SENTENZA N. 176
ANNO 2019
Commento alla decisione di
Biagio Monzillo
per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, promosso dalla Corte di appello di Venezia, nel procedimento penale a carico di U. Z., con ordinanza del 9 gennaio 2018, iscritta al n. 115 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 3 aprile 2019 il Giudice relatore Giovanni Amoroso.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 9 gennaio 2018, la Corte d’appello di Venezia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, «nella parte in cui prevede che la parte civile possa proporre al giudice penale anziché al giudice civile impugnazione ai soli effetti della responsabilità civile contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio».
La Corte rimettente assume che la disposizione si pone in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, «perché l’attuale attribuzione altera significativamente, con palese assenza di razionale giustificazione, lo svolgimento della essenziale propria e naturale funzione del giudice penale dell’impugnazione per la deliberazione nel merito sul contenuto della pretesa punitiva pubblica», e con l’art. 111, secondo comma, Cost., nonché con i «principi costituzionali di efficienza ed efficacia della giurisdizione» perché la cognizione «su meri interessi civili, per la quale vi è già sede autonoma adeguata efficace e propria», aggravando il lavoro del giudice penale d’appello, già impegnato nella definizione di un elevatissimo numero di processi, dà luogo a un’irragionevole protrazione della durata dei processi.
Premette la Corte di dover decidere sull’appello con cui la società STUDIO ULM srl, parte civile nel processo di primo grado, ha impugnato la sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto pronunciata dal Tribunale ordinario di Treviso nei confronti di U. Z., imputato dei reati previsti dagli artt. 615-ter (Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico) e 615-quater (Detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici) del codice penale.
Osserva il Collegio che la norma censurata è frutto di una scelta compiuta dal legislatore con l’emanazione del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale), in un contesto assai diverso da quello odierno e in una prospettiva di razionalizzazione del sistema che, alla prova dei fatti, non si è realizzata nei termini auspicati. Infatti, gli effetti deflattivi che la riforma perseguiva non si sono verificati e il numero dei processi pendenti dinanzi alle corti d’appello è sensibilmente aumentato.
Secondo la Corte rimettente tale situazione è imputabile a plurime ragioni strutturali.
In primo luogo, con l’abolizione della figura del pretore ad opera del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 (Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado), i giudizi di secondo grado, per i quali era competente il tribunale, sono stati devoluti alla competenza delle corti d’appello, aggravandone notevolmente il carico di lavoro.
Per altro verso, la convinzione che, con l’avvento del nuovo codice di procedura penale, i processi sarebbero stati definiti, prevalentemente, mediante il ricorso ai riti alternativi si è rivelata inesatta. L’effetto deflattivo dei riti alternativi non ha risposto alle aspettative.
A ciò si aggiunge che il giudizio d’appello, non di rado, implica la necessità della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Infatti, in armonia con le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza di legittimità, confortate dal dato normativo, l’istruttoria dev’essere rinnovata quando, a fronte dell’impugnazione di una sentenza di proscioglimento, l’eventuale accoglimento dei motivi d’appello è subordinato a una rivalutazione di prove dichiarative; ciò finanche nei casi in cui in primo grado si sia proceduto con rito abbreviato non condizionato.
La concomitanza di queste circostanze, che mal si coniugano con l’attribuzione al giudice penale di una competenza circoscritta a questioni inerenti la sola responsabilità civile, ha determinato un progressivo allungamento dei tempi di definizione dei processi.
Questa conseguenza ha contribuito ulteriormente all’incremento del contenzioso, incoraggiando, soprattutto per i reati di minor gravità, le impugnazioni finalizzate al raggiungimento del termine di prescrizione.
Per fronteggiare questa emergenza, i giudici tendono a dare la precedenza ai processi per i quali è più accentuato il rischio di prescrizione, posponendo quelli aventi a oggetto meri interessi civili. Ne discende che per questi ultimi i tempi di definizione risultano maggiori rispetto sia agli altri processi penali sia a quelli di un ordinario giudizio civile.
Alla luce di tali considerazioni, la Corte rimettente sostiene che, nell’attuale contesto, la scelta operata dal legislatore nel 1988 non risponde più a criteri di razionalità e ragionevolezza. Dunque, «attribuire oggi al giudice penale, ed in particolare alla Corte d’appello penale, anziché al giudice civile, la cognizione delle impugnazioni della sola parte civile avverso le sentenze di proscioglimento costituisce scelta in atto manifestamente irrazionale e oggi del tutto priva di alcuna giustificazione».
La norma, insomma, sarebbe divenuta anacronistica, inadeguata e disfunzionale. Del resto, prosegue il collegio, è ben possibile che una disposizione, inizialmente in sintonia con la Costituzione, si riveli irragionevole a seguito del mutamento del quadro settoriale in cui essa è destinata a operare.
La Corte d’appello di Venezia sviluppa, poi, un ulteriore argomento, di carattere sistematico, evidenziando che l’ordinamento già contempla il passaggio dal settore penale al settore civile del procedimento che abbia per oggetto residuo la sola valutazione relativa alla sussistenza della responsabilità civile. L’art. 622 cod. proc. pen., in particolare, stabilisce che, fermi gli effetti penali della sentenza, la Corte di cassazione, se ne annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, rinvia quando occorre al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile. Anche nel caso in cui il giudice d’appello dichiari non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato (o per intervenuta amnistia) senza motivare in ordine alla responsabilità dell’imputato ai fini delle statuizioni civili, l’eventuale accoglimento del ricorso per cassazione, proposto dall’imputato, impone l’annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell’art. 622 cod. proc. pen.
La Corte veneta, inoltre, sostiene che il trasferimento del giudizio dinanzi al giudice civile avrebbe un effetto vantaggioso per la parte civile, considerando la piena utilizzabilità in sede civile del materiale probatorio acquisito nel processo penale.
2.– Con atto depositato il 2 ottobre 2018, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.
In punto di ammissibilità, l’Avvocatura generale rileva che il giudice a quo ha invocato una pronuncia manipolativa indicando una soluzione non costituzionalmente obbligata in una materia, quella degli istituti processuali, riservata alla discrezionalità del legislatore.
Inoltre, la Corte rimettente non avrebbe considerato che il giudizio civile ha carattere accessorio rispetto a quello penale e che la deroga al principio generale di separazione e autonomia dei giudizi prevista dall’art. 576 cod. proc. pen. si giustifica alla luce degli effetti preclusivi che, ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen., la sentenza penale irrevocabile spiega nel giudizio civile e dell’esigenza del giudice di secondo grado di valutare, sia pure ai soli effetti civili, la sussistenza degli elementi di colpevolezza enunciati nel capo di imputazione.
Pone, poi, in rilievo che l’auspicato trasferimento dell’azione risarcitoria al giudice civile incrementerebbe il carico pendente dinanzi ai tribunali civili, il cui impegno non è meno oneroso rispetto a quello delle corti penali, riproponendo, almeno sotto questo profilo, il problema in termini pressoché equivalenti.
3.– Con memoria depositata il 13 marzo 2019, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sviluppato le proprie difese, richiamando gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale in tema di discrezionalità della scelta di sistema operata dal legislatore nella definizione del rapporto tra azione penale e azione civile, nonché in tema di inammissibilità delle questioni volte a ottenere pronunce manipolative con petitum non costituzionalmente obbligato.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza del 9 gennaio 2018, la Corte d’appello di Venezia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, «nella parte in cui prevede che la parte civile possa proporre al giudice penale anziché al giudice civile impugnazione ai soli effetti della responsabilità civile contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio».
Il giudice rimettente sospetta la violazione dell’art. 3 della Costituzione «perché l’attuale attribuzione altera significativamente, con palese assenza di razionale giustificazione, lo svolgimento della essenziale propria e naturale funzione del giudice penale dell’impugnazione per la deliberazione nel merito sul contenuto della pretesa punitiva pubblica».
Inoltre, sarebbe violato anche l’art. 111, secondo comma, Cost., nonché i «principi costituzionali di efficienza ed efficacia della giurisdizione», perché la cognizione «su meri interessi civili, per la quale vi è già sede autonoma adeguata efficace e propria», aggravando il lavoro del giudice penale d’appello, già impegnato nella definizione di un elevatissimo numero di processi, dà luogo a un’irragionevole protrazione della loro durata.
2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per aver il rimettente richiesto una pronuncia manipolativa indicando una soluzione non costituzionalmente obbligata in una materia, quale quella degli istituti processuali, riservata alla discrezionalità del legislatore.
L’eccezione non è fondata.
Deve ribadirsi che «l’ordinanza di rimessione delle questioni di legittimità costituzionale non necessariamente deve concludersi con un dispositivo recante altresì un petitum, essendo sufficiente che dal tenore complessivo della motivazione emerga con chiarezza il contenuto ed il verso delle censure» (sentenza n. 175 del 2018). Ciò anche con riferimento alla materia processuale, essendosi ritenuta sufficientemente determinata nel suo verso una censura diretta a eliminare l’interferenza del codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati nella disciplina della libertà personale (sentenza n. 180 del 2018).
Nella fattispecie, la Corte d’appello, investita con impugnazione della sola parte civile avverso la sentenza di assoluzione dell’imputato per insussistenza del fatto, si duole, nella sostanza, dell’attribuzione, sempre e solo alla giurisdizione penale, della cognizione dell’impugnazione proposta dalla parte civile ai sensi della disposizione censurata (art. 576 cod. proc. pen.); attribuzione ritenuta irragionevole e ingiustificata, allorché, in una situazione in cui la vicenda penale in senso stretto si è esaurita con una pronuncia, non impugnata dal pubblico ministero, pienamente favorevole all’imputato, impone al giudice penale di esaminare i soli profili civilistici della pretesa restitutoria o risarcitoria della parte civile, che invece meglio potrebbero essere valutati da un giudice civile. In tale situazione, l’esercizio della giurisdizione penale – secondo la Corte rimettente – dovrebbe essere esclusa, in termini di inammissibilità dell’impugnazione ex art. 576 cod. proc. pen., o comunque ridimensionata a favore dell’ipotizzato riconoscimento della facoltà di impugnazione della parte civile innanzi al giudice civile.
È, quindi, ben chiaro il verso delle censure, che sono, pertanto, pienamente ammissibili.
3.– Nel merito, le questioni non sono fondate nei termini che seguono.
4.– Va innanzi tutto ribadito che nel processo penale l’azione civile «assume carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi» (ex plurimis, sentenza n. 12 del 2016); l’assetto generale del nuovo processo penale è ispirato all’idea della separazione dei giudizi, penale e civile, essendo prevalente, nel disegno del codice, l’esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all’interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo. Sicché «l’idea di fondo sottesa alla nuova codificazione […] è che la costituzione di parte civile non dovesse essere comunque “incoraggiata”» (sentenza n. 12 del 2016).
Tale connotazione di separatezza e accessorietà dell’azione civile secondo la sede, civile o penale, in cui è proposta, emerge dal complessivo sistema normativo che ne regola l’esercizio.
Innanzi tutto, il giudizio avente a oggetto le restituzioni o il risarcimento del danno, ove promosso nella sua sede propria, quella civile, prosegue autonomamente malgrado la contemporanea pendenza del processo penale (art. 75, comma 2, cod. proc. pen.), mentre la sospensione rappresenta l’eccezione, che opera nei limitati casi previsti dall’art. 75, comma 3, cod. proc. pen. Soprattutto la separatezza dei due giudizi emerge in termini netti dalla prescrizione di carattere generale dell’art. 652, comma 1, cod. proc. pen. che esclude l’efficacia (di giudicato) della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno ove il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, comma 2, cod. proc. pen.
Invece, l’esercizio, nel giudizio penale, del diritto della parte civile alla restituzione o al risarcimento del danno, avendo carattere accessorio, ha un orizzonte più limitato, di cui quest’ultima non può non essere consapevole nel momento in cui opta per far valere le sue pretese civilistiche nella sede penale piuttosto che in quella civile. Nel fare questa opzione l’eventuale «impossibilità di ottenere una decisione sulla domanda risarcitoria laddove il processo penale si concluda con una sentenza di proscioglimento per qualunque causa (salvo che nei limitati casi previsti dall’art. 578 cod. proc. pen.) costituisce […] uno degli elementi dei quali il danneggiato deve tener conto nel quadro della valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi delle due alternative che gli sono offerte» (sentenza n. 12 del 2016).
Il fulcro di questo sistema è imperniato sull’art. 538 cod. proc. pen.: il giudice penale decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno se – e solo se – pronuncia sentenza di condanna dell’imputato, soggetto debitore quanto alle obbligazioni civili. Il giudice penale, neppure quando emette sentenza di assoluzione dell’imputato in quanto non imputabile per vizio totale di mente, può pronunciarsi distintamente sulle pretese restitutorie o risarcitorie della costituita parte civile. È sufficiente ricordare in proposito il principio, affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione, secondo cui il giudice dinanzi al quale sia stata impugnata una sentenza di condanna relativa a reato successivamente abrogato, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili proprio perché questi non possono non accompagnarsi a una pronuncia di condanna dell’imputato (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 settembre-7 novembre 2016, n. 46688).
Ciò conferma il carattere accessorio di tali pretese civilistiche, quando fatte valere nella sede penale. Solo eccezionalmente era stato previsto, dall’art. 577 cod. proc. pen., che la persona offesa, costituita parte civile, potesse proporre impugnazione anche agli effetti penali contro le sentenze di proscioglimento per i reati di ingiuria e diffamazione (sentenza n. 474 del 1993); facoltà questa che l’art. 9, comma 1, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), ha abrogato. Invece, la contestuale eliminazione nell’art. 576, comma 1, cod. proc. pen., delle parole «con il mezzo previsto per il pubblico ministero», a opera dell’art. 6, lettera a), della stessa legge, che, all’art. 1, aveva escluso che il pubblico ministero potesse appellare contro le sentenze di proscioglimento – prima che tale disposizione fosse dichiarata costituzionalmente illegittima da questa Corte (sentenza n. 26 del 2007) – non ha avuto l’effetto di limitare la facoltà della parte civile di proporre appello, agli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio di primo grado (ordinanza n. 32 del 2007; Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 29 marzo-12 luglio 2007, n. 27614).
Alla regola generale dell’art. 538 cod. proc. pen., però, l’art. 578 cod. proc. pen. introduce una deroga. Se il giudice (penale) dell’impugnazione perviene a una pronuncia dichiarativa dell’estinzione del reato per amnistia o per prescrizione, non di meno decide sull’impugnazione, ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili, quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata – con la sentenza impugnata – la condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato a favore della parte civile.
Inoltre, in sede di giudizio di cassazione, quando, infine, i gradi di merito sono esauriti, la cognizione delle pretese restitutorie o risarcitorie della parte civile può essere, a quel punto, devoluta al giudice civile. Infatti, l’art. 622 cod. proc. pen. prescrive che la Corte di cassazione, se annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, rinvia, quando occorre, al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile.
5.– In questo sistema complessivo, retto da una regola (art. 538 cod. proc. pen.) declinata con eccezioni (artt. 578 e 622 cod. proc. pen.), la disposizione censurata (art. 576 cod. proc. pen.) costituisce uno snodo centrale nel regime delle impugnazioni. Se c’è stata non già la condanna, ma il proscioglimento dell’imputato, che preclude la strada al possibile riconoscimento delle pretese restitutorie e risarcitorie della parte civile, la legittimazione di quest’ultima a proseguire il giudizio non è illimitata: la parte civile può proporre impugnazione, agli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento, solo se pronunciata nel giudizio (ovvero anche a seguito di giudizio abbreviato quando la parte civile ha consentito questo rito).
Il comune fondamento dell’ammissibilità delle impugnazioni si rinviene nel canone generale dell’art. 568, comma 4, cod. proc. pen. che prescrive che per proporre impugnazione è necessario avervi interesse. Anche la parte civile, per poter proporre l’impugnazione ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., deve avervi interesse, nel senso che deve mirare a conseguire un risultato utile o a evitare un pregiudizio che altrimenti le deriverebbe dalla pronuncia impugnata.
6.– In proposito, la giurisprudenza della Corte di cassazione è già intervenuta limando e puntualizzando l’ammissibilità dell’impugnazione della parte civile in alcune ipotesi ricadenti, o no, nella fattispecie tipica del censurato art. 576 cod. proc. pen.
Componendo un contrasto di giurisprudenza, le Sezioni unite penali hanno affermato che la parte civile è priva di interesse a proporre impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento dell’imputato per l’improcedibilità dell’azione penale dovuta a difetto di querela, osservando che, in mancanza di gravame del pubblico ministero della sentenza di proscioglimento per mancanza di querela, l’accertamento circa la sussistenza, o meno, dell’atto condizionante la procedibilità penale non influisce in alcun modo sulla posizione processuale del danneggiato, nell’esercizio dell’azione intesa ad affermare la responsabilità civile dell’autore dell’illecito e la sua obbligazione di risarcimento del danno procurato (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 21 giugno-17 settembre 2012, n. 35599).
Parimenti – si è già ricordato – è stato ritenuto inammissibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso per cassazione proposto dalla parte civile, ai soli effetti civili, avverso una sentenza di assoluzione per un reato abrogato e qualificato come illecito civile da una normativa sopravvenuta (Cass., sez. un. pen., n. 46688 del 2016).
Altresì, si è ritenuta inammissibile l’impugnazione della parte civile quando la sentenza di proscioglimento, pur pronunciata in giudizio a seguito di dibattimento, si fondi – ai sensi dell’art. 35 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468) – sulla condotta riparatoria dell’imputato (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 2 dicembre 2016-12 gennaio 2017, n. 1359). Ciò perché tale sentenza non riveste autorità di giudicato nel giudizio civile per le restituzioni o per il risarcimento del danno e non produce, pertanto, alcun effetto pregiudizievole nei confronti della parte civile (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 15 gennaio-30 gennaio 2015, n. 4610).
Invece, si è ritenuto che il giudice di appello, nel dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione o per amnistia su impugnazione, anche ai soli effetti civili, della sentenza di assoluzione a opera della parte civile, può condannare l’imputato al risarcimento dei danni in favore di quest’ultima, la cui impugnazione è pertanto ammissibile, atteso che l’art. 576 cod. proc. pen. conferisce al giudice dell’impugnazione il potere di decidere sul capo della sentenza anche in mancanza di una precedente statuizione sul punto (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 11 luglio-19 luglio 2006, n. 25083).
Da ultimo, la giurisprudenza ha ritenuto che «nei confronti della sentenza di primo grado che dichiari l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come contro la sentenza di appello che tale decisione abbia confermato, è ammessa l’impugnazione della parte civile che lamenti l’erronea applicazione della prescrizione» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 28 marzo-3 luglio 2019, n. 28911).
7.– Con riferimento a questo quadro normativo e giurisprudenziale, le questioni sollevate dalla Corte d’appello rimettente, in relazione ai due evocati parametri (artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., in cui può ritenersi contenuto anche il generico riferimento ai «principi costituzionali di efficienza ed efficacia della giurisdizione»), convergono verso una censura unitaria: la legittimazione della parte civile a impugnare la sentenza di proscioglimento, che già l’art. 576 cod. proc. pen. condiziona al presupposto che essa sia stata «pronunciata nel giudizio», dovrebbe essere ulteriormente limitata – secondo la Corte rimettente – quando la vicenda penale in senso stretto si sia esaurita (nel senso dell’irrevocabilità della pronuncia assolutoria) e rimanga, nella sostanza, solo una controversia civile, talché l’impugnazione dovrebbe potersi porre al giudice civile piuttosto che al giudice penale.
Ma, in disparte le oscillazioni giurisprudenziali di cui si è detto al precedente punto 6, si ha che nella fattispecie la Corte d’appello rimettente non dubita affatto della legittimazione della parte civile a proporre l’impugnazione. È allora sufficiente rilevare che, del tutto coerentemente con il descritto impianto complessivo del regime dell’impugnazione della parte civile, il legislatore non ha derogato al criterio per cui, essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata da un giudice penale con il rispetto delle regole processualpenalistiche, anche il giudizio d’appello è devoluto a un giudice penale (quello dell’impugnazione) secondo le norme dello stesso codice di rito.
E, infatti, il giudice dell’impugnazione, lungi dall’essere distolto da quella che è la finalità tipica e coessenziale dell’esercizio della sua giurisdizione penale, è innanzi tutto chiamato proprio a riesaminare il profilo della responsabilità penale dell’imputato, confermando o riformando, seppur solo agli effetti civili, la sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado. È quindi del tutto coerente con l’impianto del codice di rito che, una volta esercitata l’azione civile nel processo penale, la pronuncia sulle pretese restitutorie o risarcitorie della parte civile avvenga in quella sede: pertanto, anche quando l’unica impugnazione proposta sia quella della parte civile non è irragionevole che il giudice d’appello sia quello penale con la conseguenza che le regole di rito siano quelle del processo penale.
La deviazione da questo paradigma nel caso del giudizio di rinvio a seguito dell’annullamento, pronunciato dalla Corte di cassazione, della sentenza ai soli effetti civili, secondo il disposto dell’art. 622 cod. proc. pen., trova la sua giustificazione nella particolarità della fase processuale collocata all’esito del giudizio di cassazione, dopo i gradi (o l’unico grado) di merito, senza che da ciò possa desumersi l’esigenza di un più ampio ricorso alla giurisdizione civile per definire le pretese restitutorie o risarcitorie della parte civile che abbia, fin dall’inizio, optato per la giurisdizione penale.
Su un piano diverso, rileva il lamentato aggravio nei ruoli d’udienza dei giudici penali dell’impugnazione in una situazione di elevati carichi di lavoro – denunciato, pur non senza ragione, dalla Corte rimettente – che richiede adeguati interventi diretti ad approntare sufficienti risorse personali e materiali, rimessi alle scelte discrezionali del legislatore in materia di politica giudiziaria e alla gestione amministrativa della giustizia.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 576 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte d’appello di Venezia con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 aprile 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Giovanni AMOROSO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 12 luglio 2019.