ORDINANZA N. 276
ANNO 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Aldo CAROSI;
Giudici: Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 3, del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Fermo, nel procedimento penale a carico di G. C., con ordinanza del 17 ottobre 2018, iscritta al n. 22 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 20 novembre 2019 il Giudice relatore Franco Modugno.
Ritenuto che il Tribunale ordinario di Fermo ha sollevato, con ordinanza del 17 ottobre 2018, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 3, del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 2 (recte: 3), 25, 97, 101 e 111 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che la dichiarazione di astensione del giudice venga sottoposta per la decisione al capo dell’ufficio nelle sole ipotesi previste dalla lettera h) di detto articolo, vale a dire per il caso di astensione dovuta ad «altre gravi ragioni di convenienza»;
che in punto di fatto il giudice rimettente ha premesso di essersi già pronunciato – adottando sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 cod. proc. pen. – nei confronti del medesimo imputato in altro procedimento, nel quale era contestato il reato di falsa testimonianza, in quanto l’imputato, deponendo come testimone in un procedimento civile per opposizione alla esecuzione avverso atto di precetto, aveva dichiarato il falso affermando di non aver mai consegnato a due avvocati un assegno, sulla cui base era stata promossa l’azione esecutiva;
che l’imputazione elevata nei confronti dello stesso imputato nel giudizio a quo riguardava, invece, la falsa denuncia di smarrimento del medesimo assegno, in realtà consegnato allo stesso legale, che veniva in tal modo indirettamente incolpato del delitto di ricettazione;
che trattandosi, dunque, di fatti fra loro strettamente connessi, riguardanti proprio le false dichiarazioni e la falsa denuncia di smarrimento dello stesso titolo di credito da parte della medesima persona, il giudice formulava dichiarazione di «astensione obbligatoria ex art. 37 c.p.p. così come modificato dalla [C]orte [c]ostituzionale (sentenza n. 283 [del] 2000)»: dichiarazione che, peraltro, veniva respinta dal Presidente del Tribunale con nota del 30 settembre 2016;
che lo stesso giudice rimettente, non condividendo tale determinazione, provvedeva a rinnovare la dichiarazione di astensione sulla base di ulteriori argomentazioni, e, a fronte di un nuovo rigetto da parte del Presidente del Tribunale, investiva, attraverso la formulazione di un quesito, il Consiglio superiore della magistratura, il quale rispondeva al quesito medesimo con nota del 22 febbraio 2018, ove si confermava «che il dirigente dell’ufficio investito della dichiarazione del motivo di astensione deve valutare la sussistenza delle circostanze dedotte a sostegno della dichiarazione stessa»;
che, preso dunque atto dello stallo decisorio venutosi a determinare, il giudice a quo ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 3, cod. proc. pen., censurato nella parte in cui non limita l’intervento decisorio del presidente della corte o del tribunale in tema di dichiarazione di astensione ai soli casi di astensione dovuta alle altre «gravi ragioni di convenienza» di cui allo stesso art. 36, comma 1, lettera h), cod. proc. pen.;
che la norma censurata si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. (erroneamente indicato come art. 2), «sia sotto il profilo dell’ineguaglianza di situazioni ingiustificatamente differenti a seconda che vi sia un processo civile ovvero un processo penale», essendo il regime dell’astensione nel processo civile disciplinato dalle diverse regole dettate dall’art. 51 del codice di procedura civile, «sia sotto il profilo della manifesta irragionevolezza per il meno garantito trattamento riservato a situazioni uguali, che possano rispettivamente verificarsi nel processo civile [o] nel processo penale, ove, inoltre, vengono di regola [in] rilievo, a differenza che nel processo civile, diritti fondamentali»;
che risulterebbe violato anche l’art. 25 Cost., «nella misura in cui vedere regolata da un semplice procedimento amministrativo, senza possibilità d’impugnazione e senza obbligo di motivazione, una fattispecie obiettiva di ipotesi di astensione obbligatoria», contrasterebbe con il principio del giudice naturale precostituito per legge;
che sarebbe vulnerato anche l’art. 97 Cost., «a causa degli elementi di maggiore incertezza operativa che inevitabilmente deriverebbero dal far decidere il capo dell’ufficio circa l’ipotesi di astensione obbligatoria»;
che apparirebbe leso l’art. 101 Cost., «nella misura in cui un soggetto che esercita attività giurisdizionale si vede sottratto, senza che a fondare tale scelta di legge ragioni di buona amministrazione possano rinvenirsi, il potere-dovere di decidere da un provvedimento amministrativo non impugnabile e senza obbligo di motivazione»;
che compromesso sarebbe, infine, anche l’art. 111 Cost., «nella misura in cui viene a incidere con una normativa irragionevole sull’attività del giudice, così neutralizzando o limitando la sua funzione di terzietà o imparzialità»;
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, la quale ha concluso chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e comunque infondate.
Considerato che il Tribunale ordinario di Fermo solleva, in riferimento agli artt. 2 (recte: 3), 25, 97, 101 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non limita l’obbligo di sottoporre la dichiarazione di astensione alla decisione del presidente della corte o del tribunale al solo caso di astensione previsto dallo stesso art. 36, comma 1, lettera h), vale a dire all’astensione dovuta ad altre «gravi ragioni di convenienza»;
che a parere del giudice a quo – il quale si ritiene “pregiudicato” per aver adottato una decisione di non luogo a procedere in altro procedimento riguardante lo stesso imputato per fatti intimamente connessi a quelli per i quali pende il giudizio principale – la disposizione censurata, nell’affidare la decisione sulla dichiarazione di astensione al capo dell’ufficio per casi diversi da quelli previsti nell’art. 36, comma 1, lettera h), del codice di rito, darebbe luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento rispetto al processo civile, ove invece, a norma dell’art. 51 del codice di procedura civile, la dichiarazione di astensione è subordinata alla autorizzazione del capo dell’ufficio solo nel caso in cui ricorrano «gravi ragioni di convenienza», corrispondente a quello di cui alla richiamata lettera h) dell’art. 36, comma 1, cod. proc. pen.;
che vulnerati risulterebbero anche, sotto vari profili, il principio del giudice naturale precostituito per legge, nonché quelli di buona amministrazione, di soggezione del giudice soltanto alla legge e di imparzialità e terzietà del giudice;
che, nel formulare il quesito di costituzionalità, il giudice a quo non ha tenuto peraltro conto della circostanza che questa Corte, con la sentenza n. 113 del 2000, ha sottolineato come sia proprio l’ipotesi di astensione per gravi ragioni di convenienza, di cui all’art. 36, comma 1, lettera h), cod. proc. pen., la sede nella quale far confluire l’obbligo di astensione del giudice, nei casi in cui il pregiudizio discenda da attività processuali svolte in precedenza; assunto, questo, ribadito nella sentenza n. 283 del 2000, con la quale venne dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva che potesse essere ricusato dalle parti il giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, avesse espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto;
che nella richiamata sentenza n. 113 del 2000, interpretativa di rigetto, la Corte ha infatti fra l’altro affermato il principio secondo il quale «la formulazione dell’art. 36, comma 1, lettera h) del codice di procedura penale ha una sfera di applicazione sufficientemente ampia da comprendere anche le ipotesi in cui il pregiudizio alla terzietà del giudice derivi da funzioni esercitate in un diverso procedimento», sottolineando che tale principio «costituisce svolgimento di quanto prefigurato da questa Corte nelle sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997, nelle quali si è indicato, per la realizzazione del principio del giusto processo, in simili evenienze, il più duttile strumento dell’astensione e della ricusazione, che consente valutazioni in concreto e caso per caso, e che non postula oneri preventivi di organizzazione»;
che, pertanto, la richiesta del giudice rimettente di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 36, comma 3, cod. proc. pen., «nella parte in cui non sottopone la dichiarazione di astensione del giudice al Capo dell’ufficio [nelle] sole ipotesi […] di astensione per gravi ragioni di convenienza non altrimenti specificate», si rivela priva di rilevanza nel giudizio principale, in quanto – al lume della richiamata sentenza di questa Corte – quel caso “innominato” di astensione obbligatoria assorbe proprio le ipotesi di astensione determinata dal pregiudizio che scaturisce da funzioni esercitate dal giudice in altro procedimento: vale a dire, proprio l’ipotesi cui si riferisce la vicenda oggetto del procedimento a quo;
che, d’altra parte, va pure rilevato come la “modifica” che il giudice a quo intenderebbe perseguire, darebbe vita a conseguenze eccentriche rispetto al sistema, in quanto la stessa andrebbe “coordinata” con la previsione sancita dall’art. 42, comma 2, cod. proc. pen., il quale, nello stabilire che «[i]l provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione […] dichiara se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi […] conservano efficacia», è stato dettato – come puntualizza la relazione al progetto preliminare – dalla ritenuta e condivisibile «opportunità che competente ad adottare le decisioni di cui al comma 2 dell’art. 42 sia un giudice diverso da quello che ha emesso i provvedimenti cui si riferisce la norma citata»;
che, pertanto, le questioni proposte devono essere dichiarate manifestamente inammissibili.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 3, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, 97, 101 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Fermo, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 novembre 2019.
F.to:
Aldo CAROSI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 dicembre 2019.