SENTENZA N. 153
ANNO 2018
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 170, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18 (Ordinamento dell’Amministrazione degli affari esteri), promossi dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per il Lazio, giudice unico delle pensioni, con ordinanze del 10 maggio 2017 e del 3 maggio 2017, iscritte rispettivamente al n. 164 del registro ordinanze 2017 e al n. 9 del registro ordinanze 2018 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2017 e n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visti gli atti di costituzione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), di Giuseppe Magno e di Mario Fugazzola, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e di Giovanni Ferrero;
udito nell’udienza pubblica del 20 giugno 2018 il Giudice relatore Silvana Sciarra;
uditi l’avvocato Raffaella Chiummiento per Giovanni Ferrero, l’avvocato Eugenio Picozza per Giuseppe Magno e Mario Fugazzola, l’avvocato Luigi Caliulo per l’INPS e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per il Lazio, giudice unico delle pensioni, con ordinanze iscritte al n. 164 del registro ordinanze 2017 e al n. 9 del registro ordinanze 2018, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, identica questione di legittimità costituzionale dell’art. 170, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18 (Ordinamento dell’Amministrazione degli affari esteri), «nella parte in cui prevede che, nei confronti del soggetto appartenente alla carriera diplomatica il quale alla data di collocamento a riposo risulti assegnato ad una sede di servizio all’estero, ai fini pensionistici la retribuzione di posizione venga computata soltanto nella “misura minima prevista dalle disposizioni applicabili” anziché in misura correlata al grado rivestito da quel medesimo soggetto e alle funzioni a lui conferibili avuto riguardo al grado stesso».
1.1.– Il giudice a quo espone di dover decidere sui ricorsi di un consigliere di ambasciata (reg. ord. n. 164 del 2017) e di un ministro plenipotenziario (reg. ord. n. 9 del 2018), collocati a riposo quando erano in servizio presso una sede estera e perciò beneficiari di una pensione di vecchiaia e di un’indennità di buonuscita notevolmente inferiori a quelle che avrebbero conseguito se fossero stati in servizio a Roma nell’ultima parte della carriera.
I ricorrenti nei giudizi principali hanno chiesto di calcolare a fini pensionistici l’indennità di posizione in misura corrispondente a quella spettante al personale di pari grado e funzioni in servizio in Italia o, in subordine, in misura corrispondente alla posizione funzionale di rango meno elevato che può essere attribuita a un funzionario di pari rango, o, in via ulteriormente gradata, nella misura percepita prima della partenza per l’estero.
I ricorrenti hanno eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 170, primo comma, del d.P.R. n. 18 del 1967, interpretato nel senso che la misura minima dell’indennità di posizione, sancita per il periodo in cui il rapporto di impiego si svolge all’estero, opera anche ai fini pensionistici.
Nei giudizi principali si è costituito il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale (d’ora in avanti, anche: MAECI) e ha eccepito la carenza di giurisdizione del giudice contabile a favore del giudice amministrativo e la prescrizione delle pretese.
Quanto al merito, il Ministero ha evidenziato che l’eventuale computo dell’indennità di posizione in misura superiore a quella minima sarebbe sfornito di contribuzione previdenziale e che per i ricorrenti sarebbe stata computata anche l’indennità di servizio all’estero, negata a chi presti servizio presso la sede centrale.
Nei giudizi a quibus si è costituito l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), che ha eccepito in linea preliminare la carenza di giurisdizione del giudice contabile a favore del giudice amministrativo, il difetto di legittimazione passiva e la prescrizione delle pretese.
Nel merito, l’INPS ha ricordato che non sono efficaci statuizioni in materia pensionistica che non siano precedute dalla condanna del datore di lavoro al pagamento degli importi retributivi.
La Corte di cassazione, sezioni unite civili, adìta con istanza di regolamento di giurisdizione dalle parti ricorrenti nei giudizi principali, ha dichiarato la giurisdizione del giudice contabile (ordinanze 19 luglio 2016, n. 14795 e n. 14796) e, dinanzi a tale giudice, le cause sono state tempestivamente riassunte nel termine di tre mesi, con ricorsi notificati il 7 ottobre e depositati il 14 ottobre 2016.
Il rimettente osserva che è stata acclarata la giurisdizione del giudice contabile e che non sussiste alcuna necessità di pronunciarsi preliminarmente sul rapporto di impiego. Quanto all’eccezione di prescrizione, non potrebbe elidere del tutto il diritto dei ricorrenti alle differenze pensionistiche.
1.2.– In punto di rilevanza, il rimettente, dopo avere così sgombrato il campo dalle eccezioni pregiudiziali, argomenta che i ricorrenti, in servizio all’estero, percepivano l’indennità di posizione nella misura minima e che l’ammontare della retribuzione di posizione ha determinato una «sperequazione sul piano pensionistico», che si riflette anche sull’indennità di buonuscita.
Il giudice a quo ricorda che la prassi del ministero e l’orientamento della giurisprudenza contabile (in particolare, Corte dei conti, sezione seconda giurisdizionale centrale d’appello, sentenza 22 febbraio 2017, n. 112) hanno computato nella misura minima – anche ai fini pensionistici – la retribuzione di posizione di chi concluda all’estero la carriera.
Il rimettente, pertanto, reputa inevitabile, a fronte di un orientamento giurisprudenziale, «enunciato oltretutto in grado d’appello», sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 170, primo comma, del d.P.R. n. 18 del 1967.
1.3.– Il giudice a quo assume che la «rilevante sperequazione (concettuale e quantitativa) tra un funzionario diplomatico che abbia svolto a Roma l’ultima tranche del servizio presso il MAECI ed uno che invece abbia lavorato in una sede estera quell’estremo segmento temporale», pur legittima in costanza del rapporto di impiego, sia irragionevole oltre la data del pensionamento, allorché viene in rilievo soltanto il grado rivestito nell’àmbito di una carriera diplomatica che è ispirata al principio di unitarietà.
Il rimettente denuncia l’irragionevolezza della scelta di attribuire a due appartenenti all’unitaria carriera diplomatica «trattamenti pensionistici quantitativamente assai diversi semplicemente in relazione ad una circostanza di fatto non più in essere».
Peraltro, basterebbe rientrare in Italia anche solo per poche settimane prima del collocamento a riposo per godere di un trattamento pensionistico commisurato all’indennità di posizione nell’ammontare più alto. Vi sarebbe, dunque, anche un’ingiustificata disparità di trattamento «tra due diplomatici già in servizio all’estero, qualora uno di essi venisse richiamato presso l’Amministrazione centrale poco tempo prima del collocamento a riposo […] e l’altro invece rimanesse a lavorare all’estero».
L’irragionevolezza della disciplina pensionistica applicabile alla retribuzione di posizione emergerebbe anche dal raffronto con il trattamento riservato all’indennità integrativa speciale. Tale voce, pur negata in costanza del rapporto di lavoro a chi presti servizio all’estero (art. 1-bis, comma 1, lettera a, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, recante «Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo», convertito, con modificazioni, nella legge 14 settembre 2011, n. 148), sarebbe computata nel trattamento di quiescenza e tornerebbe dunque «ad espandersi alla misura normale».
La disparità di trattamento non potrebbe dirsi giustificata sul presupposto che l’eventuale computo dell’indennità di posizione in misura eccedente quella minima non sia coperto da contribuzione previdenziale. Il ricorrente, ove fosse rientrato in servizio a Roma un mese prima del collocamento a riposo, avrebbe goduto dell’indennità di posizione nella misura più favorevole, a prescindere da ogni valutazione sulla contribuzione eventualmente versata.
L’indennità di servizio all’estero, sprovvista di natura retributiva, non avrebbe alcuna rilevanza ai fini pensionistici e non potrebbe pertanto bilanciare la denunciata sperequazione.
2.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 164 del 2017 si è costituito Giuseppe Magno, con atto depositato l’11 dicembre 2017, e ha chiesto di accogliere la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte dei conti. Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 9 del 2018, si è costituito Mario Fugazzola, con atto depositato il 16 febbraio 2018, e ha rassegnato le medesime conclusioni.
Le parti costituite hanno evidenziato che la disposizione censurata prescrive di corrispondere l’indennità di posizione al minimo durante il periodo di servizio all’estero e non riguarda il trattamento previdenziale, poiché disciplina soltanto il trattamento retributivo.
La sperequazione, prodotta dall’interpretazione prevalente della disposizione in esame, sarebbe ancora più irragionevole alla luce del fatto che la permanenza all’estero o il richiamo in Italia non derivano da una libera scelta dell’interessato, ma da provvedimenti unilaterali del ministero, che decide discrezionalmente anche il momento del rientro in Italia.
La carriera diplomatica si caratterizzerebbe per la sua unitarietà e per l’obbligo di alternare, ai fini del normale progresso in carriera, periodi di permanenza all’estero con periodi di permanenza in Italia. In questo quadro, sarebbero prive di giustificazione differenze di trattamento previdenziale così marcate, legate al dato accidentale del luogo in cui si conclude il servizio attivo.
L’irragionevolezza della disciplina sarebbe avvalorata anche dal raffronto con l’indennità integrativa speciale. Tale voce, pur sospesa durante il periodo di servizio all’estero, sarebbe computata ai fini del trattamento pensionistico. Alle stesse conclusioni si dovrebbe giungere per la retribuzione di posizione.
Non rivestirebbe una valenza compensativa l’erogazione di altri emolumenti, come l’indennità di servizio all’estero, in quanto essi sarebbero privi di natura retributiva e non entrerebbero a comporre, pertanto, il trattamento pensionistico.
Non rileverebbe l’argomento che, per giustificare il trattamento deteriore riservato ai diplomatici che concludono il servizio all’estero, fa leva sui contributi versati. Sarebbe sufficiente considerare, a tale riguardo, che basta il rientro anticipato anche di pochi giorni per giovarsi, a fini pensionistici, della retribuzione di posizione nella misura piena, corrispondente al grado. È dunque ininfluente, in tale ipotesi, che i contributi siano stati pagati solo sulla retribuzione di posizione corrisposta nella misura minima.
3.– In entrambi i giudizi si è costituito l’INPS, con atti depositati il 12 dicembre 2017 e il 16 febbraio 2018, e ha chiesto di dichiarare inammissibile o comunque manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte dei conti.
L’ente previdenziale individua un profilo di inammissibilità nel fatto che il rimettente si prefigga di ottenere un avallo dell’interpretazione prescelta, che si discosta dall’orientamento espresso dal giudice del gravame.
La questione sollevata sarebbe inammissibile anche perché il giudice a quo non avrebbe individuato correttamente la disposizione applicabile alla fattispecie controversa. Nel caso di specie, difatti, non verrebbe in rilievo l’art. 170 del d.P.R. n. 18 del 1967, che si limita a regolamentare il trattamento retributivo, ma, in primo luogo, l’art. 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato).
Quanto al merito, l’INPS osserva che, in virtù di tale ultima disposizione, la base pensionabile utile ai fini della determinazione del trattamento previdenziale è costituita dall’ultimo stipendio e dagli emolumenti tassativamente indicati dalla legge ed effettivamente percepiti, così da garantire all’ente che eroga la pensione l’acquisizione dei contributi assicurativi necessari per finanziarla.
Peraltro, lo stesso rimettente reputerebbe legittima una disciplina retributiva differenziata dei dipendenti che prestano servizio in Italia rispetto ai dipendenti che prestano servizio all’estero. Il diverso trattamento pensionistico non sarebbe che la conseguenza ineludibile di «quei diversi assetti retributivi». Da tali considerazioni discenderebbe l’infondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale.
4.– In entrambi i giudizi è intervenuto, con atti depositati il 12 dicembre 2017 e il 13 febbraio 2018, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto di dichiarare inammissibile e comunque infondata la questione di legittimità costituzionale.
La questione sarebbe inammissibile, poiché coinvolgerebbe scelte rimesse all’apprezzamento discrezionale del legislatore.
Nel merito, la questione non sarebbe fondata.
Non potrebbero essere poste a raffronto la prestazione del servizio presso l’amministrazione centrale a Roma e la prestazione del servizio all’estero. L’unitarietà di ruolo della carriera diplomatica non cancellerebbe la peculiarità della prestazione del servizio all’estero, idonea a giustificare una disciplina previdenziale differente, che tenga conto delle diverse funzioni esercitate e del diverso contesto di riferimento.
Nel periodo di servizio all’estero il personale diplomatico percepirebbe, in aggiunta allo stipendio e all’indennità di posizione, l’indennità di servizio all’estero, che ha natura onnicomprensiva e carattere esclusivo e include una quota dell’indennità di base computata anche a fini previdenziali.
Peraltro, secondo la difesa dell’interveniente, anche per la dirigenza contrattualizzata e per la dirigenza scolastica, la retribuzione di posizione è corrisposta a chi svolga le funzioni all’estero soltanto nella parte fissa, non anche nella parte variabile.
5.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 164 del 2017, con atto depositato il 12 dicembre 2017, ha spiegato intervento Giovanni Ferrero, cessato dal servizio il 24 giugno 2005 come ambasciatore a Santiago del Cile, con il grado di ministro plenipotenziario.
La parte interveniente ha dedotto di vantare un interesse qualificato alla declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione censurata e ha concluso per l’accoglimento della questione sollevata dalla Corte dei conti.
6.– In prossimità dell’udienza, hanno depositato memorie illustrative l’INPS, il 29 maggio 2018, e, il 30 maggio 2018, Giuseppe Magno, Mario Fugazzola e Giovanni Ferrero.
6.1.– L’INPS ha ribadito le conclusioni rassegnate nella memoria di costituzione e ha richiamato, in particolare, la sentenza n. 304 del 2013, che ha analizzato la peculiarità del trattamento economico e funzionale del personale diplomatico, che non è uguale per tutti i dipendenti appartenenti al medesimo grado. Nell’ordinamento della carriera diplomatica non si riscontrerebbe un’obbligatoria corrispondenza tra grado e funzioni e tra grado e trattamento economico correlato all’esercizio delle funzioni.
Anche tali elementi, oltre alla specificità e all’eterogeneità delle rispettive situazioni di lavoro, confermerebbero l’impossibilità di istituire un raffronto tra il personale della carriera diplomatica che opera in Italia e il personale che svolge le funzioni all’estero.
Quanto ai ricorrenti nei giudizi principali, titolari di una retribuzione di posizione nella misura minima, avrebbero già goduto dell’indennità di servizio all’estero, che non spetta a chi operi presso l’amministrazione centrale ed è valorizzata ai fini pensionistici nella misura del 50 per cento della quota base.
6.2.– Giuseppe Magno e Mario Fugazzola hanno chiesto, in via istruttoria, di acquisire, per il periodo dal 1° gennaio 2000 al 31 maggio 2018, l’elenco dei funzionari diplomatici in missione all’estero richiamati anticipatamente presso la sede italiana almeno tre mesi prima rispetto al collocamento a riposo e hanno chiesto, nel merito, di rigettare le eccezioni pregiudiziali di inammissibilità, di accogliere la questione di legittimità costituzionale e, in subordine, di dichiararla infondata alla luce di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 170, primo comma, del d.P.R. n. 18 del 1967.
Le parti costituite negano che il rimettente intenda ottenere dalla Corte costituzionale l’avallo dell’interpretazione prescelta e affermano che l’incidente di costituzionalità, a fronte di un’interpretazione accreditata dalle sezioni centrali di appello della Corte dei conti, risponde all’esigenza di «assicurare effettività alla tutela giurisdizionale», oltre che «al superiore principio di equità».
Non sarebbe fondata neppure l’eccezione di aberratio ictus, in quanto la questione di legittimità costituzionale verte proprio sulla disposizione censurata e sulla disciplina della retribuzione di posizione. Non verrebbe in rilievo, nel caso di specie, la normativa generale dell’art. 43 del d.P.R. n. 1092 del 1973, che riguarda in generale dipendenti pubblici che prestano il servizio interamente in Italia e non già diplomatici che alternino obbligatoriamente periodi di servizio in Italia e all’estero.
Questa Corte potrebbe, con una sentenza interpretativa di rigetto, optare per un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, che eviti «la meccanica trasposizione» della disciplina retributiva dell’indennità di posizione al trattamento previdenziale.
Ove non si reputasse praticabile tale interpretazione costituzionalmente orientata, si dovrebbe giungere all’accoglimento della questione, alla luce dell’unicità strutturale e funzionale della carriera e del ruolo del personale diplomatico. In tal senso militerebbe anche l’esigenza di impedire che una disposizione, preordinata a favorire il trattamento retributivo di chi presti servizio all’estero, si risolva in ultima analisi in un pregiudizio da un punto di vista previdenziale.
L’irragionevolezza della disciplina sarebbe ancora più evidente, poiché la permanenza in Italia o all’estero non sarebbe riconducibile a una libera scelta dell’interessato.
In via istruttoria, viene chiesto a questa Corte di acquisire la documentazione inerente al richiamo anticipato dei diplomatici in servizio all’estero, poco prima della maturazione del termine del collocamento in quiescenza. Solo per quindici diplomatici, tale prassi sarebbe stata disattesa.
6.3.– La parte interveniente ha chiesto di accogliere la questione di legittimità costituzionale, lamentando l’irragionevolezza della disposizione censurata.
7.– All’udienza del 20 giugno 2018, le parti hanno ribadito le conclusioni formulate negli scritti difensivi.
Considerato in diritto
1.– La Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per il Lazio, giudice unico delle pensioni, con le ordinanze iscritte al n. 164 del registro ordinanze 2017 e al n. 9 del registro ordinanze 2018, dubita, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 170, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18 (Ordinamento dell’Amministrazione degli affari esteri), nella parte in cui prevede, ai fini pensionistici, che l’indennità o la retribuzione di posizione del «personale dell’Amministrazione degli affari esteri» sia computata «nella misura minima prevista dalle disposizioni applicabili» e non già nella misura intera attribuita a chi lavori in Italia.
Tale previsione condurrebbe a riconoscere al personale collocato a riposo quando è in servizio all’estero una pensione di vecchiaia notevolmente inferiore rispetto a quella proporzionata all’indennità o alla retribuzione di posizione calcolate nella misura piena.
Una tale disparità di trattamento si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), poiché sarebbe priva di ogni giustificazione apprezzabile.
L’unitarietà di ruolo della carriera diplomatica, sancita dall’art. 101, primo comma, del d.P.R. n. 18 del 1967, confermerebbe «la totale irragionevolezza insita nell’attribuire a due appartenenti alla carriera diplomatica trattamenti pensionistici quantitativamente assai diversi semplicemente in relazione ad una circostanza di fatto non più in essere», ovvero la permanenza all’estero al tempo del collocamento a riposo. Con il pensionamento, difatti, cesserebbero le differenze legate allo svolgimento delle funzioni in Italia o all’estero e verrebbe in rilievo soltanto il grado rivestito.
L’irragionevolezza della disciplina in esame emergerebbe anche in una diversa prospettiva.
Il rimettente argomenta che basterebbe «rientrare in Italia finanche poche settimane prima del collocamento a riposo» per beneficiare di un trattamento pensionistico ancorato alla misura massima dell’indennità di posizione. Si riscontrerebbe, pertanto, una sperequazione tra due diplomatici già in servizio all’estero, qualora uno di essi venisse richiamato presso l’Amministrazione centrale poco tempo prima del collocamento a riposo […] e l’altro invece rimanesse a lavorare all’estero».
La violazione del principio di eguaglianza si apprezzerebbe anche sulla scorta del raffronto con la disciplina pensionistica applicabile all’indennità integrativa speciale. Tale voce, pur negata a chi presti servizio all’estero, concorrerebbe, nondimeno, a determinare il trattamento di quiescenza.
Alla disparità di trattamento denunciata non porrebbe rimedio l’attribuzione dell’indennità di servizio all’estero, che «non viene minimamente conservata nel trattamento di quiescenza», in quanto sarebbe sfornita di natura retributiva.
2.– I giudizi vertono sulla medesima disposizione ed evocano, in termini coincidenti, la violazione del medesimo parametro (art. 3 Cost.). È quindi opportuno che siano riuniti e congiuntamente decisi.
3.– Si deve considerare, preliminarmente, che nel giudizio di legittimità costituzionale originato dall’ordinanza di rimessione iscritta al n. 164 del registro ordinanze 2017 è intervenuto ad adiuvandum Giovanni Ferrero, aderendo alle argomentazioni dell’ordinanza di rimessione e chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale.
Deve essere ribadita l’inammissibilità di tale intervento, per le ragioni esposte nell’ordinanza emessa all’udienza del 20 giugno 2018.
Per costante giurisprudenza di questa Corte, la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale).
A tale disciplina è possibile derogare − senza contraddire il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità − «soltanto a favore di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura» (fra le molte, sentenza n. 77 del 2018, punto 4. del Considerato in diritto).
Nel caso di specie, Giovanni Ferrero, che si limita ad affermare, senza altre specificazioni, la sussistenza di un interesse qualificato all’intervento, è titolare di una situazione soggettiva regolata dalla norma oggetto di censura, al pari delle situazioni soggettive dei ricorrenti nei giudizi a quibus. Da tali elementi, tuttavia, non è possibile desumere un interesse direttamente riconducibile all’oggetto dei giudizi principali e allo specifico rapporto sostanziale in essi dedotto.
4.– L’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) ha eccepito, in linea preliminare, l’inammissibilità della questione per inesatta individuazione della disciplina applicabile.
4.1.– Le censure, in particolare, si indirizzerebbero contro la disposizione che regolamenta il trattamento retributivo del personale diplomatico in servizio all’estero. Nel caso di specie, tuttavia, verrebbe in rilievo la disciplina del trattamento pensionistico, dettata dall’art. 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato) e, nella successiva evoluzione, dall’art. 13 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e dall’art. 2 della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare).
4.2.– Nelle memorie illustrative depositate in vista dell’udienza i ricorrenti nei giudizi a quibus replicano che l’art. 43 del d.P.R. n. 1092 del 1973 è norma generale, «pensata per dipendenti pubblici che prestano il loro servizio interamente in Italia» e non per la peculiare posizione dei diplomatici, e soggiungono che la previsione richiamata comunque non preclude una più favorevole valutazione previdenziale della retribuzione di posizione per i diplomatici che conseguano all’estero il diritto alla pensione.
5.– L’eccezione è fondata.
5.1.– La vicenda sottoposta al vaglio del rimettente investe il trattamento previdenziale del personale diplomatico che conclude la carriera all’estero, sotto il peculiare profilo della rilevanza ai fini pensionistici della retribuzione di posizione.
Il giudice a quo censura l’art. 170, primo comma, del d.P.R. n. 18 del 1967, che per il personale in servizio all’estero dispone l’attribuzione dell’indennità o retribuzione di posizione «nella misura minima prevista dalle disposizioni applicabili» e assume che tale disciplina sia foriera di una considerevole sperequazione sul versante previdenziale.
Lo stesso rimettente, con argomentazioni riprese anche dai ricorrenti nei giudizi principali, dà conto della puntuale portata precettiva della previsione censurata, che concerne il trattamento retributivo e «ha soltanto l’effetto di limitare alla misura minima il quantum della retribuzione di posizione fintantoché il funzionario diplomatico presti servizio all’estero» (punto 13. delle ordinanze di rimessione).
Il giudice a quo, peraltro, nel ripercorrere l’interpretazione propugnata dalla Corte dei conti in fase di gravame (Corte dei conti, sezione seconda giurisdizionale centrale d’appello, sentenza 22 febbraio 2017, n. 112), si premura di specificare che è stata proprio l’applicazione della disciplina previdenziale e, in particolare, dell’art. 43 del d.P.R. n. 1092 del 1973, a condurre al rigetto delle pretese pensionistiche del personale diplomatico collocato a riposo mentre era in servizio all’estero (punto 14. delle ordinanze di rimessione).
5.2.– Nella prospettiva del rimettente, sarebbe dunque la disciplina previdenziale, in correlazione con la disciplina delle diverse voci del trattamento retributivo, a recare il vulnus denunciato.
In una controversia che attiene al trattamento pensionistico il giudice a quo, per contro, censura le sole previsioni in tema di trattamento retributivo, senza coglierne le implicazioni sulla disciplina previdenziale ratione temporis applicabile, anche alla luce dell’evoluzione del quadro normativo e delle deduzioni svolte a tale riguardo dalle parti.
Gli argomenti addotti dai ricorrenti nei giudizi a quibus, incentrati sulla specificità del regime pensionistico del personale diplomatico e sul ruolo cruciale della normativa sulla retribuzione di posizione, avvalorano la necessità di individuare e censurare la disciplina previdenziale, in connessione con la disciplina retributiva che ne costituisce il necessario presupposto.
5.3.– L’erronea individuazione della disciplina censurata ha portata dirimente e implica l’inammissibilità della questione, nei termini in cui è stata prospettata.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 170, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 18 (Ordinamento dell’Amministrazione degli affari esteri), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per il Lazio, giudice unico delle pensioni, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 giugno 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Silvana SCIARRA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l'11 luglio 2018.