SENTENZA N. 12
ANNO 2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giancarlo CORAGGIO;
Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446(Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia nel giudizio vertente tra il Credito Emiliano Holding spa e l’Agenzia delle entrate - Direzione provinciale di Reggio Emilia, con ordinanza del 18 dicembre 2020, iscritta al n. 52 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2021.
Visti l’atto di costituzione di Credito Emiliano Holding spa, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 30 novembre 2021 il Giudice relatore Luca Antonini;
uditi l’avvocato Cristiano Caumont Caimi per la Credito Emiliano Holding spa e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 30 novembre 2021.
Ritenuto in fatto
1.– La Commissione tributaria provinciale (CTP) di Reggio Emilia, con ordinanza del 18 dicembre 2020 (r.o. n. 52 del 2021), ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dell’art. 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 (Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali), nella parte in cui prevede (nel testo applicabile ratione temporis) che «[p]er le banche e gli altri enti e società finanziari […] la base imponibile è determinata dalla somma algebrica delle seguenti voci del conto economico: […] a) margine d’intermediazione ridotto del 50 per cento dei dividendi», anziché prevedere, nella stessa lettera a), che il margine d’intermediazione sia computato per intero, ma con riguardo, tra i dividendi che entrano a far parte della sua determinazione, esclusivamente a quelli derivanti dalle attività finanziarie detenute per la negoziazione, per come indicati nella lettera A) della nota integrativa alla voce 70 del conto economico del bilancio bancario.
1.1.– Il rimettente riferisce che la questione è sorta nel corso di un giudizio promosso dalla Credito Emiliano Holding spa (CEH) avverso il silenzio rifiuto dell’Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Reggio Emilia, formatosi sull’istanza di rimborso della quota dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) (pari a euro 3.842.800,91) versata, nei periodi di imposta 2013, 2014, 2015 e 2016, in ragione del 50 per cento dei dividendi conseguiti dalla propria controllata Credito Emiliano spa, ovverosia da partecipazioni non detenute per la negoziazione (nell’ordinanza definiti «dividendi interni»). Il giudice a quo precisa che non costituisce invece oggetto della richiesta di rimborso la quota dell’IRAP corrispondente al 50 per cento dei restanti dividendi (pari a euro 45,15) percepiti dalla società in ragione di partecipazioni detenute per la negoziazione e iscritti alla lettera A) della nota integrativa alla voce 70 (voce denominata «Dividendi e proventi simili») del conto economico del bilancio bancario (nell’ordinanza definiti «dividendi da trading»).
In particolare il rimettente ricorda che la richiesta di rimborso si basava sulla censura del citato art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 446 del 1997 dedotta: a) in via principale, per incompatibilità con l’art. 4, paragrafi 1 e 3, della direttiva 2011/96/UE del Consiglio, del 30 novembre 2011, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi (cosiddetta direttiva “Madre-Figlia”), assunta come direttamente applicabile al diritto interno sulla base dell’interpretazione della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE sentenza 17 maggio 2017, in causa C-365/16, AFEP e altri; sentenza 17 maggio 2017, in causa C-68/15, X); b) e, per l’effetto, «in via subordinata», per incompatibilità con il diritto di stabilimento di cui agli articoli da 49 a 55 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), come modificato dall'art. 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 e ratificato dalla legge 2 agosto 2008, n. 130, del principio di libera circolazione di cui all’art. 63 TFUE e di capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 Cost. in quanto si verrebbe a configurare «un regime di imposizione più oneroso dei dividendi interni» rispetto a quello dei «dividendi europei» (cosiddetta discriminazione “alla rovescia”); c) «in via ulteriormente subordinata», per violazione dell’art. 3 Cost., quanto al «principio di proporzionalità del mezzo rispetto al fine» poiché prevede l’assoggettamento a IRAP di un importo forfetario dei dividendi, includendo anche quelli non detenuti per la negoziazione, i quali, non essendo percepiti dalla banca nell’esercizio della sua attività caratteristica, non dovrebbero scontare l’IRAP.
La CTP rimettente, disattesi i motivi di doglianza sub a) e sub b), ritenendo non applicabile la direttiva “Madre-Figlia” all’IRAP, trattandosi a suo avviso di un prelievo non qualificabile come «imposta sulle società in Italia», considera non manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.
1.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente premette che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il legislatore sarebbe «libero di scegliere le finalità, il programma e il principio da sviluppare con le proprie disposizioni»; tuttavia, «una volta scelto il principio, lo d[ovrebbe] sviluppare con coerenza, senza escludere dalla fattispecie situazioni in essa ragionevolmente sussumibili […] e senza includervi situazioni ragionevolmente distinguibili», pena la violazione del menzionato art. 3 Cost.
Nella specie, l’irragionevolezza del censurato art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 446 del 1997, deriverebbe dall’avere disposto una forfetizzazione diretta a quantificare i «dividendi da trading» in misura pari al 50 per cento di quelli complessivamente rilevati nella Voce 70 del conto economico del bilancio bancario, pur in presenza delle condizioni per procedere a una determinazione analitica e integrale degli stessi «dividendi da trading», gli unici ad essere ritenuti imponibili dal rimettente. Essi sarebbero infatti «separatamente e precisamente» iscritti alla lettera A) della predetta voce 70 e, «quindi, identificabili con assoluta precisione». Tale meccanismo forfetario risulterebbe pertanto sproporzionato rispetto alla ratio della norma che, ad avviso del rimettente, sarebbe quella di «intercettare» integralmente, ai fini dell’IRAP, i soli «dividendi da trading».
Più precisamente, la CTP muove tale doglianza dai seguenti assunti: a) l’IRAP avrebbe a oggetto il valore prodotto dalla “attività caratteristica” dell’impresa; b) tra le “attività caratteristiche” delle banche e degli altri enti e società finanziarie rientrerebbe quella di negoziazione titoli e non già quelle afferenti alla gestione di partecipazioni, specie se di controllo.
1.3.– In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che l’accoglimento della questione comporterebbe la debenza del tributo solo in relazione ai «dividendi da trading» e, conseguentemente, il diritto al rimborso dell’IRAP – oltre a interessi – nei termini richiesti dalla ricorrente.
2.– Con atto depositato il 14 maggio 2021 si è costituita in giudizio la CEH, chiedendo l’accoglimento della questione in sostanziale adesione alle motivazioni del rimettente.
La società afferma infatti che la norma censurata sarebbe irragionevole e sproporzionata rispetto alla ratio, che sarebbe ad essa sottesa, di tassare i soli dividendi derivanti da azioni acquisite nell’ambito di attività di negoziazione svolte da banche, da altri enti e società finanziarie, in coerenza con l’affermata funzione dell’IRAP di assoggettare a imposizione esclusivamente l’“attività caratteristica” dell’impresa.
2.1.– A sostegno di tale interpretazione la difesa della società illustra i tratti essenziali della disciplina della base imponibile dell’IRAP, distinguendo le regole generali, prescritte per le società e gli enti commerciali che non esercitano attività finanziaria e assicurativa (art. 5 del d.lgs. n. 446 del 1997), da quelle specifiche, stabilite proprio per le banche e per gli altri enti e società finanziarie (art. 6 del medesimo decreto legislativo).
In particolare, per questi ultimi il legislatore avrebbe previsto che il valore aggiunto oggetto dell’imposizione ai fini IRAP sarebbe il risultato della somma algebrica di alcune voci del conto economico del bilancio redatto secondo i principi contabili internazionali e secondo gli schemi risultanti dai provvedimenti della Banca d’Italia; ovvero segnatamente: il margine d’intermediazione ridotto del 50 per cento dei dividendi; gli ammortamenti dei beni materiali e immateriali ad uso funzionale per un importo pari al 90 per cento; le altre spese amministrative per un importo pari al 90 per cento; le rettifiche e riprese di valore nette per deterioramento dei crediti, limitatamente a quelle riconducibili ai crediti verso la clientela iscritti in bilancio a tale titolo. Nella prospettazione della CEH, tale elencazione, volutamente articolata e frutto dell’evoluzione normativa, confermerebbe la rilevanza dei soli risultati della gestione ordinaria caratteristica dell’impresa (al netto della forfetizzazione prevista dalla norma censurata per i dividendi), «come tale, comprensiva sia delle attività compiute in via continuativa e che esprimono la parte peculiare e distintiva dell’attività a cui l’organizzazione è finalizzata, sia di tutte le altre attività aventi carattere “normale” (recte: non estranee alla gestione tipica e accessoria) e ricorrente per l’impresa».
2.2.– Ciò premesso, la società ripercorre la giurisprudenza di questa Corte che considera insindacabile la discrezionalità del legislatore, salvo il solo limite della non manifesta irragionevolezza (sono citate le sentenze n. 212 e n. 115 del 2019; n. 147 del 2017), che dovrebbe comunque essere verificata alla luce della coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, come pure della non arbitrarietà dell’entità dell’imposizione. Ciò anche in accordo con la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea sul principio di proporzionalità (sono citate le sentenze 8 aprile 2014, in cause riunite C-293/12 e C-594/12, Digital Rights Ireland ltd., e 10 dicembre 2002, in causa C-491/01, British American Tobacco ltd. e altri).
Ad avviso della società, tale indirizzo giurisprudenziale, ulteriormente ribadito dalla sentenza n. 262 del 2020, confermerebbe la fondatezza della questione. E infatti, il denunciato art. 6, comma 1, lettera a), avrebbe previsto «in modo arbitrario e indiscriminato» il parziale assoggettamento a tassazione di tutti i dividendi rilevati nella voce 70 del conto economico del bilancio bancario, «assumendo presuntivamente che una parte di essi, forfetariamente determinata in misura pari al 50 per cento, derivi dall’attività di “trading”, in luogo di una determinazione analitica degli stessi», atteso che la loro contabilizzazione sarebbe normativamente separata. Ciò, nonostante che l’iper-regolazione e vigilanza del settore garantisca la massima analiticità dei dati richiesti e forniti dalle banche a livello finanziario, contabile e fiscale.
2.2.1– Secondo la difesa della società a tali considerazioni non sarebbe possibile contrapporre ragioni di semplificazione perché «l’intercettazione dei dividendi da “trading” può agevolmente compiersi in ragione della struttura del bilancio bancario».
2.2.2.– In conclusione, ad avviso della parte, l’utilizzo del meccanismo forfetario di cui all’art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 446 del 1997 sarebbe «distonico e lesivo dei principi» sopra enunciati: a) perché l’asserito obiettivo della tassazione dei soli dividendi da trading si sarebbe potuto realizzare mediante una specifica previsione di imponibilità solo di questi, laddove, invece, l’inclusione nella determinazione della base imponibile dell’IRAP dei dividendi da partecipazione «che sarebbero dovuti rimanere fuori, per ragioni di tipo “qualitativo”», comprometterebbe «il vincolo di coerenza con l’assetto dell’imposta»; b) perché le ragioni di semplificazione del calcolo del tributo «che sottostanno al meccanismo della forfetizzazione» non sarebbero idonee a giustificare il concorso di tutti i dividendi alla formazione della base imponibile, sotto il profilo dell’adeguatezza e ragionevolezza delle scelte legislative, stante lo schema dei bilancio di Banca d’Italia e la costante vigilanza, che non giustificherebbero la predetta forfetizzazione «non essendo ravvisabile alcun ostacolo/impedimento all’attività di verifica e accertamento».
2.2.3.– Osserva poi la CEH che la norma censurata, nel far concorrere a tassazione tutti i dividendi percepiti dalle banche, determinerebbe in termini di gettito «un risultato del tutto “erratico”» di maggiore o minore prelievo dell’IRAP, «senza che questo risultato sia minimamente ancorato alle logiche dell’imposta in esame», che sarebbero invece improntate al principio del concorso delle sole voci della gestione caratteristica dell’impresa.
3.– Con atto depositato il 17 maggio 2021, l’Associazione nazionale tributaristi italiani, sezione Lombardia (ANTI Lombardia) ha presentato un’opinione scritta in qualità di amicus curiae, ai sensi dell’art. 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, a sostegno della fondatezza della questione.
Il Presidente della Corte costituzionale, rilevata la conformità dell’opinione ai criteri previsti dal citato art. 4-ter, l’ha ammessa con decreto del 7 settembre 2021.
In particolare, l’ANTI Lombardia – sulla base di una ricostruzione normativa fondata essenzialmente sugli artt. 10 e 160 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia) e sull’art. 1, commi 5 e 5-bis, del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52) – ritiene i «dividendi da trading» gli unici proventi derivanti da strumenti finanziari riconducibili alla “attività caratteristica” delle banche e degli enti e società finanziarie, come tali da considerare rilevanti ai fini della tassazione dell’IRAP. Ciò – si sostiene – troverebbe conferma, anche in chiave retrospettiva, nella previgente formulazione dell’art. 6 del d.lgs. n. 446 del 1997.
All’irragionevolezza della norma censurata concorrerebbero, secondo la ricostruzione dell’ANTI, sia la possibilità di individuare analiticamente i «dividendi da trading», mediante il riferimento alla lettera A) della voce 70 del conto economico del bilancio bancario; sia la contraddizione rispetto all’asserito intento della novella apportata dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)», di «correggere evidenti incongruenze presenti nelle allora vigenti disposizioni normative, le quali, proprio al fine della determinazione della base imponibile del tributo, racchiudevano tra l’altro componenti o valori non pertinenti alla gestione caratteristica della specifica attività considerata».
4.– Con atto depositato il 18 maggio 2021, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata.
4.1.– A sostegno dell’inammissibilità, la difesa dello Stato evidenzia, innanzitutto, che l’accoglimento del petitum, inteso in senso ablativo, comporterebbe l’eliminazione dall’art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 446 del 1997 «anche» della disposizione che stabilisce la dimidiazione dei dividendi, cosicché essi concorrerebbero interamente alla determinazione della base imponibile dell’IRAP nel loro effettivo ammontare, «con conseguente incremento dell’imposta dovuta». Per l’effetto, al termine della rideterminazione dell’IRAP da parte dell’ente impositore, la società potrebbe addirittura essere tenuta a corrispondere un’ulteriore quota di imposta rispetto a quanto già versato.
L’Avvocatura generale eccepisce poi l’inammissibilità della questione perché non sarebbe dimostrabile che la soluzione della integrale deducibilità dei soli dividendi relativi ad attività non detenute per la negoziazione sia «costituzionalmente obbligata», né il rimettente lo avrebbe dimostrato.
In ogni caso, conclude la difesa statale, anche a intendere il petitum in tal senso, la questione sarebbe inammissibile in quanto «manipolativa e additiva della disposizione di legge».
4.2.– Nel merito, l’Avvocatura generale contesta la ratio interpretativa individuata dal rimettente a sostegno della censura e illustra un diverso percorso ermeneutico a conforto della non fondatezza della questione.
In particolare, la difesa dello Stato precisa che l’art. 6, comma 1, lettera a), oggetto dell’incidente di costituzionalità, è stato introdotto dall’art. 1, comma 50, lettera c), della legge n. 244 del 2007 al dichiarato fine di «semplificare le regole di determinazione della base imponibile dell’IRAP». Nel previgente quadro normativo, infatti, la base imponibile dell’IRAP sarebbe stata «percepita come una sorta di “duplicazione”» di quella dell’imposta sui redditi delle società (IRES), da qui la necessità di procedere a uno «sganciamento» dei due tributi anche al fine di adeguare l’IRAP alla propria natura di imposta reale (è citata la sentenza di questa Corte n. 156 del 2001). Ciò sarebbe stato perseguito eliminando ai fini dell’IRAP le variazioni fiscali in materia di imposte sul reddito e modificando la disciplina del tributo per avvicinarla maggiormente ai criteri adottati in contabilità nazionale per il calcolo del valore della produzione netta nei vari settori economici. Per ragioni di coerenza sistematica tale innovazione avrebbe coinvolto le banche e gli altri enti e società finanziarie che per scelta o per obbligo adottano i principi contabili internazionali, dai quali discenderebbe, tra l’altro, la classificazione dei dividendi «in dividendi da attività detenute per la negoziazione e dividendi da attività finanziarie non detenute per la negoziazione».
In ragione di quanto sopra osservato, anche sulla base della relazione illustrativa della riforma, ad avviso dell’Avvocatura generale, «non [risulterebbe] che la finalità della nuova norma [sarebbe] quella individuata nell’ordinanza di rimessione» dell’assoggettamento a tassazione dei soli dividendi da attività finanziarie detenute per la negoziazione.
Alla luce del quadro normativo delineato dalla difesa dello Stato, la prescritta derivazione della base imponibile IRAP dal conto economico del bilancio bancario e lo specifico rilievo attribuito al margine di intermediazione, quale voce del medesimo conto rappresentativa del «valore che una banca è riuscita ad ottenere dalla sua attività principale, quella legata alla mediazione tra domanda e offerta di credito», renderebbero «perfettamente ragionevole» l’inclusione in esso di tutti i dividendi.
4.2.1.– In tale prospettiva, osserva l’Avvocatura, l’esclusione del 50 per cento dei dividendi sarebbe una misura di favore, tesa sia a «riconoscere una forma di deduzione del costo finanziario rappresentato dalla detenzione delle attività finanziarie nell’esercizio (il “magazzino titoli”)», sia a fungere da incentivo alla stessa «detenzione in patrimonio dei titoli, favorendo il loro impiego per finalità di rendimento (con il conseguimento dei dividendi), anziché per mera finalità di “trading” a breve».
Ciò confermerebbe la non fondatezza della questione, poiché la norma censurata sarebbe espressione della discrezionalità del legislatore nel conformare la disciplina della base imponibile dell’IRAP, avuto riguardo alla specificità del comparto bancario, in senso «aderente alla realtà finanziaria e patrimoniale delle banche».
5.– In data 8 novembre 2021, la CEH ha depositato memoria replicando alle argomentazioni dell’Avvocatura generale e ribadendo le ragioni già spese nell’atto di costituzione a sostegno della fondatezza della questione.
5.1.– In particolare, quanto alle ragioni di inammissibilità addotte dall’interveniente, la società innanzitutto contesta l’affermazione secondo cui un eventuale accoglimento della censura «consentirebbe all’interprete di determinare la base imponibile IRAP assoggettando a tassazione integrale tutti i dividendi, e non solo i dividendi da trading», atteso che la base imponibile dell’IRAP sarebbe data dai risultati dell’attività caratteristica dell’impresa, tra cui rientrerebbero i soli «dividendi da trading», «e non invece i dividendi che derivano dalla gestione “statica” del patrimonio, in quanto tali esclusi dal calcolo dell’imposta».
Nemmeno fondata sarebbe quindi l’eccezione dell’Avvocatura per cui l’accoglimento comporterebbe «necessariamente» un incremento del carico fiscale in capo ai soggetti passivi.
Né – sostiene la CEH – ci si troverebbe dinanzi a un’inammissibile pronuncia manipolativa e additiva della disposizione di legge all’esame, poiché nella specie, sussisterebbero «i presupposti per emettere […] una pronuncia che […] “sostituisca” la deduzione forfetaria della quota dei dividendi esenti con una deduzione analitica degli stessi».
5.2.– Nel merito, la società precisa innanzitutto come la ratio giuridico-economica e il presupposto dell’IRAP, alla luce dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 446 del 1997, consisterebbero nell’esercizio di una “attività produttiva”, «vale a dire di un’attività diversa dalla mera gestione “improduttiva” del patrimonio (c.d. “attività statica”, consistente nel mettere un bene a disposizione di altri o nel goderne direttamente)». In quest’ottica, “gestione caratteristica” delle banche sarebbe «l’attività di acquisto e di vendita di strumenti finanziari in contropartita diretta, mediante l’uso del denaro raccolto tra il pubblico, attività da cui derivano, tra l’altro, i dividendi da trading», e da cui «[s]pecularmente, fuoriescono […] gli altri dividendi, derivando da una attività, l’investimento duraturo in partecipazioni societarie (immobilizzate), che nulla ha a che fare con la raccolta del denaro sul mercato»; distinzione che – secondo la CEH – si rifletterebbe poi nella voce 70 del conto economico del bilancio bancario.
Ciò renderebbe non ragionevole una disciplina che stabilisca l’incidenza nell’imponibile dell’IRAP dei dividendi (seppur dimidiati) derivanti dall’attività di gestione del patrimonio. Una tale deroga all’asserito principio di rilevanza dei soli proventi derivanti da attività caratteristica non potrebbe infatti trovare giustificazione: né nella specificità delle regole dettate per le banche e gli altri enti e società finanziarie e, in particolare, nel principio di “derivazione rafforzata” dal bilancio; né nella ratio di semplificazione della novella del 2008; né, infine, dal riferimento al “margine di intermediazione” e dalla confluenza nella voce 70 del conto economico del bilancio bancario di tutti i dividendi, poiché la distinzione tra dividendi “da trading” ed “interni”, pur irrilevante contabilmente, «ai fini IRAP, […] mant[errebbe] importanza fondamentale».
5.3.– Da ultimo la CEH contesta la tesi dell’Avvocatura generale circa la ratio della forfetizzazione al 50 per cento dei dividendi quale forma di riconoscimento dei “costi finanziari” del magazzino titoli, ritenendo ciò escluso sia dalla lettera della norma (che ne mostrerebbe la finalità «di sgravare parzialmente un componente attivo, piuttosto che di riconoscere la deduzione di un componente passivo»); sia dal fatto che «i dividendi non hanno di per sé “un costo” di produzione e che comunque tale costo non può essere rappresentato dalle fluttuazioni negative dei titoli sottostanti».
6.– In data 9 novembre 2021 l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria, ribadendo quanto dedotto nel proprio atto di costituzione in giudizio e chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata per le seguenti ulteriori ragioni.
6.1.– In primo luogo, la difesa pubblica eccepisce l’inammissibilità della questione per difetto di motivazione in ordine alla sua rilevanza nel giudizio a quo in quanto la società ricorrente CEH non sarebbe in realtà una banca, ma una holding bancaria, ossia una società detentrice del controllo di un’altra banca. Pertanto – ancorché l’applicabilità del censurato art. 6, comma 1, lettera a), a tali soggetti derivi dal rinvio operato dall’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 87 (Attuazione della direttiva n. 86/635/CEE relativa ai conti annuali ed ai conti consolidati delle banche e degli altri istituti finanziari, e della direttiva n. 89/117/CEE relativa agli obblighi in materia di pubblicità dei documenti contabili delle succursali, stabilite in uno Stato membro, di enti creditizi ed istituti finanziari con sede sociale fuori di tale Stato membro) – la CTP avrebbe dovuto preliminarmente motivare la riferibilità alle holding bancarie degli illustrati presupposti interpretativi da cui muove la censura, atteso che l’attività caratteristica di questi soggetti consisterebbe proprio nel possesso di partecipazioni azionarie stabili, «[a]nzi, con specifico riguardo alle capogruppo bancarie, dagli artt. 60 e 61 del TUB risulta che tali partecipazioni debbono essere tali che alla capogruppo faccia capo il controllo delle banche componenti il gruppo».
6.2.– In secondo luogo, e correlativamente, l’inammissibilità della questione deriverebbe dalla sua «genericità», giacché l’ordinanza di rinvio non avrebbe esplorato una soluzione interpretativa che riconosca la piena legittimità costituzionale della norma censurata ove riferita a soggetti la cui attività caratteristica sia, appunto, il possesso stabile di partecipazioni azionarie di controllo.
6.3.– Da ultimo, l’Avvocatura generale ribadisce, nel merito, la manifesta infondatezza della questione.
In particolare, l’interveniente insiste nel ritenere che, ai fini dell’odierno vaglio di legittimità costituzionale, assumerebbe valenza decisiva il concetto di “margine di intermediazione”, esplicitamente richiamato in senso tecnico dalla norma censurata: esso sarebbe funzionale – nella sua complessità – a indicare la solidità dei soggetti appartenenti al comparto bancario. In questa prospettiva sarebbe dunque ragionevole che i dividendi (indipendentemente dalla tipologia di partecipazioni da cui originano) concorrano al “margine di intermediazione”, atteso che anche tale componente – insieme al “margine di interesse” e alle “commissioni” – «contribui[rebbe] al risultato complessivo della gestione».
Osserva, peraltro, che quella dei dividendi costituirebbe una componente tanto più rilevante quanto più le banche si trovano costrette a operare in periodi di crisi connotati da “margini di interesse” negativi (come avvenuto, fa notare la difesa erariale, durante la crisi finanziaria del 2007 e negli anni seguenti).
Tutto ciò considerato, la difesa statale ritiene che «non [sarebbe] dunque corretto isolare una presunta “gestione caratteristica”», asseritamente costituita soltanto dal costo della raccolta del risparmio e dal provento dell’esercizio del credito, escludendo dal valore della produzione dell’impresa bancaria tutte le altre voci di ricavo che comunque «parimenti» concorrerebbero alla determinazione positiva del margine di intermediazione.
Ad avviso dell’Avvocatura generale, l’irrilevanza della distinzione – posta invece a fondamento dell’ordinanza di rinvio – tra partecipazioni detenute e non detenute per la negoziazione, sarebbe confermata proprio dalle regole stabilite dalla Banca d’Italia nella definizione degli schemi di bilancio bancario (circolare 22 dicembre 2005, n. 262, della Banca d’Italia, nell’aggiornamento applicabile ratione temporis) e dai relativi principi contabili internazionali (cui detti schemi devono ispirarsi), atteso che tale distinzione opererebbe al solo fine di assoggettare dette partecipazioni a diversi criteri di valutazione patrimoniale. Talché si tratterebbe di «una distinzione [che] non ha alcuna importanza al fine di qualificare i flussi reddituali che gli uni e gli altri strumenti possono generare».
Da qui la considerazione che l’inclusione dimidiata di tutti i dividendi, a prescindere dalla loro fonte, nella base imponibile dell’IRAP non contrasterebbe in alcun modo con l’attività propria dell’impresa bancaria; anzi, ciò dimostrerebbe invece, il carattere irrazionale di una distinzione tra tali componenti ai fini di un’imposta la cui base imponibile voglia essere attendibilmente identificata con il reale valore della produzione dell’impresa bancaria.
Considerato in diritto
1.– Con l’ordinanza menzionata in epigrafe (r.o. n. 52 del 2021), la Commissione tributaria provinciale (CTP) di Reggio Emilia, nel corso di un giudizio promosso da una holding di partecipazioni in società finanziarie nei confronti dell’Agenzia delle entrate avverso il silenzio rifiuto formatosi sulla richiesta di rimborso dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) versata per gli anni dal 2013 al 2016, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità dell’art. 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 (Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali), nella parte in cui prevede (nel testo applicabile ratione temporis) che, «[p]er le banche e gli altri enti e società finanziari […], la base imponibile è determinata dalla somma algebrica delle seguenti voci del conto economico: […] a) margine d’intermediazione ridotto del 50 per cento dei dividendi; […]», anziché prevedere, nella stessa lettera a), che il margine d’intermediazione sia computato per intero, ma con riguardo, tra i dividendi che entrano a far parte della sua determinazione, esclusivamente a quelli derivanti dalle attività finanziarie detenute per la negoziazione, indicati nella lettera A) della nota integrativa alla voce 70 del conto economico del bilancio bancario redatto in conformità agli schemi risultanti dai provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 9, comma 1, del decreto legislativo 28 febbraio 2005, n. 38, recante «Esercizio delle opzioni previste dall’articolo 5 del regolamento (CE) n. 1606/2002 in materia di principi contabili internazionali».
In altri termini, il giudice a quo considera intrinsecamente irragionevole nonché sproporzionato (e, quindi, in contrasto con l’art. 3 Cost.) che, nella costruzione dell’imponibile del tributo, la norma denunciata proceda alla valutazione meramente forfetaria e approssimativa di un elemento economico che, invece, può essere agevolmente individuato in modo analitico, pieno e preciso.
2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, ha preliminarmente eccepito plurime ragioni d’inammissibilità della questione.
Tutte le eccezioni devono essere respinte sotto ogni profilo.
2.1.– Innanzitutto non inficia l’ammissibilità della censura la circostanza addotta dall’Avvocatura per cui l’accoglimento del petitum inteso in senso ablativo comporterebbe l’eliminazione dall’art. 6, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 446 del 1997 «anche» della disposizione che consente la dimidiazione dei dividendi, cosicché essi concorrerebbero interamente alla determinazione della base imponibile dell’IRAP nel loro effettivo ammontare, «con conseguente incremento dell’imposta dovuta».
L’eccezione non è chiaramente formulata: essa appare comunque incentrata sugli effetti svantaggiosi per la ricorrente di una eventuale pronuncia di incostituzionalità (peraltro solo ipotetici) e si basa, perciò, su un’asserita contraddizione tra l’intento del contribuente di ottenere il rimborso e gli effetti contrari a tale intento, che, in astratto, potrebbero derivare dall’accoglimento della questione.
Occorre però osservare che, a fini dell’ammissibilità della questione, è sufficiente che il rimettente sia effettivamente chiamato a fare applicazione della norma censurata, mentre non hanno rilevanza gli effetti sfavorevoli che potrebbero derivare per il contribuente nel caso di accoglimento (ex plurimis, sentenze n. 84, n. 59 e n. 48 del 2021 e n. 20 del 2018). Pertanto, anche ove l’ordinanza fosse interpretabile nel senso prospettato dall’Avvocatura dello Stato, non sussisterebbe alcuna contraddizione tra l’intento della ricorrente e il petitum del rimettente.
In ogni caso l’eccezione è infondata anche perché imperniata su una errata interpretazione della richiesta formulata dalla CTP, intesa – appunto – come meramente ablativa. Da una lettura complessiva dell’ordinanza si evince infatti che il petitum è chiaramente orientato verso una pronuncia sostitutiva nei termini già sopra descritti.
2.2.– Nemmeno fondata è poi l’eccezione per cui non sarebbe dimostrabile – né il giudice a quo lo avrebbe dimostrato – che la sola «soluzione costituzionalmente obbligata» sia l’integrale deducibilità dei dividendi diversi da quelli che l’ordinanza definisce «dividendi da trading».
Fermo restando che ai fini dell’ammissibilità delle questioni non è necessario che esista un’unica soluzione costituzionalmente obbligata (ex plurimis, sentenze n. 157 e n. 63 del 2021), va rilevato che, interpretata in termini logico-sistematici, la sequenza argomentativa del rimettente mostra di muovere dall’assunto che la ratio della norma sia quella di computare nell’imponibile esclusivamente i dividendi da trading e pertanto censura il criterio della loro forfetizzazione tramite la riduzione alla metà della somma di tutti i tipi di dividendi: non v’è perciò spazio per un’opzione alternativa, dal momento che su quelle premesse (giuste o sbagliate che siano) non è possibile alcun altro percorso ermeneutico (ex plurimis, sentenza n. 102 del 2021).
2.3.– Parimenti non fondata è l’ulteriore eccezione, in realtà contigua alla precedente, di inammissibilità della questione in quanto questa sarebbe finalizzata a ottenere una pronuncia manipolativa: la CTP auspica infatti una modifica della norma censurata nel senso dell’integrale deducibilità dei dividendi diversi da quelli derivanti da attività detenute per la negoziazione (che, coerentemente con le premesse già illustrate, dovrebbero essere invece integralmente tassati).
Seppure sia innegabile che la richiesta del rimettente implichi un elevato grado di manipolazione del testo normativo, se valutato sotto il profilo della coerenza tra la selezione “a monte” del presupposto dell’IRAP e le regole di determinazione della base imponibile “a valle”, con specifico riguardo alle imprese bancarie, il carattere sostitutivo della pronuncia auspicata dal rimettente non osta di per sé all’ammissibilità della questione. In particolare, il rimettente, nel richiedere una pronuncia sostitutiva nei termini sopra illustrati, propone non una tra le tante possibili pronunce, ma – sulla base delle esposte premesse interpretative – l’unica pronuncia ritenuta possibile.
2.4.– Non è poi fondata l’eccezione di inammissibilità per difetto di motivazione in ordine alla rilevanza della questione nel giudizio a quo in quanto la società ricorrente non sarebbe in realtà una banca ma una holding bancaria.
Ancorché l’applicabilità del censurato art. 6, comma 1, lettera a), a tali soggetti derivi dal rinvio operato dall’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 87 (Attuazione della direttiva n. 86/635/CEE relativa ai conti annuali ed ai conti consolidati delle banche e degli altri istituti finanziari, e della direttiva n. 89/117/CEE relativa agli obblighi in materia di pubblicità dei documenti contabili delle succursali, stabilite in uno Stato membro, di enti creditizi ed istituti finanziari con sede sociale fuori di tale Stato membro), ad avviso dell’Avvocatura generale, la CTP avrebbe dovuto preliminarmente motivare la riferibilità alle holding bancarie dei presupposti interpretativi da cui muove la censura, atteso che l’attività caratteristica di una holding sarebbe, appunto, innanzitutto il possesso di partecipazioni azionarie stabili, «[a]nzi, con specifico riguardo alle capogruppo bancarie, dagli artt. 60 e 61 del TUB risulta che tali partecipazioni debbono essere tali che alla capogruppo faccia capo il controllo delle banche componenti il gruppo».
Al riguardo è sufficiente obiettare che, pur nella sinteticità delle espressioni utilizzate dal rimettente nell’ordinanza, anche tali aspetti, più che alla motivazione della rilevanza, attengono all’interpretazione della norma censurata e conseguentemente al merito della questione.
2.5.– Infine, non è fondata l’eccezione di inammissibilità per «genericità» della questione, in quanto questa sarebbe stata prospettata senza la previa esplorazione di una soluzione interpretativa che riconosca la piena legittimità costituzionale della norma censurata ove riferita a soggetti – quali le holding bancarie – la cui attività caratteristica sia, appunto, il possesso stabile di partecipazioni azionarie di controllo.
Sul punto vale quanto già appena sopra osservato, poiché l’eccepita genericità appare piuttosto sintomatica dell’erroneità del presupposto interpretativo da cui muove il rimettente e in tal modo attiene a un profilo di merito e non di inammissibilità.
3.– La questione non è fondata.
Nel merito, va rilevato che il rimettente argomenta la non manifesta infondatezza su alcuni presupposti.
In particolare, uno di essi è che la norma denunciata, chiamando in causa «meccanismi forfettari» diretti a quantificare i soli «dividendi da trading» in misura pari al 50 per cento di quelli complessivamente indicati nella voce 70 del conto economico (denominata «Dividendi e proventi simili»), realizzerebbe in modo sproporzionato la ratio di intercettarli ai fini impositivi. I «dividendi da trading», infatti, sarebbero individuati analiticamente e nel loro preciso ammontare nella lettera A) della nota integrativa alla voce 70 («Attività finanziarie detenute per la negoziazione»): da qui l’irragionevolezza di introdurre una forfetizzazione, per sua natura imprecisa, quando la puntuale imponibilità degli stessi ben avrebbe potuto essere perseguita facendo direttamente riferimento a tale voce del bilancio bancario.
Altri presupposti sono che l’«attività di negoziazione» di titoli partecipativi, definita come «attività di trading», costituirebbe, in riferimento ai dividendi, la sola «attività caratteristica» di «banche e [..] intermediari finanziari» e che, in quanto tale, sarebbe l’unica soggetta all’IRAP.
3.1.– Tali presupposti interpretativi hanno carattere meramente assertivo e immotivato, essendo basati altresì su un’incompleta e inesatta ricostruzione del quadro normativo di riferimento.
3.2.– Come è noto, infatti, l’IRAP, a suo tempo, è stata introdotta nell’ordinamento per incrementare l’autonomia finanziaria delle Regioni, sostituendo cinque preesistenti e diversificate forme di prelievo, accomunate però dall’essere poste prevalentemente a carico di soggetti gestori di attività organizzate.
Il presupposto dell’IRAP è stato individuato nell’«esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi», nonché, in ogni caso, nell’attività esercitata da società ed enti, compresi gli organi e le amministrazioni dello Stato (art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 446 del 1997); in tal modo l’imposta è stata assisa su «un fatto economico, diverso dal reddito, comunque espressivo di capacità di contribuzione in capo a chi, in quanto organizzatore dell’attività, è autore delle scelte dalle quali deriva la ripartizione della ricchezza prodotta tra i diversi soggetti che, in varia misura, concorrono alla sua creazione» (sentenza n. 156 del 2001).
Per effetto di numerose modifiche normative che nel tempo si sono stratificate sul quadro originario, la disciplina sulla determinazione della base imponibile dei singoli settori di attività e della natura dei soggetti passivi risulta oggi assai articolata e complessa, essendo il frutto di regimi particolari, specificamente individuati dal legislatore in ragione delle diverse attività e a cui fanno da corredo alcuni principi comuni.
In tale contesto una sommaria comparazione con quanto disposto dall’art. 5 del d.lgs. n. 446 del 1997 consente un adeguato inquadramento della norma denunciata.
In forza di quest’ultima disposizione, con riferimento alle società di capitali, agli enti commerciali (pubblici e privati) e ai trust commerciali che esercitano attività industriale e commerciale, la base imponibile dell’imposta (art. 5 del d.lgs. n. 446 del 1997), infatti, tiene conto del prodotto della gestione, ma non considera fra i costi di produzione quello del lavoro (salvo quanto previsto, dal 2014, dall’art. 11, commi da 4-quater a 4-octies del medesimo decreto), né consente di tenere conto degli oneri finanziari, derivanti dall’indebitamento presso terzi. Inoltre, i dividendi non concorrono al valore della produzione netta di tali soggetti, in quanto non sono compresi nell’elenco di cui alla lettera A) dell’art. 2425 del codice civile richiamato dal predetto art. 5. Ciò che rileva è il valore prodotto in conseguenza della gestione corrente.
Per le banche e gli altri enti e le società finanziarie la base imponibile è, invece, specificamente individuata nell’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 446 del 1997.
Fino al 31 dicembre 2007 anche per tali soggetti i dividendi non concorrevano alla formazione dell’imponibile dell’IRAP e per la determinazione di tale tributo rilevavano le regole di computo della base imponibile dell’imposta sul reddito delle società (IRES), caratterizzate dal sistema delle variazioni in aumento e in diminuzione.
A tre anni dall’introduzione dei principi contabili internazionali – recepiti con il d.lgs. n. 38 del 2005 (cosiddetto “decreto IAS”, International accounting standards) –, il legislatore ha preso atto che il loro impatto in ambito fiscale imponeva agli operatori del settore bancario e finanziario un incremento significativo degli oneri di gestione della fiscalità, in particolare con l’emersione di una serie di rettifiche e “doppi binari” tra valori fiscali e civili.
L’art. 1, comma 50, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2008)», ha quindi rivisto, per quanto qui rileva, le regole di determinazione dell’IRAP per i soggetti tenuti ad applicare i suddetti IAS.
Più precisamente, per effetto della citata novella, per i soggetti passivi di cui all’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 446 del 1997 (cioè banche, enti e società finanziarie), attraverso l’introduzione del cosiddetto principio di derivazione rafforzata, la base imponibile dell’IRAP è stata sganciata da quella dell’IRES e fatta derivare per intero dai dati delle voci del conto economico, appositamente individuate dal legislatore ai fini tributari.
Il comma 1 dell’indicato art. 6, oggi prevede, infatti, che la base imponibile è determinata «dalla somma algebrica delle seguenti voci del conto economico, redatto in conformità agli schemi risultanti dai provvedimenti emessi ai sensi dell’articolo 9, comma 1, del d.lgs. n. 38 del 2005: a) margine d’intermediazione ridotto del 50 per cento dei dividendi; b) ammortamenti dei beni materiali e immateriali ad uso funzionale per un importo pari al 90 per cento; c) altre spese amministrative per un importo pari al 90 per cento; c-bis) rettifiche e riprese di valore nette per deterioramento dei crediti, limitatamente a quelle riconducibili ai crediti verso la clientela iscritti in bilancio a tale titolo».
Questa disposizione è integrata dal primo periodo del comma 6 del medesimo art. 6 del d.lgs. n. 446 del 1997, secondo cui «[i] componenti positivi e negativi si assumono così come risultanti dal conto economico dell’esercizio redatto secondo i criteri contenuti nei provvedimenti della Banca d’Italia 22 dicembre 2005 e 14 febbraio 2006, adottati ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28 febbraio 2005, n. 38, e pubblicati rispettivamente nei supplementi ordinari alla Gazzetta Ufficiale n. 11 del 14 gennaio 2006 e n. 58 del 10 marzo 2006».
3.3.– Ciò premesso deve essere considerato che, nell’àmbito delle voci del conto economico elencate dal comma 1 dell’art. 6 del d.lgs. n. 446 del 1997 per il computo dell’imponibile, l’unica oggetto di censura da parte del rimettente è la voce sub a), laddove prevede che il «margine d’intermediazione» è ridotto del 50 per cento dei dividendi.
Ebbene, questa, a sua volta, si identifica nella voce 120 del conto economico del bilancio bancario (denominata, appunto, «Margine d’intermediazione»), che risulta costituita dalla sommatoria di varie voci del medesimo conto, tra le quali spicca (oltre a quella relativa alla somma algebrica tra interessi attivi e passivi nonché tra proventi e oneri assimilati) la voce 70: «Dividendi e proventi simili». La nota integrativa di quest’ultima distingue (in ragione dei criteri, applicabili ratione temporis, di appostamento e di valutazione): «A. Attività finanziarie detenute per la negoziazione»; «B. Attività finanziarie disponibili per la vendita»; «C. Attività finanziarie valutate al fair value»; «D. Partecipazioni».
Ed è in relazione a tale voce che la circolare 22 dicembre 2005, n. 262, della Banca d’Italia – richiamata, lo si è visto, come punto di riferimento dal primo periodo del comma 6 del citato art. 6 del d.lgs. n. 446 del 1997 – ha stabilito, nell’aggiornamento applicabile ratione temporis, nel «Paragrafo 3 relativo al conto economico» e nella specifica «nota integrativa» alla suddetta voce 70, che «[n]ella presente voce figurano i dividendi relativi ad azioni o quote detenute in portafoglio diverse da quelle valutate in base al metodo del patrimonio netto. Sono esclusi i dividendi relativi a partecipazioni che rientrano in (o costituiscono) gruppi di attività in via di dismissione, da ricondurre nella voce 280 “utile (perdita) dei gruppi di attività in via di dismissione al netto delle imposte”».
Inoltre, la medesima circolare, tenendo conto dei principi contabili internazionali, definisce «partecipazioni» solo quelle detenute in società «controllate» (IAS 27), in società sottoposte «a controllo congiunto» (IAS 31) ovvero in società sottoposte «a influenza notevole» (IAS 28).
3.4.– Da tale sintetica ricostruzione del quadro normativo emerge dunque una conclusione ermeneutica che contrasta con quella posta dal rimettente a fondamento della questione di legittimità sollevata.
3.4.1.– In primo luogo, non tutti i dividendi delle partecipazioni transitano nel conto economico e quindi, contrariamente all’assunto del rimettente, non tutti concorrono alla determinazione della relativa voce 120, concernente il «margine di intermediazione», e, per l’effetto, della base imponibile dell’IRAP.
Il criterio inerente alla loro imposizione ai fini dell’IRAP discende, infatti, esclusivamente dal principio di derivazione rafforzata e, data la composizione della voce 70, non è in alcun modo ascrivibile alla volontà legislativa di intercettare i soli “dividendi da trading” attraverso un meccanismo forfettario.
Né dall’impianto sistematico, né tantomeno dai lavori preparatori (e in particolare dalla relazione illustrativa) che hanno accompagnato la riforma del 2007, è quindi ricavabile l’intento che il rimettente erroneamente assume quale presupposto delle sue censure.
La riduzione al 50 per cento dei dividendi che rientrano nella voce 70 del conto economico – ovvero non solo i cosiddetti dividendi da trading, ma anche quelli derivanti da partecipazioni diverse da quelle di controllo, collegamento o influenza notevole; nonché quelli che pur derivanti da partecipazioni di controllo, collegamento o influenza notevole sono stati valorizzati, nei limiti del consentito, con un metodo diverso da quello del patrimonio netto (costo storico o fair value) – appare dunque ascrivibile a una diversa ratio. Inquadrata nel più ampio contesto delle nuove regole di composizione della base imponibile dell’IRAP per come delineate dall’art. 6 d.lgs. n. 446 del 1997, infatti, essa appare rivolta principalmente a evitare, nel passaggio dal precedente regime, che escludeva l’imponibilità dei dividendi, a quello legato al principio di derivazione rafforzata, che invece parzialmente li include, un eccesso d’imposizione su tali dividendi, rilevanti sia in capo al percettore che all’emittente.
Il rimettente di ciò però non tiene conto rimanendo fermo su una visione parcellizzata della norma censurata; addirittura, quanto all’ipotetico aspetto della violazione del divieto di doppia imposizione, del tutto assertivamente esclude che la direttiva 2011/96/UE del Consiglio, del 30 novembre 2011 (cosiddetta direttiva “Madre-Figlia”), «sia applicabile all’IRAP», senza tuttavia minimamente confrontarsi con la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (in particolare, sentenza 17 maggio 2017, in causa C-365/16, AFEP e altri; sentenza 17 maggio 2017, in causa C-68/15, X), evocata nel giudizio principale dalla difesa della contribuente al fine – data l’esistenza di un’unica controllata italiana – di dedurre la cosiddetta discriminazione “alla rovescia”.
3.4.2.– In secondo luogo, l’ulteriore inesattezza in cui incorre l’argomentazione del rimettente riguarda la pretesa ricomprensione della sola attività di «negoziazione» di titoli partecipativi («attività di trading») nell’«attività caratteristica» di banche e altri enti e società finanziarie.
Tale assunto, oltre a essere privo di qualsiasi motivazione nell’ordinanza di rimessione, è anche palesemente erroneo, sia in punto di fatto che di diritto.
Ne è riprova, ictu oculi, la stessa fattispecie del giudizio principale atteso che – poiché la parte ricorrente del giudizio a quo è una holding di partecipazioni in società finanziarie – l’IRAP oggetto della richiesta di rimborso ammontava a circa ben quattro milioni di euro in ragione del 50 per cento dei dividendi conseguiti dalla propria spa controllata (nell’ordinanza definiti «dividendi interni»), a fronte di meno di cinquanta euro di «dividendi da trading».
Che solo quest’ultimo esiguo ammontare esprima un’attività caratteristica della società appare una conclusione del tutto improbabile, al punto che il rimettente avrebbe perlomeno dovuto, per sostenerlo, svolgere ben altra motivazione, piuttosto che limitarsi a una mera petizione di principio.
Va poi sottolineato che nell’ordinanza non viene censurata né la scelta del legislatore di ricomprendere nel medesimo settore produttivo l’attività sia degli intermediari finanziari che delle banche, né la scelta di applicare a tali soggetti gli stessi criteri di determinazione dell’imponibile dell’IRAP (dato che, invece, per le holding commerciali e industriali i dividendi non assumono rilevanza ai fini dell’IRAP e che il legislatore ha ulteriormente distinto le società di partecipazione finanziaria e non finanziaria). Il rimettente, infatti, non si duole del richiamo legislativo allo schema del conto economico del bilancio bancario; in proposito ribadisce anzi più volte che la questione sollevata riguarda cumulativamente «banche e [...] altri intermediari finanziari» e attiene unicamente alla parte della determinazione dell’imponibile che egli ritiene basata su una imprecisa “forfetizzazione” dei dividendi da trading, anziché, come da lui auspicato, su una loro precisa e analitica individuazione.
Ciò posto, è del tutto evidente che né l’attività esclusivamente e strettamente bancaria (raccolta di risparmio tra il pubblico ed esercizio del credito) né quella tipica di una holding relativa a società finanziarie (assunzione e gestione di partecipazioni in tali società) hanno come connotato «caratteristico» quello di negoziare titoli partecipativi (trading).
Il legislatore pertanto si è mosso su un piano diverso da quello ritenuto dal rimettente, in quanto, a séguito di una valutazione discrezionale non censurata da quest’ultimo, ha scelto di considerare congiuntamente, ai fini dell’imponibile dell’IRAP, non solo l’attività esclusiva o le diverse attività prevalenti tra loro equiparate (ad esempio, la banca può esercitare sia l’attività strettamente bancaria, che quella finanziaria), ma anche le più frequenti attività ancorché non prevalenti o solo strumentali.
4.– Le esposte considerazioni rendono quindi priva di fondamento, nel suo complesso, la questione sollevata dalla CTP, in riferimento all’art. 3 Cost.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 (Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali), sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 novembre 2021.
F.to:
Giancarlo CORAGGIO, Presidente
Luca ANTONINI, Redattore
Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
Depositata in Cancelleria il 20 gennaio 2022.