Sentenza n. 45 del 2018

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SENTENZA N. 45

ANNO 2018

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Giorgio                       LATTANZI                                       Presidente

-           Aldo                           CAROSI                                            Giudice

-           Marta                          CARTABIA                                              ”

-           Mario Rosario             MORELLI                                                 ”

-           Giancarlo                    CORAGGIO                                             ”

-           Giuliano                      AMATO                                                    ”

-           Silvana                        SCIARRA                                                 ”

-           Daria                           de PRETIS                                                ”

-           Nicolò                         ZANON                                                    ”

-           Augusto Antonio       BARBERA                                                ”

-           Giulio                         PROSPERETTI                                         ”

-           Giovanni                     AMOROSO                                              ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 426 del codice di procedura civile, promosso dal Tribunale ordinario di Verona, nel procedimento civile vertente tra Morris Bragato in proprio e nella qualità di legale rappresentante della Agrojepistema Bragato Luciano di Bragato Morris & C. snc e Diego Carpenedo, con ordinanza del 16 gennaio 2017, iscritta al n. 90 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Udito nella camera di consiglio del 7 febbraio 2018 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli.

Ritenuto in fatto

1.− Nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo − proposto «nelle forme ordinarie», con atto di citazione notificato alla controparte, in relazione al quale era stato però disposto il mutamento del rito, per inerenza del credito azionato a rapporto di locazione ricadente (ex art. 447-bis del codice di procedura civile) nell’ambito delle controversie per le quali è prescritto il rito speciale del lavoro (da introdursi con deposito del ricorso in cancelleria ai sensi degli articoli 409 e seguenti dello stesso codice) – l’adito Tribunale ordinario di Verona, in composizione monocratica, chiamato a pronunciarsi sull’eccezione avversaria di tardività dell’opposizione, risultandone il deposito effettuato oltre il termine perentorio (di 40 giorni dalla notificazione del decreto ingiuntivo) di cui all’art. 641 cod. proc. civ., ha ritenuto di conseguenza rilevante, e non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, ed ha perciò sollevato, con l’ordinanza in epigrafe, questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 426 cod. proc. civ., nella parte, appunto, in cui, secondo l’interpretazione giurisprudenziale consolidatasi in termini di diritto vivente, «non prevede che, in caso di introduzione con rito ordinario di una causa soggetta al rito previsto dagli art. 409 e ss. c. p. c. e di conseguente mutamento del rito, gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producano secondo le norme del rito ordinario, seguito fino al mutamento».

Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata, così interpretata, violerebbe l’art. 3 Cost., per irragionevolezza, e gli artt. 24 e 111 Cost., per il vulnus, che ne conseguirebbe, al diritto all’effettività della tutela giurisdizionale e ad un giusto processo.

In relazione al primo profilo, verrebbero, infatti, in rilievo, sia la sopravvenuta previsione normativa di cui all’art. 4, comma 5, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), sia i principi rinvenibili nella giurisprudenza costituzionale in tema di «translatio iudicii» (sentenze n. 77 del 2007 e n. 223 del 2013), alla cui stregua gli effetti processuali dell’originaria domanda si conservano, rispettivamente, anche nell’ipotesi di erronea scelta del rito o di proposizione ab origine della domanda stessa dinanzi a giudice incompetente o sprovvisto di giurisdizione.

Quanto al secondo profilo, «l’applicazione riduttiva del principio di strumentalità della forma […] ed in particolare il condizionamento dell’operatività del principio della sanatoria per raggiungimento dello scopo alla tempestiva realizzazione degli effetti tipici dell’atto introduttivo del rito corretto» – quali, appunto, si rifletterebbero nella disposizione denunciata – la renderebbero, appunto, ingiustificata e lesiva del diritto alla effettività della tutela giurisdizionale dell’attore.

2.– Nessuna delle parti del giudizio a quo si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale né è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1.– L’art. 426 del codice di procedura civile, sotto la rubrica «Passaggio dal rito ordinario al rito speciale», testualmente dispone, al primo comma, che «[i]l giudice, quando rileva che una causa promossa nelle forme ordinarie riguarda uno dei rapporti [di lavoro] previsti dall’articolo 409, fissa con ordinanza l’udienza di cui all’articolo 420 e il termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti di cancelleria».

2.– Con riferimento, in particolare, all’ipotesi in cui una causa di opposizione a decreto ingiuntivo concesso per crediti relativi a un rapporto di locazione – e per ciò, soggetta al rito speciale previsto per i rapporti di lavoro (in virtù del rinvio a questo operato dall’art. 447-bis cod. proc. civ.) – sia stata erroneamente, invece, promossa con atto di citazione, «nelle forme ordinarie», la Corte di cassazione, in sede di esegesi del predetto art. 426, è, da data risalente, ferma nel ritenere che la citazione può produrre gli effetti del ricorso solo se sia depositata in cancelleria entro il termine di cui all’art. 641 cod. proc. civ., non essendo sufficiente che, entro tale data, sia stata notificata alla controparte (da ultimo, sezione sesta civile, ordinanze 19 settembre 2017, n. 21671 e 29 dicembre 2016, n. 27343; sezioni unite civili, sentenza 23 settembre 2013, n. 21675; in precedenza, ex plurimis, terza sezione civile, sentenza 2 aprile 2009, n. 8014; e sezione lavoro, sentenza 26 marzo 1991, n. 3258).

In tal senso l’esegesi dell’art. 426 cod. proc. civ. si è ormai consolidata come “diritto vivente”.

3.– Il Tribunale ordinario di Verona – nel corso, appunto, di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo relativo a crediti in materia di locazione, irritualmente introdotto con atto di citazione poi tardivamente depositato in cancelleria di cui la controparte aveva per tal profilo, però, eccepito l’inammissibilità – ha ritenuto, di conseguenza, rilevante, e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, ed ha quindi sollevato questione incidentale di legittimità costituzionale dell’art. 426 c. p. c. come interpretato dal giudice della nomofilachia, «nella parte in cui non prevede che, in caso di introduzione con rito ordinario di una causa soggetta al rito previsto dagli artt. 409 e ss. c. p. c. e di conseguente mutamento del rito, gli effetti sostanziali e processuali si producano secondo le norme del rito ordinario, seguito fino al mutamento».

4.– L’irrilevanza della data di non rituale introduzione del giudizio, ai fini del rispetto del termine di decadenza cui sia sottoposta la causa, corollario pacifico della riferita giurisprudenza, sarebbe conseguente, secondo il rimettente, alla «mancanza, nella disciplina del processo in caso di erronea scelta del rito […], di una previsione che ricolleghi tutti gli effetti processuali della domanda (e quindi anche quello della litispendenza) all’atto introduttivo del rito erroneamente scelto, secondo le forme proprie di quest’ultimo».

Ma, proprio in ragione di tale “vuoto normativo” (che il giudice a quo sostanzialmente chiede a questa Corte di colmare con una pronunzia additiva), il censurato art. 426 cod. proc. civ., violerebbe, a suo avviso, l’art. 3 Cost., per irragionevolezza, e gli artt. 24 e 111 Cost., per il vulnus, che ne conseguirebbe, al diritto dell’effettività della tutela giurisdizionale e ad un giusto processo.

La sanatoria dimidiata, e non piena, dell’atto non ritualmente introdotto «nelle forme ordinarie» (in luogo di quelle del rito speciale per esso previste) – quale unicamente consentita dalla disposizione impugnata – non sarebbe, infatti, più coerente alla sopravvenuta previsione normativa di cui all’art. 4, comma 5, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), a tenore della quale gli effetti della domanda si producono facendo riferimento alla forma e quindi alla data dell’atto (sia pur erroneamente) in concreto prescelto e non a quella che l’atto avrebbe dovuto avere, e che assuma a seguito della conversione del rito.

E ciò in linea con una “inversione di tendenza” (cui fa riferimento il legislatore del 2011, e che rimanda, peraltro, al principio generale di sanatoria dell’atto per raggiungimento dello scopo, di cui all’art. 156 cod. proc. civ.), nel solco della quale si inserisce anche la cosiddetta translatio iudicii ex art. 59, comma 2, della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), in termini di salvezza degli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dalla instaurazione del primo giudizio, oltre ad una, sia pur eccentrica, pronuncia delle stesse sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 14 aprile 2011, n. 8491), sulla ritenuta sostanziale equipollenza delle forme del ricorso e della citazione ai fini dalla introduzione della impugnazione delle delibere condominiali.

5.– Le argomentazioni e i rilievi spesi dal giudice rimettente (anche in sintonia con la posizione di parte della dottrina processualcivilistica) muovono nella direzione di una ridefinizione del «passaggio dal rito ordinario al rito speciale» – quale ora recata dall’art. 426 cod. proc. civ., in termini di “diritto vivente” – su una linea di maggior coerenza con la disciplina dei nuovi riti speciali, nel senso che il mutamento del rito (rispondente ad un principio di conservazione dell’atto proposto in forma erronea) operi, in ogni caso, solo pro futuro, ossia ai fini del rito da seguire all’esito della conversione, senza penalizzanti effetti retroattivi, restando – in altri termini – fermi quelli, sostanziali e processuali, riconducibili all’atto introduttivo, sulla scorta della forma da questo in concreto assunta (e, cioè, nel caso in esame, sulla base di un atto di citazione tempestivamente comunque notificato alla controparte).

6.– Una tale auspicata riformulazione del meccanismo di conversione del rito sub art. 426 cod. proc. civ. riflette, appunto, una valutazione di opportunità, e di maggior coerenza di sistema, di una sanatoria piena, e non dimidiata, dell’atto irrituale, per raggiungimento dello scopo. Ma non per questo risponde ad una esigenza di reductio ad legitimitatem della disciplina attuale, posto che tale disciplina (a sua volta coerente ad un principio di tipicità e non fungibilità delle forme degli atti) non raggiunge quella soglia di manifesta irragionevolezza che consente il sindacato di legittimità costituzionale sulle norme processuali.

Con riguardo alla fattispecie in esame, questa Corte ha già avuto, peraltro, anche occasione di affermare che la diversa disciplina dell’opposizione a decreto ingiuntivo nel rito ordinario e in quello del lavoro (applicabile anche alle controversie in materia di locazione) «è giustificata […], essendo finalizzata alla concentrazione della trattazione ed alla immediatezza della pronuncia» (ordinanza n. 152 del 2000, che richiama la precedente ordinanza n. 936 del 1988) e che «il principio della legale conoscenza delle norme […] non può non valere quando la parte si avvalga, come nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo, del necessario patrocinio del difensore, ben in grado di desumere la causa petendi dagli atti notificati alla parte» (ordinanza n. 152 del 2000, che richiama le sentenze n. 347 del 1987 e n. 61 del 1980).

7.– A fronte, dunque, di un petitum implicante l’opzione per la modifica di una regola processuale – opzione di per sé meritevole di considerazione, ma comunque rientrante nell’ambito delle scelte riservate alla discrezionalità del legislatore – la questione in esame va, pertanto, dichiarata inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 426 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Verona, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 febbraio 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Mario Rosario MORELLI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 2 marzo 2018.