazione percentuale per un quinquennio dell’ammontare lordo annuo dei trattamenti ivi previsti»;
che, per quanto riferiscono le ordinanze, i giudizi principali hanno ad oggetto la domanda proposta nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, del Ministro dell’economia e delle finanze e dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) da titolari di pensione di elevato importo, i quali rivendicano l’integralità del trattamento di quiescenza, senza la decurtazione stabilita dalla norma censurata;
che, ad avviso del rimettente, quest’ultima, avendo introdotto un prelievo forzoso di abnorme durata e ingiustificatamente selettivo, avrebbe violato gli evocati parametri, segnatamente «i principi di ragionevolezza, di affidamento, di uguaglianza e di adeguatezza del trattamento previdenziale nonché quello di capacità contributiva»;
che, in entrambi i giudizi, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi le questioni inammissibili o manifestamente infondate, attesa la sopravvenuta sentenza n. 234 del 2020, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 261, della legge n. 145 del 2018, per violazione degli artt. 3, 23, 36 e 38 Cost., nella parte in cui stabilisce la riduzione degli assegni «per la durata di cinque anni», anziché «per la durata di tre anni»;
che, costituitosi in entrambi i giudizi, l’INPS ha formulato conclusioni analoghe, in ragione della medesima sentenza sopravvenuta, avendo questa determinato la cessazione del prelievo a far data dal 31 dicembre 2021.
Considerato che la Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per il Lazio (ordinanze n. 54 e n. 55 del reg. ord. 2021), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi da 261 a 268, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), in riferimento agli artt. 3, 23, 36, 38 e 53 della Costituzione, «in relazione all’intervento di decurtazione percentuale per un quinquennio dell’ammontare lordo annuo dei trattamenti ivi previsti»;
che il rimettente, investito della domanda proposta verso il Presidente del Consiglio dei ministri, il Ministro dell’economia e delle finanze e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) da titolari di pensione di elevato importo, i quali rivendicano il trattamento di quiescenza senza la decurtazione stabilita dalla norma censurata, dubita che questa, imponendo un prelievo di durata eccessiva e ingiustificata entità, abbia leso «i principi di ragionevolezza, di affidamento, di uguaglianza e di adeguatezza del trattamento previdenziale nonché quello di capacità contributiva»;
che il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in entrambi i giudizi per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, e l’INPS, negli stessi costituitosi, hanno chiesto dichiararsi le questioni inammissibili o manifestamente infondate, attesa la sopravvenuta sentenza n. 234 del 2020, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 261, della legge n. 145 del 2018, per violazione degli artt. 3, 23, 36 e 38 Cost., nella parte in cui stabilisce la riduzione degli assegni «per la durata di cinque anni», anziché «per la durata di tre anni»;
che i giudizi devono essere riuniti, poiché vertono su questioni connesse;
che, per effetto dell’art. 1, comma 261, della legge n. 145 del 2018, i trattamenti pensionistici diretti di importo complessivo superiore a 100.000 euro lordi su base annua sono ridotti, per la durata di cinque anni, nella misura del 15 per cento per la parte eccedente tale importo fino a 130.000 euro, 25 per cento per la parte eccedente 130.000 euro fino a 200.000 euro, 30 per cento per la parte eccedente 200.000 euro fino a 350.000 euro, 35 per cento per la parte eccedente 350.000 euro fino a 500.000 euro e 40 per cento per la parte eccedente 500.000 euro;
che i commi dal 262 al 268 dell’art. 1 della medesima legge contengono alcune disposizioni particolari concernenti tale riduzione, tra le quali segnatamente la previsione per cui essa «non si applica comunque alle pensioni interamente liquidate con il sistema contributivo» (comma 263), quella secondo la quale le somme risparmiate «restano accantonate» presso gli enti previdenziali in un «Fondo risparmio sui trattamenti pensionistici di importo elevato» (comma 265) e l’altra per cui, nonostante la riduzione, l’importo complessivo del trattamento «non può comunque essere inferiore a 100.000 euro lordi su base annua» (comma 267);
che la sentenza n. 234 del 2020 ha qualificato la decurtazione in esame non come prelievo tributario, ma come misura di solidarietà endoprevidenziale, in quanto i risparmi di spesa che ne conseguono non sono acquisiti al bilancio statale, ma accantonati in fondi previdenziali;
che lo scrutinio di legittimità costituzionale non deve pertanto riferirsi al principio di universalità dell’imposizione tributaria ex art. 53 Cost., ma alla ragionevolezza della prestazione patrimoniale imposta ex art. 23 Cost., nella prospettiva del canone solidaristico di cui all’art. 2 Cost.;
che l’incidenza della decurtazione sulle posizioni individuali è temperata sia dalla progressività delle aliquote sugli scaglioni eccedentari, sia dalla clausola di salvaguardia, in base alla quale l’applicazione del contributo di solidarietà non può mai ridurre la prestazione erogata al di sotto della soglia dei 100.000 euro annui;
che la misura in esame ha anche una funzione di riequilibrio intergenerazionale, poiché – come si è visto – ne viene esclusa l’applicazione alle pensioni interamente liquidate con il sistema contributivo, di regola riservate ai lavoratori più giovani, e di importo inferiore a quelle liquidate con il metodo retributivo o misto;
che in tal senso rileva la connessione teleologica tra la misura in questione e gli obiettivi di ricambio generazionale nel mercato del lavoro, che il legislatore ha inteso perseguire tramite il pensionamento anticipato in “quota 100”, introdotto in via sperimentale per il triennio 2019-2021;
che, sebbene non attinti dal prelievo in sé, ragionevole e solidaristicamente orientato, gli artt. 3, 23, 36 e 38 Cost. sono stati tuttavia violati dalla sua durata ultratriennale, che eccede la proiezione temporale della sperimentazione di “quota 100” e lo stesso orizzonte triennale del bilancio di previsione, oltre che il lasso ordinario delle valutazioni diacroniche in materia previdenziale;
che, in conseguenza della declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata da questa Corte con la menzionata sentenza n. 234 del 2020, il prelievo di cui all’art. 1, comma 261, della legge n. 145 del 2018 è cessato a far data dal 31 dicembre 2021, effetto per il quale il legislatore ha approntato la necessaria copertura finanziaria, mediante la disposizione dell’art. 1, comma 372, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2021 e bilancio pluriennale per il triennio 2021-2023);
che quindi, per quanto concerne la durata quinquennale della decurtazione, le questioni ora in scrutinio devono essere dichiarate manifestamente inammissibili, poiché essa è già stata ricondotta a legittimità costituzionale, con limitazione al triennio, sicché è sopravvenuta la carenza dell’oggetto della censura (ex multis, ordinanze n. 102 del 2022, n. 206 e n. 93 del 2021, n. 125 e n. 105 del 2020 e n. 71 del 2017);
che invece, per quanto riguarda la riduzione degli assegni nei limiti della durata triennale, atteso che il rimettente non porta argomenti nuovi rispetto a quelli giudicati non fondati dalla sentenza n. 234 del 2020, le odierne questioni devono essere dichiarate manifestamente infondate (ex multis, ordinanze n. 82 del 2022, n. 224, n. 214, n. 165 e n. 111 del 2021, n. 204, n. 93 e n. 81 del 2020).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, vigente ratione temporis.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi da 261 a 268, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), nella parte in cui stabilisce la riduzione dei trattamenti pensionistici ivi indicati «per la durata di cinque anni», anziché «per la durata di tre anni», sollevate, in riferimento agli artt. 3, 23, 36, 38 e 53 della Costituzione, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per il Lazio, con le ordinanze indicate in epigrafe;
2) dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi da 261 a 268, della legge n. 145 del 2018, nella parte in cui stabilisce la riduzione dei trattamenti pensionistici ivi indicati «per la durata di tre anni», sollevate, in riferimento agli artt. 3, 23, 36, 38 e 53 Cost., dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per il Lazio, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2022.
F.to:
Giuliano AMATO, Presidente
Stefano PETITTI, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria l'11 luglio 2022.