SENTENZA N. 149
ANNO 2019
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 14 dicembre 2000, n. 379 (Disposizioni per il riconoscimento della cittadinanza italiana alle persone nate e già residenti nei territori appartenuti all’Impero austro-ungarico e ai loro discendenti) e dell’art. 6 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promosso dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige, sede di Trento, nel procedimento vertente tra V. P. e il Ministero dell’interno e altro, con ordinanza del 9 ottobre 2018, iscritta al n. 189 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’8 maggio 2019 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige, sede di Trento, con ordinanza del 9 ottobre 2018, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 14 dicembre 2000, n. 379 (Disposizioni per il riconoscimento della cittadinanza italiana alle persone nate e già residenti nei territori appartenuti all’Impero austro-ungarico e ai loro discendenti) e dell’art. 6 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), «nella parte in cui non prevedono l’utilizzazione dello speciale permesso per attesa di cittadinanza ai fini dello svolgimento di attività lavorativa», in relazione all’art. 3 della Costituzione, sia sotto il profilo della lesione del principio di pari trattamento, sia sotto il profilo della ragionevolezza.
Dà atto il giudice a quo che il ricorrente nel giudizio, V. P., è il discendente di una persona nata in provincia di Trento nel 1852 ed emigrata in Brasile prima del 1920; espone che costui è entrato in Italia il 6 giugno 2005 «usufruendo del permesso di soggiorno per attesa di cittadinanza previsto dall’art. 11 del d.p.r. 3 novembre 1999, n. 394, rilasciato il 14 giugno 2005 e avviato ai sensi della legge 14 dicembre 2000, n. 379».
Enuncia inoltre che, ottenuta la residenza, V. P. ha esercitato diverse attività lavorative fino al 15 novembre del 2008. In data 11 gennaio 2008, la Provincia autonoma di Trento emanava però una nota, secondo cui «sulla base della legislazione attuale i cittadini di origine italiana titolari di permesso di soggiorno per attesa cittadinanza non sono abilitati a svolgere attività lavorativa». Tale comunicazione trovava il suo fondamento in una precedente nota del 12 settembre 2007 che il Ministero dell’interno aveva inviato alla Questura di Trento in risposta ad un quesito ad esso rivolto.
In ragione di tali atti, spiega il rimettente, V. P. non poteva più esercitare attività lavorativa e veniva contestualmente meno, in ragione della nota ministeriale più sopra ricordata, l’efficacia di un precedente protocollo d’intesa, stipulato il 12 giugno 2007 tra la Provincia autonoma di Trento e la Questura di Trento, in ragione del quale si era invece consentito ai soggetti di cui alla legge n. 379 del 2000, che avessero ottenuto un permesso di soggiorno per attesa cittadinanza, di svolgere attività lavorativa.
Ottenuta la cittadinanza italiana nel 2012, V. P., che nel frattempo aveva percepito soltanto il sostegno economico dell’Agenzia provinciale per l’assistenza e la previdenza integrativa, aveva potuto riprendere a lavorare. Per ottenere il risarcimento del danno medio tempore patito a causa del divieto di lavoro, lo stesso, con atto di citazione del 18 luglio del 2014, adiva il Tribunale ordinario di Trento che, con sentenza 5 maggio 2017, n. 444, declinava la giurisdizione a favore del giudice amministrativo.
Evidenzia, infine, il giudice rimettente che V. P. adiva successivamente il Tribunale regionale di giustizia amministrativa di Trento, sia per ottenere l’annullamento della citata nota del Ministero dell’interno del 12 settembre 2007, richiamata nella comunicazione n. 996 dell’11 gennaio 2008 della Provincia autonoma di Trento, sia per ottenere la condanna della Questura di Trento e del Ministero dell’interno al risarcimento del danno asseritamente patito, quantificato in euro 40.000.
2.– In via preliminare, il giudice a quo dà atto dell’ammissibilità della domanda risarcitoria ad esso proposta, in ragione di quanto previsto dall’art. 30 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante «Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo» (da ora in poi: cod. proc. amm.).
Sempre preliminarmente, afferma il giudice a quo che l’azione del ricorrente sarebbe stata tempestivamente promossa: non troverebbe infatti in questo caso applicazione il termine di decadenza di 120 giorni previsto dal citato art. 30, comma 3, cod. proc. amm., poiché siffatto termine non è applicabile, secondo consolidata giurisprudenza amministrativa, alle cause relative a vicende antecedenti l’entrata in vigore dello stesso codice.
Di conseguenza, e in mancanza di comportamenti negligenti dell’interessato, troverebbe applicazione in questa vicenda l’ordinario termine di prescrizione quinquennale previsto per l’azione risarcitoria: poiché il periodo in cui il ricorrente asserisce di aver subito il danno inizia il 12 gennaio 2008 e termina nel 2012 e poiché in ragione della intervenuta translatio iudicii il termine di prescrizione dovrebbe considerarsi interrotto il 18 luglio 2014, data della notificazione dell’atto di citazione introduttivo del giudizio civile, ne consegue che «[p]er il periodo fino al 18 luglio 2009 […] il diritto al risarcimento incorre nella prescrizione quinquennale (eccepita in via subordinata dall’Avvocatura resistente), mentre rimane vivo per il periodo successivo».
3.– Nel merito, il rimettente espone che la Questura di Trento aveva formulato al Ministero dell’interno un quesito al fine di sapere se il possesso del permesso di soggiorno per l’acquisto della cittadinanza italiana iure sanguinis consentisse lo svolgimento di attività lavorativa. Il Ministero aveva risposto osservando che l’art. 14 del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), «nel disciplinare le ipotesi di conversione del permesso di soggiorno da altra tipologia a quella per lavoro, non contempla quello per attesa cittadinanza. Pertanto, per poter autorizzare i cittadini di origine italiana in possesso di tale tipologia di permesso di soggiorno a svolgere attività lavorativa sarà necessario attendere una modifica normativa in tal senso».
Secondo il giudice a quo, tale affermazione corrisponderebbe al quadro normativo vigente: lo svolgimento di attività lavorative sarebbe consentito soltanto se i permessi di soggiorno sono stati «espressamente rilasciati a tale scopo, ovvero se così prevede la legge», come dimostrerebbero le previsioni di cui all’art. 6 del d.lgs. n. 286 del 1998 e di cui all’art. 14 del d.P.R. n. 394 del 1999.
Osserva il rimettente come, però, «[n]essuna delle specifiche disposizioni dedicate all’ambito delle attività consentite dai vari tipi di permesso di soggiorno, ovvero convertibili in una diversa fattispecie che consenta attività lavorativa, si occupa del permesso per attesa cittadinanza italiana iure sanguinis di cui alla legge n. 379 del 2000».
Poiché nella determinazione dello status dei cittadini extracomunitari – secondo quanto affermato nella sentenza del Consiglio di Stato, sezione terza, 12 ottobre 2017, n. 4738 – non potrebbe farsi ricorso allo strumento dell’analogia, risolvendosi ciò in una innovazione del sistema non consentita al giudice (viene citata la sentenza di questa Corte n. 277 del 2014), in definitiva non si rinverrebbe nell’ordinamento «alcuna norma che consenta lo svolgimento di attività lavorativa ai soggetti in attesa di cittadinanza iure sanguinis».
4.– Ciò premesso, il rimettente evidenzia la diversa condizione in cui versa la generalità dei soggetti che attende il rilascio della cittadinanza, da una parte, rispetto ai destinatari della legge n. 379 del 2000, dall’altra.
Per i primi, il possesso di un permesso di soggiorno costituisce, ai sensi dell’art. 11, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 394 del 1999, «presupposto imprescindibile per ottenere quello per attesa di cittadinanza». Non si porrebbe dunque alcun problema di convertibilità del permesso di soggiorno per attesa cittadinanza, poiché al più occorrerebbe verificare se il permesso di soggiorno presupposto possa direttamente consentire l’attività lavorativa, oppure sia convertibile in un permesso che tale attività consente.
Per i secondi, invece, la disciplina speciale di cui all’art. 1, comma 2, della legge n. 379 del 2000, «riconosce la cittadinanza italiana, senza subordinare tale riconoscimento al possesso di un diverso titolo di soggiorno»: di conseguenza, lo specifico permesso per attesa di cittadinanza «non essendo collegato ad alcun altro, diverso, titolo, e non prevedendo l’autorizzazione all’attività lavorativa, ne preclude […] lo svolgimento».
Tale diversità di trattamento sarebbe, a dire del giudice rimettente, contraria al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in ragione del «diverso, immotivato trattamento riservato dal legislatore a due situazioni analoghe, ambedue tutelate attraverso il permesso in attesa del rilascio della cittadinanza, ma con un ambito di facoltà e diritti del tutto divergenti, in assenza di ragioni giustificativ[e]».
Precisa il rimettente come l’intervento richiesto alla Corte costituzionale non avrebbe natura «creativa»: la «pronuncia additiva da parte della Corte costituzionale, dovrebbe ritenersi consentita dal momento che la soluzione è logicamente necessitata ed implicita nello stesso contesto normativo».
Il giudice rimettente censura le due disposizioni anche con specifico riferimento al principio di ragionevolezza: la disciplina sarebbe irragionevole poiché «alla situazione che il legislatore ha ritenuto evidentemente meritevole di speciale considerazione, quale quella dei discendenti degli ex appartenenti all’Impero austro-ungarico emigrati all’estero, ai quali la cittadinanza è concessa su semplice dichiarazione, rispetto ai casi generali, nei quali è richiesto il possesso di un diverso permesso di soggiorno, è collegato un effetto deteriore, che consegna il richiedente all’impossibilità di lavorare».
5.– Con atto depositato il 29 gennaio 2019, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili ed infondate.
L’inammissibilità delle questioni deriverebbe, innanzitutto, dalla «non inerenza delle disposizioni denunciate» rispetto alle questioni di legittimità costituzionale sollevate. L’art. 1 della legge n. 379 del 2000 si limiterebbe, infatti, a prevedere uno «specifico caso di riconoscimento della cittadinanza italiana», che neppure richiederebbe la presenza dello straniero sul territorio nazionale nelle more del procedimento di concessione della cittadinanza, come dimostrerebbe il fatto che lo stesso art. 1, comma 2, della legge n. 379 del 2000 rinvia all’art. 23 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza), disposizione che espressamente contempla la possibilità per i residenti all’estero di rendere la dichiarazione per l’acquisto della cittadinanza davanti all’autorità diplomatica o consolare del luogo di residenza.
Soprattutto, l’art. 1 della legge n. 379 del 2000 non disporrebbe nulla «in merito alla tipologia di permesso atto a legittimare» il soggiorno dello straniero, né «in ordine alle attività al medesimo consentite o interdette».
Anche l’art. 6 del d.lgs. n. 286 del 1998 sarebbe eccentrico rispetto al thema decidendum: esso infatti disciplinerebbe alcune facoltà inerenti il permesso di soggiorno rilasciato per motivi di lavoro subordinato, lavoro autonomo e familiare, nonché relative al permesso di soggiorno rilasciato per motivi di studio e formazione, ma non riguarderebbe in alcun modo il permesso per «attesa cittadinanza».
Espone l’Avvocatura che l’art. 14 del d.P.R. n. 394 del 1999 descrive i casi in cui le differenti tipologie di permesso di soggiorno possono essere convertite in un altro tipo di permesso di soggiorno e indica quali attività lavorative sono consentite per ciascuna di queste tipologie. Esso però nulla prevede rispetto ai permessi di soggiorno rilasciati per l’acquisto della cittadinanza: circostanza, questa, che impedisce pertanto ai titolari dei permessi da ultimo citati di svolgere attività lavorative o di convertirli in tipologie di permessi che consentono di lavorare. D’altra parte, la possibilità di convertire i permessi di soggiorno sarebbe da considerarsi di carattere eccezionale e non sarebbe pertanto possibile ampliare il novero dei casi già indicati dal legislatore (viene citata anche dall’Avvocatura la sentenza del Consiglio di Stato, sezione terza, 12 ottobre 2017, n. 4738), al fine «di evitare, anche attraverso la conversione, l’elusione del complesso di regole che presiedono al controllo dei flussi migratori».
I sospetti di illegittimità costituzionale andrebbero quindi al più rivolti nei confronti dell’art. 14 del d.P.R. n. 394 del 1999 – che non contempla il permesso per l’acquisto della cittadinanza tra i permessi che consentono lo svolgimento di attività lavorativa – e non nei confronti dell’art. 1 della legge n. 379 del 2000 e dell’art. 6 del d.lgs. n. 286 del 1998, che invece sarebbero «palesemente inconferenti».
La questione sarebbe altresì inammissibile per l’incompleta ricostruzione del quadro normativo di riferimento, circostanza questa che si risolverebbe «altresì in infondatezza […] per erroneità dei presupposti interpretativi». In particolare, il rimettente avrebbe omesso di considerare quanto dispone l’art. 11, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 394 del 1999 che, stabilendo che il permesso di soggiorno è rilasciato, tra le altre cose, per l’acquisto della cittadinanza, pur non dicendo nulla in merito alle attività consentite ai titolari delle varie tipologie di permesso di soggiorno, subordinerebbe «il rilascio del permesso alla circostanza che lo straniero richiedente la concessione o il riconoscimento della cittadinanza italiana ovvero dello stato di apolide sia “già in possesso del permesso di soggiorno per altri motivi”».
Dunque, la presentazione della domanda di concessione della cittadinanza italiana da parte di un soggetto già presente sul territorio nazionale presupporrebbe «necessariamente il (pregresso) possesso da parte del richiedente, di un titolo che ne giustifichi la presenza e il soggiorno sul territorio nazionale». D’altra parte, il permesso di soggiorno per acquisto della cittadinanza sarebbe necessariamente temporaneo e la sua efficacia verrebbe meno al termine del procedimento di concessione o riconoscimento della cittadinanza, con la conseguenza che, in caso di mancata concessione della cittadinanza stessa, «il soggiorno sul territorio nazionale dello straniero riprende – o meglio, continua – ad essere legittimato dal titolo permissivo in precedenza posseduto».
Secondo l’Avvocatura generale le questioni sarebbero, infine, inammissibili perché volte ad attribuire ai soli titolari del permesso di soggiorno per l’acquisto della cittadinanza secondo le modalità di cui alla legge n. 379 del 2000 la possibilità di svolgere attività lavorative, possibilità invece preclusa e «sconosciuta al permesso di soggiorno per “attesa cittadinanza” in quanto tale». Ciò determinerebbe l’adozione di una pronuncia additiva non costituzionalmente obbligata in un ambito, quale quello della regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale, sul quale la discrezionalità del legislatore è ampia (si citano le sentenze n. 277 del 2014, n. 202 del 2013, n. 172 del 2012, n. 148 del 2008, n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994).
6.– Nel merito, le questioni non sarebbero comunque fondate, perché il permesso di soggiorno rilasciato a coloro che presentano la domanda ai sensi della legge n. 379 del 2000 non sarebbe affatto diverso da quello previsto in generale dall’art. 11, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 394 del 1999. Si tratterebbe di un ordinario permesso di soggiorno che presuppone pertanto il previo possesso, da parte del richiedente, di un titolo di soggiorno.
In particolare, secondo l’Avvocatura, rileverebbe la legge 28 maggio 2007, n. 68 (Disciplina dei soggiorni di breve durata degli stranieri per visite, affari, turismo e studio), che, per i soggiorni non superiori a tre mesi, non richiede un permesso di soggiorno ma una «dichiarazione di presenza» da rendere all’autorità di frontiera o al questore della Provincia in cui lo straniero si trova. La ricevuta di tale dichiarazione – secondo quanto previsto dalla circolare del Ministero dell’interno 13 giugno 2007, n. 32 – è titolo utile anche «ai fini dell’iscrizione anagrafica di coloro che intendono avviare in Italia la procedura per il riconoscimento della cittadinanza “jure sanguinis”».
Non sussisterebbe pertanto quella disparità di trattamento evocata dal giudice rimettente: sia coloro che hanno chiesto il riconoscimento della cittadinanza italiana ai sensi della legge n. 379 del 2000, sia coloro che la richiedono ai sensi di altre disposizioni di legge, possono ottenere il permesso in attesa di cittadinanza soltanto se siano già in possesso di un titolo che li abiliti a permanere nel territorio nazionale.
Espone l’Avvocatura che neppure ci sarebbe discriminazione rispetto alla possibilità di svolgere prestazioni lavorative. In nessun caso infatti il permesso per attesa di cittadinanza consente, di per sé, lo svolgimento di attività lavorativa: il titolare di tale permesso «in tanto può svolgere attività lavorativa in quanto lo consenta, in via diretta o per effetto di conversione, il diverso ed ulteriore permesso di soggiorno, in precedenza rilasciatogli “per altri motivi”, di cui lo stesso è già in possesso».
Circostanza, questa, che induce l’Avvocatura a evidenziare come l’eventuale problema di legittimità costituzionale dovrebbe riguardare le facoltà connesse al permesso di soggiorno che costituisce il presupposto per l’ottenimento del permesso di soggiorno per attesa cittadinanza e, più in generale, la previsione di permessi di soggiorno che non consentono in alcun modo di svolgere attività lavorativa. Si tratterebbe però di questione di legittimità costituzionale diversa da quella sollevata, comunque destinata ad una pronuncia di infondatezza in ragione dell’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore sulla determinazione e sulla regolamentazione delle facoltà inerenti i permessi di soggiorno.
Ancora, sottolinea l’Avvocatura come anche coloro che richiedono la cittadinanza sulla base di previsioni diverse dalla legge n. 379 del 2000 potrebbero trovarsi in possesso di un permesso di soggiorno che non consente loro lo svolgimento di attività lavorativa. Circostanza, questa, che smentirebbe la violazione del principio di eguaglianza, poiché la possibilità o meno di lavorare dipenderebbe esclusivamente dal titolo di soggiorno collegato al “permesso di soggiorno per attesa cittadinanza” e non dal «titolo legale posto a base della domanda di concessione o di riconoscimento dello status civitatis».
Le precedenti osservazioni determinerebbero anche l’infondatezza della censura di irragionevolezza della disciplina: la situazione dei richiedenti la cittadinanza è ritenuta in generale meritevole di particolare considerazione, tanto che il relativo permesso di soggiorno è “aggiuntivo” rispetto al permesso di soggiorno già posseduto. Tuttavia, tale condizione non implicherebbe necessariamente la possibilità di lavorare, soprattutto quando, come nel caso di cui alla legge n. 379 del 2000, non è obbligatoria la presenza del richiedente sul territorio nazionale nelle more del procedimento.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino-Alto Adige, sede di Trento, solleva, in relazione all’art. 3 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 14 dicembre 2000, n. 379 (Disposizioni per il riconoscimento della cittadinanza italiana alle persone nate e già residenti nei territori appartenuti all’Impero austro-ungarico e ai loro discendenti) e dell’art. 6 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).
Le due disposizioni citate sono censurate nella parte in cui non prevedono che il permesso di soggiorno per attesa cittadinanza – rilasciato ai discendenti di persone nate e residenti nei territori appartenuti all’Impero austro-ungarico prima del 16 luglio 1920, e prima di tale data emigrate all’estero – consenta lo svolgimento di attività di lavoro.
In primo luogo, l’impossibilità di utilizzare tale permesso ai fini dello svolgimento di attività lavorativa determinerebbe un trattamento diseguale di tali soggetti, in violazione dell’art. 3 Cost., rispetto a coloro che, ugualmente in attesa della cittadinanza italiana, siano in possesso di un permesso di soggiorno che, per sua natura o perché convertibile in un permesso di soggiorno per ragioni di lavoro, consentirebbe loro l’esercizio di attività lavorativa.
Sotto un secondo profilo, la violazione dell’art. 3 Cost. emergerebbe dal fatto che le disposizioni censurate comporterebbero, a carico dei soggetti in questione, pur ritenuti meritevoli di speciale considerazione dalla legge n. 379 del 2000, un trattamento irragionevolmente deteriore rispetto alla generalità di coloro che hanno richiesto la cittadinanza. Infatti, a differenza di tutti gli altri stranieri che hanno presentato richiesta di acquistare lo status civitatis, i destinatari della legge n. 379 del 2000, pur titolari di un permesso di soggiorno, e nonostante il favor ad essi riservato da tale legge, risulterebbero consegnati all’impossibilità di lavorare.
2.– Le descritte questioni di legittimità costituzionale riguardano una peculiare disciplina legislativa, riferita a soggetti che – dopo essere nati e aver risieduto in territori appartenuti all’Impero austro-ungarico – sono da quei territori emigrati prima del 16 luglio 1920, data coincidente con l’entrata in vigore del Trattato di Saint Germain en Laye (d’ora in avanti: Trattato di Saint Germain), stipulato tra le potenze alleate e l’Austria alla fine del primo conflitto mondiale, in virtù del quale, a causa della dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, alcuni territori già appartenenti a quest’ultimo furono trasferiti al Regno d’Italia.
Ai soggetti che da tali territori erano emigrati prima del 16 luglio 1920 – e oggi, in definitiva, ai loro discendenti – la legge n. 379 del 2000 concede la possibilità di ottenere la cittadinanza italiana, qualora, entro il termine di cinque anni dall’entrata in vigore della legge stessa (termine successivamente prorogato di ulteriori cinque anni dall’art. 28-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 273, recante «Definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti», convertito, con modificazioni, dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51) abbiano reso dichiarazione di acquisto della cittadinanza stessa, con le modalità previste dall’art. 23 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 (Nuove norme sulla cittadinanza).
2.1.– La legge n. 379 del 2000 trae la propria giustificazione dagli eventi che si svolgono dalla metà del diciannovesimo secolo al termine della prima guerra mondiale. In quel non breve torno di tempo, accanto all’ampio fenomeno migratorio di cittadini italiani verso gli Stati Uniti d’America e diverse nazioni del Sudamerica, un significativo esodo interessò anche quanti, cittadini non già italiani ma dell’allora Impero austro-ungarico, abbandonarono il Trentino e i territori che componevano il cosiddetto “Litorale austriaco”, corrispondenti alle attuali province di Gorizia e Trieste e alla penisola istriana.
Al termine della prima guerra mondiale, con il Trattato di Saint Germain, nell’ambito della ripartizione tra le nazioni vincitrici del conflitto dei territori appartenuti all’ormai disciolto Impero austro-ungarico, al Regno d’Italia vennero ceduti quelli corrispondenti al Trentino Alto-Adige, alla Venezia Giulia e all’Istria.
Lo stesso Trattato di Saint Germain disciplinò quello che, nella dottrina del tempo, venne definito un modo eccezionale di acquisto della cittadinanza. Secondo l’art. 70 del Trattato, chiunque avesse la «pertinenza» (peculiare istituto del diritto amministrativo austriaco, fonte di legami tra un individuo e un determinato Comune e distinto da cittadinanza, domicilio e residenza) in un territorio facente parte dell’antica monarchia austro-ungarica, avrebbe acquisito «di pieno diritto, ad esclusione della cittadinanza austriaca, la cittadinanza dello Stato che esercita la sovranità sul territorio predetto».
Coerentemente, gli art. 72 e 78 del Trattato dettavano una disciplina speciale per coloro che in quel momento risiedevano all’estero, ma avevano avuto una pertinenza nei territori poi trasferiti all’Italia. Costoro, se maggiori di diciotto anni, avrebbero potuto ugualmente eleggere la cittadinanza italiana, entro un anno dall’entrata in vigore del Trattato, mentre, in mancanza di tale opzione, avrebbero conservato la cittadinanza straniera medio tempore eventualmente acquisita.
Alla fine della prima guerra mondiale, però, la grande maggioranza di quanti erano emigrati tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento non poterono avvalersi di tale possibilità, per mancanza di informazioni o per difficoltà logistiche o economiche. Di conseguenza, nonostante il permanere di vincoli familiari e culturali con territori ormai divenuti italiani, rimasero privi di qualsiasi legame giuridico con l’Italia, così come i loro discendenti.
Tali soggetti si trovarono pertanto in una condizione diseguale rispetto a quella degli appartenenti a comunità di emigrati provenienti da varie zone d’Italia, in possesso della cittadinanza italiana jure sanguinis e senza limite di generazione. Sarebbero potuti diventare cittadini italiani se, alla data di entrata in vigore del Trattato di Saint Germain, avessero continuato a risiedere nei territori del dissolto Impero austro-ungarico ceduti all’Italia, ma, proprio perché già precedentemente emigrati, tale possibilità risultò di fatto loro preclusa.
2.2.– Il legislatore prende in considerazione la condizione di tali soggetti, una prima volta, nell’art. 18 della legge n. 91 del 1992, equiparandoli agli stranieri di origine italiana o nati nel territorio della Repubblica e prevedendo che essi avrebbero potuto acquisire la cittadinanza italiana dopo aver risieduto legalmente in Italia da almeno tre anni.
Pochissimi, tra i destinatari delle ricordate disposizioni, vollero o poterono trasferire la propria residenza in Italia, avendo stabilito la propria vita e i propri interessi, nella grande maggioranza dei casi, in un altro continente. Questa disciplina non raggiunse, perciò, l’obiettivo che si prefiggeva.
Permaneva dunque, e veniva percepita come iniqua, la già ricordata diversa situazione di tali comunità rispetto a quelle sorte all’estero in seguito alla emigrazione da varie zone di Italia, i cui componenti erano e sono in possesso della cittadinanza italiana, trasmessa jure sanguinis di genitore in figlio.
Alla luce di ciò, nell’unanime consenso delle forze presenti in Parlamento, venne approvata la legge n. 379 del 2000. In virtù di essa, viene disposta l’abrogazione del citato art. 18 della legge n. 91 del 1992, e ai soggetti originari dei territori già appartenuti all’Impero austro-ungarico ed emigrati all’estero prima del 16 luglio 1920 e ai loro discendenti «è riconosciuta la cittadinanza italiana qualora rendano una dichiarazione in tal senso con le modalità di cui all’articolo 23 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della presente legge».
Nei confronti dei soggetti in questione viene così meno l’obbligo di residenza triennale in Italia, già previsto quale condizione per l’acquisto della cittadinanza. Sussistendone i requisiti soggettivi, essa è riconosciuta a seguito della sola dichiarazione che l’art. 23 della legge n. 91 del 1992 richiede in via generale in tutti i casi in cui gli interessati vogliano procedere all’acquisto, alla conservazione, al riacquisto o alla rinuncia della cittadinanza.
Secondo quanto previsto dallo stesso art. 23, in caso di residenza all’estero, la dichiarazione deve essere resa davanti all’autorità diplomatica o consolare del luogo di residenza, oppure, in Italia, all’ufficiale dello stato civile del Comune in cui il dichiarante risiede o intende risiedere.
A fronte di decine di migliaia di richieste, l’esame della documentazione da prodursi a corredo delle dichiarazioni per il riconoscimento della cittadinanza è stato affidato a una apposita commissione interministeriale, che non risulta aver ancora concluso i propri lavori, nonostante il termine previsto per rendere le dichiarazioni sia scaduto nel dicembre del 2010, e benché, in generale, la durata dei procedimenti per l’acquisto e la concessione della cittadinanza italiana sia stabilita in un massimo di due anni (innalzati ora a quattro per alcune specifiche ipotesi: art. 9-ter della legge n. 91 del 1992, inserito dall’art. 14, comma 1, lettera c, del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, recante «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata», convertito, con modificazioni, in legge 1 dicembre 2018, n. 132).
Il protrarsi di queste operazioni di verifica è circostanza che ha non poco aumentato le difficoltà di quanti, venuti in Italia in vista del riconoscimento della cittadinanza disposto dalla legge n. 379 del 2000, si sono trovati nella medesima situazione lamentata dal ricorrente nel giudizio a quo.
3.– In via preliminare, va osservato che la fattispecie relativa ai soggetti in questione non appare compiutamente inquadrabile entro le coordinate normative generalmente vigenti in tema di permessi di soggiorno.
Tali coordinate sono tratteggiate nell’art. 11, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 394 del 1999 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), peraltro fonte di natura regolamentare e perciò sottratta al controllo accentrato di legittimità costituzionale. Esso prevede che il permesso di soggiorno per l’acquisto della cittadinanza (o per il riconoscimento dello stato di apolide) può essere rilasciato «a favore dello straniero già in possesso del permesso di soggiorno per altri motivi, per la durata del procedimento di concessione o di riconoscimento».
Nella generalità dei casi, pertanto, questo diverso permesso di soggiorno costituisce il titolo “presupposto”, necessariamente preesistente all’ottenimento di quello per attesa cittadinanza. Quest’ultimo permesso solitamente si aggiunge, per tutta la durata del procedimento di riconoscimento dello status civitatis, al permesso di soggiorno “originario”. In definitiva, l’ottenimento del permesso di soggiorno per attesa cittadinanza presuppone la titolarità di altro permesso, che consente la regolare permanenza sul territorio italiano e ne disciplina facoltà ed obblighi.
Diversa appare la situazione nel caso che dà origine alla presente questione di legittimità costituzionale, poiché, a quanto si desume dall’ordinanza di rimessione, al soggetto, venuto in Italia al fine di vedersi riconosciuta la cittadinanza ai sensi della legge n. 379 del 2000, è stato concesso direttamente il permesso di soggiorno per attesa cittadinanza, pur in assenza del titolo di soggiorno presupposto, sulla base di una non implausibile interpretazione dell’art. 11, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 394 del 1999 alla luce della stessa legge n. 379 del 2000.
Nessuna norma, peraltro, disciplina specificamente facoltà e obblighi collegati al possesso del permesso di soggiorno per attesa cittadinanza. Tale lacuna può giustificarsi proprio in ragione del fatto che lo straniero richiedente la cittadinanza, in tutti i casi disciplinati dal d.lgs. n. 286 del 1998, in quanto presente sul territorio italiano deve essere titolare di un altro e diverso permesso, cui appunto ineriscono gli specifici obblighi e facoltà di volta in volta stabiliti. Di conseguenza, lo straniero che, avendone maturato i requisiti, vorrà richiedere la cittadinanza, se presente in Italia per svolgere attività lavorativa, avrà dovuto necessariamente seguire il procedimento a questo scopo previsto dallo stesso d.lgs. n. 286 del 1998.
Una tale lacuna, viceversa, sembra assai meno comprensibile nel caso disciplinato dalla legge n. 379 del 2000. Si tratta qui non già di uno straniero che intende entrare in Italia al fine di svolgervi attività di lavoro, ma di un soggetto cui la legge espressamente riconosce la cittadinanza italiana, e si trova sul territorio italiano, come la stessa legge n. 379 del 2000 gli consente, in attesa che si concluda il procedimento di verifica dei prescritti requisiti.
Deve altresì aggiungersi che, in linea generale, in mancanza di una apposita disposizione che ciò preveda, il permesso di soggiorno per attesa cittadinanza non può essere convertito in altro permesso che consenta lo svolgimento di attività lavorativa. Si versa, del resto, in un ambito – quello della regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale – in cui la discrezionalità del legislatore è particolarmente ampia (ex plurimis, sentenze n. 277 del 2014 e n. 172 del 2012, con riferimento alla «fissazione dei requisiti necessari per le autorizzazioni che consentono ai cittadini extracomunitari di trattenersi e lavorare nel territorio della Repubblica»). E come si desume dalla giurisprudenza amministrativa – che intende preservare la tassatività delle ipotesi di conversione per non incidere sul sistema delle quote di stranieri autorizzati all’ingresso in Italia per ragioni di lavoro – la conversione del permesso rilasciato per una determinata causa in altro genere di titolo può ammettersi solo laddove esista una espressa regolamentazione in tal senso, che ne precisi altresì le relative condizioni (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 24 gennaio 2018, n. 476; Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 12 ottobre 2017, n. 4738; si veda, inoltre, Consiglio di Stato, sezione prima, parere 25 agosto 2015, n. 1048).
4.– In tale contesto normativo, l’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità della questione, ritenendo eccentriche le due disposizioni censurate, ossia l’art. 1 della legge n. 379 del 2000 e l’art. 6 del d.lgs. n. 286 del 1998, rispetto al thema decidendum posto dall’ordinanza di rimessione, volta a censurare la mancata utilizzabilità a fini lavorativi del permesso di soggiorno per attesa cittadinanza rilasciato ai destinatari della legge n. 379 del 2000.
È, in effetti, vero che il giudice rimettente ha rivolto le proprie censure nei confronti di disposizioni non del tutto conferenti nel caso di specie. Ciò, in particolare, perché il permesso di soggiorno per attesa cittadinanza, che non consentirebbe lo svolgimento di attività lavorativa, non è contemplato dalle due disposizioni censurate e, in particolare, non lo è dall’art. 1 della legge n. 379 del 2000, che pure riconosce ai soggetti ivi indicati la cittadinanza italiana. Ed è anche vero, come suggerisce la stessa Avvocatura generale dello Stato, che, per quanto scarna, la disciplina del permesso di soggiorno per attesa cittadinanza è contenuta, come s’è visto, nell’art. 11, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 394 del 1999: ma si è già sottolineato che, trattandosi di fonte regolamentare, il giudice a quo non avrebbe comunque potuto farne oggetto di diretta censura dinnanzi a questa Corte.
Ciò posto, l’inammissibilità della questione, a ben vedere, discende da una ragione distinta da – e logicamente antecedente a – quella allegata dall’Avvocatura erariale.
Invero, anche alla luce della peculiare ratio della legge n. 379 del 2000, ispirata da un chiaro favor per la concessione della cittadinanza italiana a una particolare categoria di soggetti, il giudice a quo avrebbe dovuto verificare la esperibilità di una interpretazione volta a regolare ragionevolmente – in modo conforme a Costituzione – la situazione di quanti, in Italia per vedersi riconoscere la cittadinanza, si sono trovati ad attendere per lungo tempo la definizione del relativo procedimento, dovendo in particolare provvedere alle proprie necessità di vita attraverso l’indispensabile svolgimento di un’attività di lavoro.
Ribadita la non applicabilità a casi del genere della disciplina contenuta nel d.lgs. n. 286 del 1998, poiché, come già detto, rispondente a una logica del tutto distinta da quella della legge n. 379 del 2000, va rilevato che non è sconosciuta all’ordinamento l’ipotesi di permessi di soggiorno che, pur non essendo convertibili in permessi abilitanti al lavoro, consentono comunque lo svolgimento di attività lavorativa per tutta la durata del permesso stesso, e la consentono, perciò, senza direttamente incidere né sulla tassatività delle ipotesi di conversione, né sulla regolamentazione dei flussi e delle quote di stranieri che entrano in Italia per ragioni di lavoro (si veda, ad esempio, il combinato disposto degli artt. 29, comma 6, e 31 del d.lgs. n. 286 del 1998; l’art. 20-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera h), del d.l. n. 113 del 2018; l’art. 32, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, recante «Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato»).
Nell’assenza di una espressa disciplina che regolamenti la situazione di quanti, destinatari della legge n. 379 del 2000, hanno ottenuto il permesso di soggiorno per attesa cittadinanza pur senza avere un precedente titolo abilitante alla permanenza in Italia, e in Italia aspettano la conclusione del procedimento volto alla verifica dei prescritti requisiti, il giudice rimettente avrebbe perciò dovuto verificare la praticabilità, in base alla ratio della legge n. 379 del 2000 e alla luce della Costituzione, di un’interpretazione che non trasformi l’imprevisto ritardo della procedura di verifica (anche considerando i termini generalmente previsti per la conclusione dei procedimenti per l’acquisto e la concessione della cittadinanza) in una lesione di diritti costituzionali essenziali, quale il diritto al lavoro. Lesione che assume connotati peculiari considerando, altresì, che essa avviene ai danni di un soggetto cui la legge, oltretutto, riconosce la cittadinanza, in caso di esito positivo della verifica, a decorrere dal giorno successivo in cui è stata resa la dichiarazione richiesta (art. 15 della legge n. 91 del 1992).
Non è senza significato, del resto, che proprio nella direzione qui indicata si fossero in prima battuta orientate le stesse amministrazioni locali, che avevano inizialmente consentito al ricorrente nel giudizio principale di svolgere attività lavorativa, come si desume dall’ordinanza di rimessione.
Il non aver svolto la verifica illustrata è causa d’inammissibilità delle questioni sollevate.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 14 dicembre 2000, n. 379 (Disposizioni per il riconoscimento della cittadinanza italiana alle persone nate e già residenti nei territori appartenuti all’Impero austro-ungarico e ai loro discendenti) e dell’art. 6 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), sollevate in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale regionale di giustizia amministrativa del Trentino Alto-Adige, sede di Trento, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 maggio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Nicolò ZANON, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 giugno 2019.