REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giuliano AMATO;
Giudici: Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, promossi dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, con ordinanze del 29 aprile 2021 e del 25 giugno 2021, iscritte, rispettivamente, ai numeri 167 e 168 del registro ordinanze 2021 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2021.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 25 maggio 2022 il Giudice relatore Francesco Viganò;
deliberato nella camera di consiglio del 25 maggio 2022.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 29 aprile 2021 (r.o. n. 167 del 2021), il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117 [recte: art. 117, primo comma,] della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e all’art. 14, paragrafo 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, censurandolo «nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi indicati debbano essere rivolti alla persona cui sia contestato l’illecito amministrativo di cui all’art. 75 co. 1 DPR 309/1990, o che sia già raggiunta da elementi indizianti di tale illecito, allorché la stessa sia sentita in relazione ad un reato collegato ai sensi dell’art. 371, co. 2, lettera b) c.p.p.».
1.1.– Il rimettente deve decidere in ordine alla convalida dell’arresto e all’applicazione di misure cautelari nei confronti di A. S., imputato del delitto di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), per le condotte di cessione a titolo oneroso di 1,57 grammi di hashish a D.M. P. e di detenzione per finalità di spaccio di 11,13 grammi della medesima sostanza stupefacente.
Riferisce il giudice a quo che l’imputato è stato arrestato in flagranza di reato, con l’accusa di avere ceduto dell’hashish a D.M. P., e che quest’ultimo, nel rendere sommarie informazioni alla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 351 cod. proc. pen., ha confermato di avere acquistato la sostanza stupefacente da A. S.
1.2.– Quanto alla rilevanza delle questioni sollevate, il rimettente espone che, benché già gravemente indiziato dell’illecito amministrativo di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, D.M. P. è stato sentito dalla polizia giudiziaria senza ricevere gli avvisi che l’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. prescrive siano rivolti alla persona sottoposta a indagini.
Il giudice a quo osserva che la garanzia prevista dall’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. comporta, in caso di omissione degli avvisi di cui alle lettere a) e b), l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla persona interrogata; nonché, in caso di omissione dell’avviso di cui alla lettera c), l’inutilizzabilità erga alios delle dichiarazioni rese su fatti che concernono la responsabilità di altri (art. 64, comma 3-bis, cod. proc. pen.).
L’art. 63 cod. proc. pen., sottolinea il giudice rimettente, prevede poi «in caso di dichiarazioni autoincriminanti rese nel corso dell’audizione da un soggetto non imputato e non sottoposto alle indagini […] l’inutilizzabilità contro il predetto soggetto delle dichiarazioni rilasciate prima dell'interruzione dell’esame» (è citato il comma 1) e «l’inutilizzabilità anche nei confronti dei terzi delle dichiarazioni rese, qualora la persona dovesse essere sentita sin dall’inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini» (è citato il comma 2).
Tali garanzie, tuttavia, non sarebbero applicabili all’audizione della persona cui sia stato contestato un illecito passibile di sanzione amministrativa di natura punitiva – quale dovrebbe ritenersi quello previsto dall’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti – o nei confronti della quale siano emersi indizi di commissione di un tale illecito, allorché questa «sia sentit[a] in relazione ad un fatto collegato ai sensi dell’art. 371, co. 2, lettera b) c.p.p.».
Nel caso di specie, dunque, a dispetto dell’«evidente […] collegamento probatorio» tra l’illecito amministrativo di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, commesso da D.M. P., il quale avrebbe acquistato della sostanza stupefacente per farne uso personale, e il reato di cui all’art. 73, comma 5, del medesimo testo normativo, contestato ad A. S. per avere ceduto a D.M. P. tale sostanza, le dichiarazioni dell’acquirente, raccolte senza che questi abbia ricevuto gli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., sarebbero pienamente utilizzabili nel giudizio a carico di A. S.
Solo ove l’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. fosse dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui non prevede che gli avvisi in questione siano rivolti anche alla persona cui sia stato contestato l’illecito amministrativo previsto dall’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, o nei cui confronti siano emersi indizi della commissione di tale illecito, potrebbe affermarsi «ai sensi degli articoli 63 e 64 co. 3-bis l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese nei confronti dell’attuale imputato»; dichiarazioni che costituirebbero uno dei principali elementi a carico di A. S. nel giudizio in ordine alla convalida dell’arresto e all’applicazione di misure cautelari.
Di qui la rilevanza delle questioni.
1.3.– Quanto alla loro non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene anzitutto che le sanzioni previste dall’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti siano di natura punitiva secondo i cosiddetti criteri Engel.
La finalità delle sanzioni sarebbe anzitutto repressiva e non meramente preventiva, atteso che il ritiro della patente di guida e del certificato di idoneità tecnica del ciclomotore prescindono sia dall’intervenuta assunzione della sostanza stupefacente acquistata – e, dunque, dalla sussistenza di un pericolo immediato per l’incolumità pubblica – sia dall’accertamento di infrazioni alle norme sulla circolazione stradale. Del resto, la natura punitiva delle sanzioni di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti sarebbe stata riconosciuta anche dalla giurisprudenza di legittimità (è citata Corte di cassazione, sezione seconda civile, ordinanza 14 ottobre 2010, n. 21236).
Le sanzioni previste dall’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti sarebbero inoltre «plurime, variegate e irrogabili anche cumulativamente», oltre che di elevata afflittività. Il loro carattere punitivo si coglierebbe peraltro anche in relazione alla sola sanzione della sospensione della patente, alla luce della sentenza n. 68 del 2021 di questa Corte, che ha qualificato come punitiva la sanzione amministrativa della revoca della patente di guida, in conformità a numerose pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, ivi puntualmente citate.
L’illecito di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti sarebbe poi sempre correlato al delitto di cessione di stupefacenti, severamente punito sul piano penale, sicché i due illeciti – amministrativo e penale – sarebbero accumunati dall’intenzione del legislatore di reprimere il traffico di stupefacenti, venendo dunque ad assumere anche il primo «una forte connotazione dissuasiva».
1.4.– Alla luce della natura punitiva della sanzione di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, la mancata estensione del disposto dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. alla persona accusata o sospettata di avere commesso il relativo illecito amministrativo violerebbe le garanzie costituzionali poc’anzi enumerate.
1.4.1.– Vulnerato sarebbe anzitutto il diritto di difesa ex art. 24 Cost., di cui il diritto al silenzio costituisce corollario essenziale (è citata l’ordinanza n. 117 del 2019 di questa Corte). Tale diritto dovrebbe essere riconosciuto anche nei procedimenti amministrativi preordinati all’irrogazione di sanzioni amministrative di natura punitiva, coerentemente con la progressiva estensione a queste ultime di larga parte dello «statuto costituzionale» delle sanzioni penali (è citata la sentenza n. 68 del 2021).
1.4.2.– D’altra parte, il mancato riconoscimento del diritto al silenzio in queste ipotesi «parrebbe irragionevole e quindi contrastante con l’art. 3 Cost.».
1.4.3.– Si profilerebbe altresì anche una lesione dei principi del giusto processo, di cui all’art. 111 Cost., atteso che «il diritto al silenzio è riconosciuto non solo per salvaguardare la libertà e dignità del soggetto cui le domande siano rivolte, ma anche per assicurare la genuinità delle dichiarazioni rese, che potrebbe essere messa in pericolo dall’esercizio di pressioni da parte dell’autorità nei confronti del soggetto esaminato». Negare il diritto al silenzio «sulla base della mera distinzione formale tra illecito penale e illecito amministrativo contestato al soggetto non imputato da esaminare» non risponderebbe «ad un criterio di ragionevolezza […] ai fini della genuinità degli elementi di prova forniti dal soggetto costretto a rendere dichiarazioni», con conseguente violazione, ancora una volta, dell’art. 3 Cost.
La disposizione censurata contrasterebbe con l’art. 111 Cost. anche sotto il profilo della lesione del principio della «parità delle armi» nell’eventuale successivo giudizio di impugnazione della sanzione amministrativa punitiva.
1.4.4.– Sarebbe inoltre vulnerato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU, atteso che – come ricordato da questa Corte nell’ordinanza n. 117 del 2019 – il diritto al silenzio si colloca «al cuore della nozione di “equo processo” proclamata dall’art. 6, paragrafo 1, CEDU» e si applica anche a chi sia incolpato di un illecito passibile di sanzioni amministrative di natura punitiva, declinandosi nel diritto «a non essere obbligato a fornire all’autorità risposte dalle quali potrebbe emergere la propria responsabilità, sotto minaccia di una sanzione in caso di inottemperanza».
Tali considerazioni varrebbero senz’altro in relazione all’illecito di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, atteso che, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’acquirente di sostanza stupefacente per uso personale che si rifiuti di fornire alla polizia giudiziaria informazioni sulle persone da cui ha ricevuto la sostanza stessa può essere chiamato a rispondere del delitto di favoreggiamento personale, rispetto a cui l’operatività dell’esimente di cui all’art. 384 del codice penale è ammessa con «requisiti, limiti e condizioni tanto stringenti da escluderne di fatto l’operatività» (sono citate Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenze 11 marzo 2015, n. 12934; 8 marzo 2013, n. 23324; 13 luglio 2007, n. 30535).
1.4.5.– Sarebbe infine violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14, paragrafo 3, lettera i), PIDCP, secondo cui «ogni individuo accusato di un reato ha diritto, in posizione di piena eguaglianza, come minimo alle seguenti garanzie: [...] g) a non essere costretto a deporre contro sé stesso od a confessarsi colpevole». Tale disposizione dovrebbe essere interpretata in senso estensivo, in modo da abbracciare anche condotte passibili di sanzioni amministrative punitive.
1.5.– Il pieno riconoscimento del diritto al silenzio anche rispetto all’illecito di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti comporterebbe l’estensione del diritto dell’accusato a ricevere gli avvisi di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. E invero, «ove si riconoscesse il diritto al silenzio, ma non si imponesse all’autorità che procede all’audizione di avvisare l’interessato in ordine a tale diritto, lo si priverebbe in sostanza di effettività», considerato che l’interessato non sarebbe neppure assistito da un difensore che potrebbe renderlo edotto di tale facoltà.
1.6.– Non sarebbe infine possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, volta ad estenderne l’ambito applicativo alla persona accusata o indiziata dell’illecito di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, alla luce del tenore letterale dell’art. 64 e della giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto (sono citate Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 9 ottobre 2014-20 gennaio 2015, n. 2441; sezione sesta penale, sentenza 19 settembre 2013, n. 39981; sezione sesta penale, sentenza 10 ottobre 2008, n. 40586; sezioni unite penali, sentenza 22 febbraio 2007, n. 21832).
Si renderebbe dunque necessario il promovimento dell’incidente di costituzionalità, da disporre previo ordine di liberazione dell’interessato, stante l’impossibilità di rispettare il termine di legge per la convalida dell’arresto (è citata la sentenza n. 54 del 1993 di questa Corte).
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate.
2.1.– Anzitutto, l’illecito amministrativo di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti non avrebbe natura punitiva, caratterizzandosi invece per «finalità squisitamente preventive, connesse all’esigenza di scongiurare il consumo e la diffusione della droga». Esso sarebbe volto, piuttosto, a «tenere sotto controllo l’assuntore di sostanze stupefacenti che, in quanto tale, può costituire un pericolo per la collettività, laddove ad esempio si ponga alla guida di un veicolo a motore».
Il procedimento per l’irrogazione delle sanzioni si svolgerebbe poi interamente innanzi all’autorità amministrativa, senza intervento dell’autorità giudiziaria.
D’altra parte, le misure di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti non sarebbero accessorie ad alcuna sanzione penale, sicché non sarebbero assimilabili alla revoca della patente di guida, oggetto della sentenza n. 68 del 2021 di questa Corte.
Né basterebbe a qualificare le sanzioni come punitive, alla stregua dei criteri Engel, la circostanza che esse limitino la libertà di circolazione del destinatario, avendo la Corte EDU negato la natura “penale” di misure limitative di tale libertà, quali le misure di prevenzione personali, in ragione della loro finalità esclusivamente preventiva e diretta a impedire il compimento di atti criminali (sono citate le sentenze 23 febbraio 2017, De Tommaso contro Italia; 22 febbraio 1994, Raimondo contro Italia; 27 maggio 1991, Ciancimino contro Italia; 6 novembre 1980, Guzzardi contro Italia; 1° luglio 1961, Lawless contro Irlanda).
Allo stesso modo, la Corte EDU avrebbe negato la natura punitiva di misure a scopo esclusivamente preventivo, quale l’iscrizione in un registro degli autori di reati sessuali (sono richiamate le sentenze 17 dicembre 2009, Bouchacourt [recte: B. B.] contro Francia e M. B. contro Francia; 26 gennaio 1999, Adamson contro Regno Unito; 21 ottobre 1998, Ibbotson contro Regno Unito) e di misure atte a consentire il corretto svolgimento delle competizioni elettorali, quali la previsione dell’ineleggibilità in conseguenza della commissione di illeciti in materia elettorale (è citata la sentenza 21 ottobre 1997, Pierre-Bloch contro Francia).
In conclusione, alla luce del carattere non punitivo delle sanzioni previste dall’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, non potrebbe nel caso in esame applicarsi il principio enunciato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza 2 febbraio 2021, in causa C-481/19, D. B. contro Consob, secondo cui il diritto al silenzio va riconosciuto anche nell’ambito di procedimenti amministrativi funzionali all’irrogazione di sanzioni di natura punitiva.
Resterebbe dunque immune da censure di illegittimità costituzionale l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’acquirente di modiche quantità di sostanza stupefacente, nei cui confronti non siano emersi elementi indizianti di uso non personale, deve essere sentito nel corso delle indagini preliminari come persona informata dei fatti, essendo irrilevante, a tal fine, che egli possa essere soggetto a sanzione amministrativa per l’uso personale, con conseguente utilizzabilità delle dichiarazioni rese in tale veste (sentenze n. 2441 del 2015, n. 39981 del 2013, n. 21832 del 2007). A scongiurare il rischio di autoincriminazione sarebbe, d’altra parte, sufficiente l’operatività della causa di non punibilità di cui all’art. 384 cod. pen.
3.– Con ordinanza del 25 giugno 2021 (r.o. n. 168 del 2021), il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, ha nuovamente censurato l’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. – nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi indicati debbano essere rivolti alla persona accusata o indiziata dell’illecito amministrativo di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, che sia sentita in relazione ad un reato collegato ai sensi dell’art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen. – denunziandone il contrasto con gli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU e all’art. 14, paragrafo 3, lettera g), PIDCP.
3.1.– Il rimettente deve decidere in ordine alla convalida dell’arresto e all’applicazione di misure cautelari nei confronti di M.L. D., imputato del delitto di cui all’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti per avere ceduto a titolo oneroso 0,44 grammi di crack a F. R. e per avere detenuto per finalità di spaccio complessivi 4,80 grammi della medesima sostanza.
Anche in questo caso, l’imputato è stato arrestato in flagranza, con l’accusa di avere ceduto lo stupefacente all’acquirente, il quale, sentito dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 351 cod. proc. pen., ha confermato di avere acquistato la sostanza da M.L. D., dichiarando altresì di avere effettuato precedenti acquisti di crack dalla medesima persona.
Il giudice a quo specifica che il rinvenimento nella disponibilità di M.L. D. di 4,80 grammi di crack da solo giustifica la convalida dell’arresto (disposta con contestuale liberazione dell’imputato), laddove invece l’applicazione di misure cautelari richiede la valutazione del compendio probatorio a carico di M.L. D. e, dunque, una decisione in ordine alla utilizzabilità delle dichiarazioni rese da F. R.
Quanto alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente svolge argomentazioni sovrapponibili a quelle contenute nell’ordinanza iscritta al r.o. n. 167 del 2021, soggiungendo che, nel caso di specie, viene in rilievo la cessione di una sostanza compresa nelle Tabelle I e III previste dall’art. 14 t.u. stupefacenti, sicché le sanzioni previste dall’art. 75, comma 1, si applicano per un periodo più lungo rispetto a quello considerato nell’ordinanza iscritta al r.o. n. 167 del 2021 (da due mesi a un anno invece che da uno a tre mesi); e che, alla data di pronuncia dell’ordinanza di rimessione, è stata depositata la sentenza n. 84 del 2021 di questa Corte, che ha «espressamente riconosciuto il diritto al silenzio al soggetto interessato da procedimenti amministrativi comunque funzionali a scoprire illeciti e a individuarne i responsabili e suscettibili di condurre all’applicazione […] di sanzioni amministrative di carattere punitivo».
4.– Anche in questo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo la declaratoria di inammissibilità o non fondatezza delle questioni, sulla base delle stesse argomentazioni svolte nell’atto di intervento depositato nel giudizio iscritto al r.o. n. 167 del 2021, e aggiungendo che la soluzione adottata dalla citata sentenza n. 84 del 2021 non sarebbe estensibile al caso di specie, stante la natura non punitiva delle sanzioni di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti.
Considerato in diritto
1.– Con le due ordinanze indicate in epigrafe il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117 [recte: art. 117, primo comma] della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e all’art. 14, paragrafo 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP) – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, censurandolo «nella parte in cui non prevede che gli avvisi ivi indicati debbano essere rivolti alla persona cui sia contestato l’illecito amministrativo di cui all’art. 75 co. 1 DPR 309/1990, o che sia già raggiunta da elementi indizianti di tale illecito, allorché la stessa sia sentita in relazione ad un reato collegato ai sensi dell’art. 371, co. 2, lettera b) c.p.p.».
1.1.– In entrambi i giudizi a quibus, il giudice rimettente deve procedere alla convalida dell’arresto in flagranza degli indagati e/o alla decisione sulla richiesta di misure cautelari formulata dal pubblico ministero a carico dei medesimi, ai sensi degli artt. 449, comma 1, e 391, commi 4 e 5, cod. proc. pen., per il delitto di cessione di sostanze stupefacenti di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).
Tra gli elementi di prova a carico degli arrestati vi sono i verbali di sommarie informazioni rese da due persone sorprese dalla polizia nell’atto di acquistare sostanze stupefacenti dai due indagati
Il giudice rimettente dubita della possibilità di utilizzare quale prova, ai fini della convalida dell’arresto e della decisione sulla misura cautelare (nel giudizio iscritto al n. 167 del reg. ord. 2021), ovvero della sola decisione sulla misura cautelare (nel giudizio iscritto al n. 168 del reg. ord. 2021), i verbali di sommarie informazioni in questione, dal momento che ai dichiaranti – pur esposti al rischio di vedersi applicate le sanzioni amministrative di cui all’art. 75 t.u. stupefacenti – non sono stati formulati gli avvertimenti previsti dall’art. 64, comma 3, cod. proc. pen. nei confronti delle persone sottoposte alle indagini.
1.2.– Il rimettente muove dal presupposto che le sanzioni previste dall’art. 75 t.u. stupefacenti a carico, segnatamente, di chi acquisti sostanze stupefacenti per farne uso esclusivamente personale, pur se formalmente qualificate come amministrative, abbiano natura sostanzialmente punitiva secondo i criteri Engel.
In base allora ai principi già enunciati da questa Corte nell’ordinanza n. 117 del 2019 e poi ribaditi nella sentenza n. 84 del 2021, la persona nei cui confronti sussistano indizi di commissione di un illecito che comporta la possibile applicazione di tali sanzioni punitive sarebbe titolare, alla pari di chi sia sottoposto a indagini che possano sfociare nell’irrogazione di sanzioni penali in senso stretto, del “diritto al silenzio” fondato sull’art. 24 Cost. e dalle norme europee e internazionali sopra indicate.
La tutela di tale diritto comporterebbe l’obbligo, a carico delle autorità di polizia e giudiziarie che intendano acquisire le dichiarazioni di una persona esposta a sanzioni di carattere punitivo, di avvertire la persona medesima della propria facoltà di non rendere alcuna dichiarazione, senza incorrere per ciò solo in alcuna responsabilità penale. Più in particolare, le norme costituzionali e sovranazionali sulle quali si fonda il diritto al silenzio imporrebbero, secondo il rimettente, di avvertirlo, ai sensi dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., che: «a) le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti; b) salvo quanto disposto dall’articolo 66, comma 1, ha facoltà di non rispondere ad alcuna domanda, ma comunque il procedimento seguirà il suo corso; c) se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri, assumerà, in ordine a tali fatti, l’ufficio di testimone, salve le incompatibilità previste dall’articolo 197 e le garanzie di cui all’articolo 197-bis».
Ad avviso del rimettente, l’omissione di tali avvertimenti non potrebbe che comportare l’inutilizzabilità delle dichiarazioni medesime anche nel procedimento concernente la responsabilità della persona accusata del delitto di cessione di sostanze stupefacenti, giusta il disposto del successivo comma 3-bis, secondo periodo dell’art. 64 cod. proc. pen., secondo cui «[i]n mancanza dell’avvertimento di cui al comma 3, lettera c), le dichiarazioni eventualmente rese dalla persona interrogata su fatti che concernono la responsabilità di altri non sono utilizzabili nei loro confronti e la persona interrogata non potrà assumere, in ordine a detti fatti, l’ufficio di testimone».
2.– Le due ordinanze sollevano questioni identiche, sicché i relativi giudizi debbono essere riuniti ai fini della decisione.
3.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, svolgendo tuttavia unicamente argomenti che attengono al merito delle questioni stesse; sicché l’eccezione costituisce mera formula di rito e deve essere disattesa (sentenza n. 115 del 2022).
3.1.– Le questioni – sollevate in entrambe i casi dal giudice nell’ambito del procedimento, disciplinato dagli artt. 449, comma 1, e art. 391, comma 5, cod. proc. pen., di decisione sulla richiesta di misura cautelare proposta dal pubblico ministero successiva alla convalida dell’arresto – devono, d’altronde, ritenersi ammissibili per le medesime ragioni già indicate da questa Corte nella sentenza n. 137 del 2020.
Non osta alla proponibilità della questione, in particolare, la circostanza che il giudice, nell’atto di sospendere il giudizio, abbia disposto la liberazione dell’arrestato. È vero infatti che l’art. 391, comma 5, cod. proc. pen. presuppone normalmente che il giudice provveda sulla richiesta di misura cautelare nei confronti di persona sottoposta a limitazione della libertà personale, in conseguenza dell’arresto. Tuttavia, nei due casi in esame il giudice ha correttamente sospeso la propria decisione sulla richiesta di misura cautelare, in attesa della decisione delle questioni di legittimità costituzionale che egli ritiene pregiudiziali rispetto a tale decisione, non esaurendo in tal modo la propria potestas decidendi attribuitagli dall’art. 391, comma 5, cod. proc. pen. Così facendo, peraltro, egli ha dovuto necessariamente disporre la liberazione dell’arrestato: e ciò non perché abbia già rigettato la richiesta del pubblico ministero, come nell’ipotesi regolata dal successivo comma 6 del medesimo articolo, ma – semplicemente – in conseguenza della propria mancata decisione su tale richiesta sino alla definizione del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e dalla connessa assenza di un titolo custodiale nei confronti dell’indagato.
Come osservato da questa Corte nella citata sentenza n. 137 del 2020, «[a] ragionare diversamente, il giudice della convalida si troverebbe sistematicamente nell’impossibilità di sollevare questione di legittimità costituzionale sulle norme che disciplinano i presupposti delle misure cautelari, con conseguente creazione di una vera e propria “zona franca” dal giudizio di costituzionalità. Se, infatti, il giudice della convalida – al fine di promuovere l’incidente di costituzionalità – applicasse la misura richiesta dal pubblico ministero, egli non solo limiterebbe la libertà personale dell’arrestato sulla base di presupposti normativi della cui legittimità costituzionale dubita, ma farebbe con ciò stesso applicazione della disposizione censurata, esaurendo il proprio potere decisionale e privando così di rilevanza la stessa questione di legittimità costituzionale».
3.2.– Le questioni debbono altresì ritenersi ammissibili nonostante il giudice non abbia espressamente individuato come bersaglio dei propri dubbi il comma 3-bis, secondo periodo, dell’art. 64 cod. proc. pen., e cioè la disposizione che prevede l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese contra alios laddove non siano stati formulati gli avvertimenti di cui al precedente comma 3, oggetto delle censure del rimettente.
Dal tenore complessivo dell’ordinanza di rimessione, alla cui luce deve essere interpretato il relativo dispositivo (da ultimo, sentenza n. 73 del 2022), si evince infatti che il giudice ha inteso in effetti censurare il combinato disposto dei commi 3 e 3-bis dell’art. 64 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono l’obbligo di formulare gli avvertimenti di cui al comma 3 nei confronti della persona indiziata dell’illecito amministrativo di cui all’art. 75 t.u. stupefacenti, e conseguentemente l’inutilizzabilità – discendente dal comma 3-bis – delle dichiarazioni rese in assenza di tali avvertimenti: inutilizzabilità dalla quale discenderebbe, appunto, l’impossibilità di fondare anche su tali dichiarazioni la misura cautelare richiesta nel procedimento a quo.
In tale contesto, la menzione nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione del solo comma 3 si spiega considerando che il giudice rimettente auspica da parte di questa Corte un intervento soltanto su tale previsione, mentre l’inutilizzabilità delle dichiarazioni acquisite dalla persona indiziata dell’illecito amministrativo in parola, in assenza degli avvertimenti, deriverebbe automaticamente dal comma 3-bis nella sua vigente formulazione, che un’eventuale pronuncia di accoglimento non dovrebbe in alcun modo modificare.
4.– Nel merito, le questioni non sono però fondate.
4.1.– Le due ordinanze di rimessione si imperniano sull’affermazione secondo cui le sanzioni di cui all’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, pur se formalmente qualificate come “amministrative”, avrebbero in realtà natura punitiva secondo i criteri Engel, e come tali attrarrebbero su di sé l’intera gamma delle garanzie, sostanziali e processuali, previste dalla Costituzione e dalle carte europee ed internazionali dei diritti per la materia penale, tra cui segnatamente il “diritto al silenzio”.
Ad avviso del rimettente, in effetti, tali sanzioni avrebbero natura repressiva e non meramente preventiva, dal momento che l’autorità competente ad irrogarle – il prefetto – non sarebbe chiamata ad alcun accertamento sulla effettiva pericolosità dell’interessato, né sulla eventuale trasgressione, da parte di costui, delle norme relative alla circolazione stradale. D’altra parte, si tratterebbe di sanzioni dall’elevata carica afflittiva, come già riconosciuto da questa Corte nella sentenza n. 68 del 2021 in relazione alla revoca della patente di guida, le quali peraltro si lascerebbero spiegare soltanto quali strumenti funzionali a dissuadere i consociati dall’acquistare sostanze stupefacenti e dall’incrementare, in tal modo, il traffico illecito delle sostanze medesime.
4.2.– Questa Corte, tuttavia, non è persuasa da tali argomenti.
4.2.1.– Come già sottolineato nella sentenza n. 109 del 2016, l’art. 75 t.u. stupefacenti «rappresenta il momento saliente di emersione della strategia – cui si ispira la normativa italiana in materia di sostanze stupefacenti e psicotrope a partire dalla legge 22 dicembre 1975, n. 685 (Disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope. Prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) – volta a differenziare, sul piano del trattamento sanzionatorio, la posizione del consumatore della droga da quelle del produttore e del trafficante. L’idea di fondo del legislatore è che l’intervento repressivo debba rivolgersi precipuamente nei confronti dei secondi, dovendosi scorgere, di norma, nella figura del tossicodipendente o del tossicofilo una manifestazione di disadattamento sociale, cui far fronte, se del caso, con interventi di tipo terapeutico e riabilitativo».
4.2.2.– L’intento terapeutico e riabilitativo, alternativo rispetto alla logica della punizione, perseguito dal legislatore nei confronti del consumatore di sostanze stupefacenti si manifesta con particolare evidenza nella disciplina di cui al comma 2 dell’art. 75, che prevede l’invito all’interessato a seguire, «ricorrendone i presupposti», un «programma terapeutico e socio-riabilitativo», ovvero «altro programma educativo e informativo personalizzato in relazione alle [sue] specifiche esigenze», predisposto dal servizio pubblico per le tossicodipendenze o da una struttura privata autorizzata.
Meno evidente appare, invero, la natura giuridica delle «sanzioni» previste dal comma 1, da irrogarsi entro il minimo e il massimo previsto a seconda che la condotta abbia a oggetto droghe cosiddette “pesanti” o “leggere”, e sottoposte a un procedimento applicativo che ricalca in larga misura quello previsto per la generalità delle sanzioni amministrative dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale): la sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni (lettera a); la sospensione della licenza di porto d’armi o il divieto di conseguirla (lettera b); la sospensione del passaporto o di altro documento equipollente, ovvero il divieto di conseguirli (lettera c); la sospensione del permesso di soggiorno per motivi di turismo o il divieto di conseguirlo, per ciò che concerne i cittadini extracomunitari (lettera d).
4.2.3.– Al riguardo, occorre subito sottolineare che l’elevata carica di afflittività di queste misure rispetto ai diritti fondamentali sui quali esse incidono non esclude, di per sé stessa, la loro finalità preventiva, né depone univocamente nel senso di una loro natura “punitiva”.
In effetti, anche la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di cui all’art. 6 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136) comporta, o può comportare, prescrizioni o conseguenze accessorie di contenuto identico o analogo a quelle previste dall’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti, quali segnatamente: il divieto di detenere o portare armi (art. 8, comma 4, cod. antimafia); il divieto di conseguire la patente di guida (art. 120, comma 1, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, recante «Nuovo codice della strada») o la sua revoca (art. 120, comma 2, cod. strada, come modificato dalla sentenza n. 99 del 2020 di questa Corte); l’espulsione dal territorio nazionale relativamente al cittadino di Stato non appartenente all’Unione europea (art. 13, comma 2, lettera c, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, recante «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero»). Quanto poi alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale, prevista dall’art. 6, comma 3, cod. antimafia, essa produce evidentemente una limitazione della libertà di spostarsi nello spazio ben più intensa rispetto al divieto di recarsi in taluni Paesi esteri, conseguente al ritiro del passaporto previsto dall’art. 75, comma 1, lettera c), t.u. stupefacenti.
Ebbene, questa Corte – condividendo la valutazione già espressa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Grande camera, sentenza 23 febbraio 2017, De Tommaso contro Italia, paragrafo 143) – ha negato natura punitiva alla misura della sorveglianza speciale, dalla quale pure discendono tutte queste pesanti limitazioni dei diritti fondamentali della persona, riconoscendone invece una finalità spiccatamente preventiva (sentenza n. 24 del 2019, punto 9.7.1. del Considerato in diritto: «[i]mperniate come sono su un giudizio di persistente pericolosità del soggetto, le misure di prevenzione personale hanno una chiara finalità preventiva anziché punitiva, mirando a limitare la libertà di movimento del loro destinatario per impedirgli di commettere ulteriori reati, o quanto meno per rendergli più difficoltosa la loro realizzazione, consentendo al tempo stesso all’autorità di pubblica sicurezza di esercitare un più efficace controllo sulle possibili iniziative criminose del soggetto. L’indubbia dimensione afflittiva delle misure stesse non è, in quest’ottica, che una conseguenza collaterale di misure il cui scopo essenziale è il controllo, per il futuro, della pericolosità sociale del soggetto interessato: non già la punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato»).
4.2.4.– Identica conclusione si impone, a giudizio di questa Corte, per le misure previste dall’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti.
Una finalità spiccatamente preventiva può, in particolare, essere agevolmente ascritta alla “sanzione” – prevista dalla lettera a) – della sospensione della patente di guida, ovvero del divieto di conseguirla per un periodo fino a tre anni. Tale misura è evidentemente funzionale a prevenire i rischi connessi alla guida di autoveicoli da parte di soggetti in stato di intossicazione: condotta, peraltro, che integra essa stessa l’illecito amministrativo di cui all’art. 187 cod. strada.
Vero è che la recente sentenza n. 68 del 2021 di questa Corte, in una con la copiosa giurisprudenza della Corte EDU ivi puntualmente richiamata (punto 6 del Considerato in diritto), ha riconosciuto «connotazioni sostanzialmente punitive (sia pur non disgiunte da finalità di tutela degli interessi coinvolti dalla circolazione dei veicoli a motore, secondo uno schema tipico delle misure sanzionatorie consistenti nell’interdizione di una determinata attività)» alla revoca della patente disposta dal giudice penale con la sentenza di condanna o di patteggiamento della pena per i reati di omicidio stradale o lesioni personali stradali gravi o gravissime, di cui agli artt. 589-bis e 590-bis del codice penale. Ma tanto quella specifica misura, così come quelle analoghe oggetto delle sentenze europee ivi citate, costituiscono sanzioni irrogate direttamente dal giudice penale nella stessa sentenza di condanna, ovvero dall’autorità amministrativa a seguito della condanna penale dell’interessato per un fatto costituente reato; mentre nell’ipotesi regolata dall’art. 75 t.u. stupefacenti la misura è disposta dall’autorità amministrativa in conseguenza dell’accertamento di un fatto che l’ordinamento ha scelto di non qualificare come reato, e che quindi non dà luogo ad alcuna conseguenza di natura penale a carico dell’interessato. Tale fatto d’altra parte, denota – nella non irragionevole valutazione del legislatore – la possibile pericolosità del suo autore per la generalità degli utenti del traffico, in considerazione del rischio che egli si ponga alla guida di un autoveicolo in una condizione di alterazione psicofisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti.
Analogamente, la sospensione della licenza di porto d’armi e il divieto di conseguirla appaiono misure strumentali a evitare l’abuso intenzionale, o anche solo l’uso non accorto, di armi da parte di un soggetto con minori capacità di autocontrollo per effetto dell’assunzione di sostanze stupefacenti; mentre la misura di cui alla lettera d) sottende evidentemente il venir meno dei requisiti morali minimi ai quali è subordinato il rilascio, o la persistente validità, del permesso di soggiorno per motivi di turismo nei confronti dello straniero extracomunitario, in conseguenza del paventato pericolo di turbamento dell’ordine pubblico connesso al consumo di sostanze stupefacenti da parte di costui.
4.2.5.– Per altro verso, la natura preventiva delle “sanzioni” in questione, certamente corrispondente alle intenzioni del legislatore, segna anche il limite dei poteri dell’autorità amministrativa nell’esercizio della propria discrezionalità rispetto alla loro irrogazione nel caso concreto.
L’art. 75, comma 1, t.u. stupefacenti stabilisce attualmente – con scelta la cui legittimità costituzionale non è in questa sede in discussione – che il prefetto debba disporre, a carico di chi sia sorpreso a compiere una delle condotte ivi elencate, una o più tra le quattro tipologie di sanzioni indicate, salvo che non sussistano gli estremi per definire il procedimento – limitatamente alla prima violazione – con un semplice «invito a non fare più uso» di sostanze stupefacenti o psicotrope e contestuale avvertimento circa le conseguenze di una successiva violazione, laddove «ricorr[a]no elementi tali da far presumere che la persona si asterrà, per il futuro, dal commettere» fatti analoghi (art. 75, comma 14, t.u. stupefacenti).
Nell’esercitare, dunque, la propria discrezionalità nella decisione relativa tanto all’an (nei limiti consentiti dal menzionato comma 14), quanto alla tipologia delle sanzioni da irrogare in concreto e alla loro durata, il prefetto non potrà non orientarsi alla logica preventiva che sorregge la scelta legislativa. Ogni determinazione relativa alla sanzione, e alla sua concreta durata, dovrà pertanto giustificarsi al metro dei criteri di idoneità, necessità e proporzionalità rispetto alle legittime finalità di ciascuna sanzione, alla luce delle caratteristiche del caso concreto, e segnatamente della peculiare situazione del destinatario delle misure. Questi potrebbe collocarsi in qualsiasi punto, estremo o intermedio, dell’ideale scala che conduce dalla figura del consumatore occasionale di una droga “leggera” sino a quella di un tossicodipendente il cui comportamento sia ormai gravemente condizionato dall’uso continuo di sostanze stupefacenti, e nei cui confronti certamente sussisteranno, ad esempio, ragioni cogenti per sospendere la patente di guida e la licenza di porto d’armi.
In tali valutazioni dovrà invece restare a priori esclusa ogni impropria logica punitiva, la quale chiamerebbe necessariamente in causa lo statuto costituzionale della responsabilità penale, incluso lo stesso “diritto al silenzio” nell’ambito del procedimento applicativo delle sanzioni qui all’esame.
4.2.6.– In questi termini – e fatta salva la possibilità di puntuali verifiche relative alla legittimità costituzionale di singoli aspetti della disciplina di cui all’art. 75 t.u. stupefacenti – deve dunque escludersi che le sanzioni ivi disciplinate siano, nel loro complesso, connotate da natura e finalità punitiva.
4.3.– La conclusione appena raggiunta determina il venir meno del presupposto essenziale su cui si fondano i dubbi sollevati dal rimettente, il quale lamenta la violazione del diritto al silenzio della persona esposta alle sanzioni in parola sulla base – appunto – della loro allegata natura punitiva.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e all’art. 14, paragrafo 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP), dal Tribunale ordinario di Firenze con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 maggio 2022.
F.to:
Giuliano AMATO, Presidente
Francesco VIGANÒ, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 14 giugno 2022.