Sentenza n. 265 del 2017

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SENTENZA N. 265

ANNO 2017

 

Commento alla decisione di

 

Francesco Lazzeri

Per la Corte costituzionale non è irragionevole la previsione di un termine di prescrizione per i c.d. disastri colposi uguale a quello delle corrispondenti fattispecie dolose

 

per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Paolo                          GROSSI                                            Presidente

-           Giorgio                       LATTANZI                                         Giudice

-           Aldo                           CAROSI                                                    

-           Marta                          CARTABIA                                              

-           Mario Rosario             MORELLI                                                 

-           Giancarlo                    CORAGGIO                                             

-           Giuliano                      AMATO                                                    

-           Silvana                        SCIARRA                                                 

-           Daria                           de PRETIS                                                

-           Nicolò                         ZANON                                                    

-           Franco                        MODUGNO                                             

-           Augusto Antonio       BARBERA                                               

-           Giulio                         PROSPERETTI                                         

-           Giovanni                     AMOROSO                                              

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 157, sesto comma, del codice penale, promossi dalla Corte di cassazione con ordinanza del 29 aprile 2015, dal Tribunale ordinario di Velletri con ordinanza del 19 novembre 2015, dal Tribunale ordinario di Torino con ordinanza del 22 giugno 2015, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Larino con ordinanza del 21 luglio 2016 e dal Tribunale ordinario di Torino con ordinanza del 7 novembre 2016, iscritte rispettivamente al n. 237 del registro ordinanze 2015, ai nn. 32, 53 e 241 del registro ordinanze 2016 e al n. 103 del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2015, nn. 9, 12 e 48, prima serie speciale, dell’anno 2016 e n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti gli atti di costituzione di G. R. e di G. Z., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 21 novembre 2017 e nella camera di consiglio del 22 novembre 2017 il Giudice relatore Franco Modugno;

uditi gli avvocati Fulvio Simoni per G. R., Tullio Padovani per G. Z. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 29 aprile 2015 (r.o. n. 237 del 2015), la Corte di cassazione, quarta sezione penale, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, sesto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione del reato di «disastro colposo», di cui all’art. 449, in relazione all’art. 434 cod. pen., è raddoppiato.

1.1.– La Corte rimettente riferisce di essere investita del ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Sassari avverso la sentenza del Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale del 6 marzo 2014, che aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati per essere i reati loro contestati estinti per prescrizione.

Secondo il ricorrente, mentre per alcuni reati la decisione sarebbe corretta, per il delitto di cui agli artt. 434 e 449 cod. pen., indicato nel capo h) dell’imputazione, il giudice avrebbe errato nel ritenere non applicabile la disposizione concernente il raddoppio dei termini di prescrizione, di cui all’art. 157, sesto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del 2005. Tale legge è entrata, infatti, in vigore l’8 dicembre 2005, e non nel 2008, come ritenuto nella sentenza impugnata.

Il ricorso – ad avviso della Corte rimettente – sarebbe fondato, essendo, in effetti, la legge n. 251 del 2005 già vigente alla data di commissione del delitto in questione, indicato nel capo di imputazione come realizzato «fino al maggio 2006».

La novella del 2005 ha profondamente modificato la disciplina della prescrizione, stabilendo che essa estingua il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e, comunque sia, un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria (art. 157, primo comma, cod. pen., come novellato). In deroga a tale previsione, tuttavia, il sesto comma dello stesso art. 157 cod. pen. stabilisce che, per alcuni reati, il termine di prescrizione risultante dall’applicazione delle regole ordinarie è raddoppiato.

Tra i reati coinvolti nel regime del raddoppio figurano anche quelli previsti dall’art. 449 cod. pen., che al primo comma punisce con la reclusione da uno a cinque anni chiunque «cagiona per colpa un incendio o un altro disastro preveduto dal capo primo di questo titolo». Di conseguenza, i reati in parola – che in base alla regola generale dell’art. 157, primo comma, cod. pen. si prescriverebbero in sei anni – risultano assoggettati a un termine prescrizionale di anni dodici, aumentabile di un quarto, ai sensi dell’art. 161, secondo comma, cod. pen., nel caso di intervento di atti interruttivi.

La sentenza impugnata dovrebbe essere, di conseguenza, annullata, limitatamente alla statuizione relativa al reato in questione.

La Corte rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale dell’art. 157, sesto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede il raddoppio del termine prescrizionale del delitto di «disastro colposo», di cui al combinato disposto degli artt. 449 e 434 cod. pen.

La questione sarebbe rilevante, giacché, in caso di suo accoglimento, il reato per cui si procede risulterebbe già estinto per prescrizione prima della sentenza impugnata.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva che, in base alla regola generale posta dall’art. 157, primo comma, cod. pen., il reato di disastro doloso previsto dall’art. 434, secondo comma, cod. pen., in quanto punito con la pena della reclusione da tre a dodici anni, si prescrive in dodici anni. È questa la fattispecie dolosa corrispondente a quella colposa oggetto del giudizio a quo, nel quale si contesta agli imputati di aver cagionato per colpa «un disastro ambientale, consistito nella immissione in ambiente delle sostanze pericolose indicate nel capo di imputazione». Diversamente che per l’ipotesi dolosa – nella quale il reato resta integrato, ai sensi del primo comma dell’art. 434 cod. pen., nel momento in cui sorge un pericolo per la pubblica incolumità, mentre la verificazione del disastro vale a configurare la fattispecie aggravata prevista dal secondo comma dello stesso articolo – per la configurabilità del delitto colposo è necessario, ai sensi dell’art. 449 cod. pen., che l’evento si verifichi.

Il termine prescrizionale relativo al disastro colposo risulta, quindi, uguale a quello previsto per il disastro doloso, nel caso in cui l’evento si sia verificato.

Tale assetto risulterebbe di dubbia compatibilità con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza sanciti dall’art. 3 Cost.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 143 del 2014, ha già dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 157, sesto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede il raddoppio del termine di prescrizione del delitto di incendio colposo (art. 449, in riferimento all’art. 423 cod. pen.). Con riguardo a tale ipotesi criminosa, la norma censurata determinava, infatti, una anomalia di ordine sistematico, rendendo il termine prescrizionale della fattispecie colposa addirittura superiore a quello della corrispondente figura dolosa, identica sul piano oggettivo.

Secondo la Corte rimettente, anche rispetto al delitto in esame la norma denunciata produrrebbe effetti collidenti con i principi costituzionali evocati. Risulterebbe, infatti, «scardinata la scala della complessiva gravità delle due fattispecie criminose, atteso che l’ipotesi di disastro colposo (ex artt. 449 e 434 cod. pen.), meno grave, punita [...] con la pena edittale da uno a cinque anni, viene a prescriversi nel medesimo tempo occorrente per la più grave ipotesi dolosa, di cui all’art. 434, comma 2, cod. pen., punita con la reclusione da tre a dodici anni».

Non sarebbe possibile, d’altra parte, estendere in via interpretativa il «portato demolitorio» della sentenza n. 143 del 2014 ad altri disastri colposi, posto che detta pronuncia si basa specificamente sull’analisi comparativa delle cornici edittali dei reati di incendio, colposo e doloso.

1.2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, anche con successiva memoria, che la questione sia dichiarata non fondata.

Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, l’equiparazione dei termini di prescrizione del delitto di disastro, tanto colposo quanto doloso, lungi dal determinare una irragionevole sperequazione di trattamento, quale quella stigmatizzata dalla sentenza n. 143 del 2014 – concernente la diversa fattispecie dell’incendio colposo, sottoposta ad un termine di prescrizione quasi doppio di quello valevole per l’incendio doloso – sarebbe giustificata dal crescente allarme sociale generato dai delitti colposi di danno ambientale, oltre che da ragioni di ordine probatorio, collegate alla complessità delle indagini e degli accertamenti tecnici necessari ai fini del riconoscimento della colpa in tutti i suoi elementi costitutivi.

Si sarebbe, quindi, al cospetto di una scelta fondata su valutazioni discrezionali del legislatore, non censurabili in sede di sindacato di legittimità costituzionale.

1.3.– Si è costituito G. R., imputato nel giudizio a quo, il quale ha chiesto l’accoglimento della questione.

La parte privata sottolinea l’irragionevolezza dell’equiparazione dei termini di prescrizione di fattispecie criminose che, se pure identiche quanto a condotta ed evento, risultano connotate da un disvalore marcatamente differenziato in ragione della diversa componente psicologica, come attesta il profondo divario tra le rispettive pene edittali. Posto che, alla luce della giurisprudenza costituzionale, la prescrizione costituisce un istituto di diritto sostanziale, attinente al trattamento sanzionatorio complessivo degli illeciti penali, l’allineamento dei termini prescrizionali dei delitti in discorso infrangerebbe il basilare principio che impone di reprimere più severamente i fatti commessi con dolo rispetto a quelli realizzati per semplice colpa.

Al riguardo, sarebbe significativo il raffronto con la disciplina antecedente alla legge n. 251 del 2005, che individuava i termini di prescrizione correlandoli a "fasce di reati” di gravità decrescente. In tale cornice, alla maggiore gravità del disastro doloso di cui all’art. 434, secondo comma, cod. pen. faceva correttamente riscontro, ai sensi del previgente art. 157, primo comma, numero 2), cod. pen., un termine di prescrizione di quindici anni, largamente superiore a quello di dieci anni applicabile alla corrispondente fattispecie colposa in forza del numero 3) dello stesso articolo.

Analogamente a quanto ritenuto dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 143 del 2014 riguardo all’incendio, la scelta legislativa censurata non potrebbe trovare giustificazione né in considerazioni legate al grado di allarme sociale, essendo insostenibile che un disastro causato per colpa "resista all’oblio”, nella coscienza sociale, tanto quanto lo stesso disastro causato intenzionalmente; né nella complessità degli oneri probatori che gravano sull’accusa, la quale risulterebbe maggiore in rapporto alla fattispecie dolosa, non solo sotto il profilo dell’individuazione dei soggetti responsabili, ma anche sotto quello della dimostrazione dell’elemento psicologico.

1.4.– La parte privata ha depositato memoria, nella quale ha ulteriormente rilevato come la disciplina della prescrizione sia da sempre ispirata al criterio della correlazione tra disvalore del reato e tempo necessario a prescrivere. Detta disciplina rappresenterebbe, dunque, una proiezione sul terreno della punibilità del principio – di rango costituzionale – di necessaria proporzionalità fra la gravità del reato e l’entità della sanzione: proporzionalità che sarebbe stata «scardinata» dalla legge n. 251 del 2005 in rapporto al delitto in esame, obliterando il dato elementare per cui il dolo rappresenta la forma più grave di colpevolezza.

2.– Con ordinanza del 19 novembre 2015 (r.o. n. 32 del 2016), il Tribunale ordinario di Velletri ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, sesto comma, cod. pen., «nella parte in cui stabilisce il raddoppio dei termini di prescrizione per il reato di disastro colposo ex art. 449 c.p. in relazione alla fattispecie dolosa di cui all’art. 434, comma 2, c.p.».

2.1.– Il rimettente riferisce di essere investito del processo penale nei confronti di quattro persone, imputate del delitto di cui agli artt. 449, primo comma, e 434 cod. pen., per avere cagionato con colpa, tramite condotte omissive contrastanti con gli obblighi di garanzia connessi alle funzioni da esse rispettivamente svolte, un disastro ambientale, facendo sì che siti della Valle del Sacco destinati ad insediamenti abitativi, agricoli e ad allevamento del bestiame venissero contaminati con agenti inquinanti e nocivi per la salute.

Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo rileva come la norma censurata sia già stata oggetto di declaratoria di illegittimità costituzionale parziale ad opera della sentenza n. 143 del 2014, sia pure con riferimento ad una ipotesi – quella dell’incendio – nella quale il termine prescrizionale della fattispecie colposa risultava più lungo di quello della corrispondente fattispecie dolosa (e non già uguale ad esso). Tale circostanza non consentirebbe di «estendere automaticamente» la pronuncia al caso in esame, ma non impedirebbe di riferire ad esso gli argomenti che la sorreggono, in quanto «di portata generale».

Anche con riferimento al disastro – così come per l’incendio – si è al cospetto di fattispecie delittuose strutturalmente identiche quanto a condotta ed evento, e differenziate solo per l’elemento soggettivo, che conferisce loro, tuttavia, una diversa gravità, chiaramente riflessa nelle rispettive pene edittali: la pena detentiva massima della fattispecie colposa (cinque anni) è inferiore, infatti, alla metà di quella della fattispecie dolosa (dodici anni).

A fronte di un simile scarto di disvalore, espresso dallo stesso legislatore nella commisurazione delle risposte punitive, sarebbe lecito dubitare della ragionevolezza di una norma che stabilisca un termine di prescrizione identico per entrambe le fattispecie, sottoponendo, così, la fattispecie meno grave «ad un trattamento proporzionalmente deteriore rispetto a quella più grave». Tale soluzione normativa non potrebbe essere, in effetti, giustificata con considerazioni legate al grado di allarme sociale prodotto dal reato e alla complessità delle indagini richieste per il suo accertamento, posto che, sotto questi aspetti, le due ipotesi non si differenzierebbero in alcun modo (anzi, sarebbe semmai l’ipotesi dolosa ad avere conseguenze più gravi, quantomeno in termini di allarme sociale).

La questione sarebbe, altresì, rilevante nel giudizio a quo.

Rispetto ad uno degli imputati, la posizione di garanzia che fonda l’addebito di responsabilità colposa è cessata – come emerge dal capo di imputazione – il 31 maggio 2005 e, dunque, prima dell’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 (avvenuta l’8 dicembre 2005). In base alla disciplina anteriore a detta legge, il termine massimo di prescrizione del reato contestato risulterebbe pari a quindici anni (dieci anni quale termine ordinario, aumentato fino alla metà per effetto degli atti di interruzione intervenuti, ai sensi dell’originario art. 160, terzo comma, cod. pen.). La situazione non sarebbe mutata con la legge n. 251 del 2005: in base all’attuale normativa, il termine di prescrizione massimo sarebbe sempre di quindici anni, sebbene diversamente articolato (dodici anni, quale termine di base ai sensi della norma censurata, aumentato fino a un quarto a seguito degli atti interruttivi). Di contro, se la disposizione denunciata fosse dichiarata costituzionalmente illegittima, il termine prescrizionale massimo si ridurrebbe a sette anni e mezzo (sei anni, più l’aumento di un quarto) e tale disciplina sarebbe applicabile anche ai fatti pregressi ai sensi dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, in quanto più favorevole al reo: con la conseguenza che la prescrizione sarebbe già maturata.

Ma la questione risulterebbe rilevante anche in rapporto agli altri tre imputati, rispetto ai quali il reato è indicato nel capo di imputazione come commesso «fino al dicembre 2008», data degli ultimi campionamenti che hanno riscontrato la presenza dell’agente inquinante nelle acque del fiume Sacco. L’esattezza di tale indicazione andrebbe, infatti, verificata alla luce della più recente giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo la quale il disastro ambientale costituisce un reato istantaneo con effetti permanenti, che si consuma nel momento in cui è posta in essere la condotta che determina la prima immissione inquinante nell’ambiente: ciò, sebbene nel caso di specie il reato sia contestato nella forma colposa omissiva, così che lo stesso potrebbe anche avere natura permanente, nella misura in cui l’omissione contestata si protragga fino all’adozione delle necessarie cautele e continui a determinare l’immissione dell’agente nocivo nell’ambiente. Si tratterebbe, peraltro, di un punto quantomeno incerto, onde sarebbe ben possibile che, all’esito dell’istruzione dibattimentale, la data di consumazione del reato venga retrodatata ad un periodo non successivo al maggio 2008: ipotesi nella quale il dimezzamento a sette anni e mezzo del tempo massimo di prescrizione conseguente all’accoglimento della questione farebbe sì che la prescrizione stessa risulti già maturata alla data dell’ordinanza di rimessione (19 novembre 2015), imponendo, quindi, l’immediato proscioglimento degli imputati per avvenuta estinzione del reato. Peraltro, anche qualora risultasse corretta la data di consumazione indicata nel decreto di rinvio a giudizio (dicembre 2008), l’accoglimento della questione influirebbe sullo svolgimento successivo del dibattimento, condizionando le cadenze temporali della complessa istruttoria da svolgere. In tal caso, infatti, il termine prescrizionale di sette anni e mezzo spirerebbe dopo circa sei mesi dalla data dell’ordinanza di rimessione, con la conseguenza che l’attività istruttoria dovrebbe esaurirsi in tale ristretto arco temporale affinché possa giungersi ad una decisione sul merito.

2.2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto, anche con successiva memoria, che la questione sia dichiarata non fondata sulla base di considerazioni analoghe a quelle prospettate in rapporto all’ordinanza r.o. n. 237 del 2015.

2.3.– Si è costituito G. Z, imputato nel giudizio a quo, instando per l’accoglimento della questione.

Ad ulteriore riprova del fatto che la disciplina censurata non costituisca frutto di «meditata e legittima scelta discrezionale, ma travalichi nell’arbitrio», la parte privata rileva che, per effetto della riforma introdotta dalla legge n. 251 del 2005, mentre il termine prescrizionale del reato di disastro colposo è stato aumentato (passando dai precedenti dieci anni agli attuali dodici), quello dell’omologa fattispecie dolosa è stato viceversa ridotto (da quindici a dodici anni).

2.4.– La parte privata ha depositato memoria, con la quale ha contestato la tesi dell’Avvocatura generale dello Stato, secondo cui la norma censurata si spiegherebbe alla luce della particolare complessità dell’attività investigativa necessaria ai fini dell’accertamento dei fatti di reato previsti dall’art. 449 cod. pen.

Secondo la parte privata, la complessità delle indagini non potrebbe essere considerata un elemento indistintamente connaturato ai delitti contro l’incolumità pubblica, giacché, se così fosse, non si comprenderebbe per quale ragione il raddoppio del termine prescrizionale non sia stato esteso anche al delitto di avvelenamento colposo di acque e sostanze alimentari (artt. 439 e 452 cod. pen.): delitto anch’esso contestato agli imputati nel giudizio a quo e già dichiarato estinto per prescrizione.

Ancora più a monte, peraltro, dovrebbe escludersi che la complessità delle indagini rappresenti un parametro idoneo a giustificare la dilatazione del termine di prescrizione di taluni reati. Si tratterebbe, infatti, di parametro eccentrico rispetto al fondamento dell’istituto della prescrizione, che andrebbe ricercato «nella prospettiva teleologica della pena», e segnatamente nella sua funzione di prevenzione generale, connettendosi al progressivo affievolimento, con il decorso del tempo, dell’allarme generato dal reato nella coscienza comune. In questa prospettiva, la correlazione tra il tempo sufficiente a prescrivere e l’astratta gravità del reato, espressa dalla pena edittale, costituirebbe un coerente e necessario precipitato della ratio dell’istituto, salvo che il legislatore, nella sua «meditata discrezionalità», opti per una soluzione estensiva, allorché l’allarme sociale generato da alcuni tipi di reato implichi una «resistenza all’oblio» più che proporzionale all’energia della risposta sanzionatoria. L’ampliamento del termine prescrizionale non potrebbe essere, per converso, impropriamente collegato a un fattore di tipo processuale del tutto estraneo all’anzidetta «prospettiva teleologica», quale, appunto, l’asserita complessità delle indagini: tanto più che l’effetto estintivo conseguente al decorso del termine prescrizionale prescinde dalla instaurazione o meno di un procedimento penale.

3.– Con ordinanza del 22 giugno 2015 (r.o. n. 53 del 2016), il Tribunale ordinario di Torino ha sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, sesto comma, cod. pen., «nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione è raddoppiato per il reato di cui all’art. 449 c.p. in relazione all’art. 434 c.p. (crollo colposo)».

3.1.– Il giudice a quo procede nei confronti di due persone imputate del delitto di cui agli artt. 434 e 449 cod. pen., per aver cagionato con colpa, nelle loro rispettive qualità di direttore dei lavori per la costruzione di un refettorio scolastico e di preposto presso il cantiere dell’impresa edile, il crollo di una parte della copertura dell’edificio.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente rileva che, per effetto della norma censurata, il termine di prescrizione del delitto di crollo colposo risulta identico a quello del delitto di crollo doloso, nel caso in cui l’evento si verifichi (dodici anni).

Un simile assetto violerebbe l’art. 3 Cost. Posto che la prescrizione costituisce un istituto di diritto sostanziale, attinente al trattamento sanzionatorio complessivo degli illeciti penali, contrasterebbe con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza che due fattispecie poste a tutela dello stesso bene giuridico, ma punite con pene sensibilmente diverse a seconda della componente psicologica, vengano trattate esattamente allo stesso modo dal punto di vista della prescrizione.

La declaratoria di illegittimità costituzionale pronunciata dalla sentenza n. 143 del 2014, d’altra parte, non potrebbe essere estesa alla fattispecie in esame in via ermeneutica, in quanto espressamente circoscritta al delitto di incendio colposo e basata su valutazioni non riferibili al crollo colposo.

La questione sarebbe altresì rilevante, giacché, in caso di suo accoglimento, il reato per cui si procede, commesso il 9 novembre 2007, risulterebbe già prescritto.

3.2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata sulla base di argomenti similari a quelli addotti in rapporto all’ordinanza r.o. n. 237 del 2015 e, in particolare, in base alla considerazione che, per comune esperienza, l’accertamento dei fatti riconducibili al paradigma punitivo del crollo colposo richiede lunghe e complesse attività di indagine, che comportano un fisiologico allungamento della durata del processo.

4.– Anche il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Larino, con ordinanza del 21 luglio 2016 (r.o. n. 241 del 2016), dubita della legittimità costituzionale dell’art. 157, sesto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione del reato di «disastro colposo» (art. 449 in riferimento all’art. 434 cod. pen.) è raddoppiato.

4.1.– Il giudice a quo riferisce di essere investito della richiesta di rinvio a giudizio di una persona imputata del delitto di cui agli artt. 434 e 449 cod. pen., per aver provocato colposamente, quale legale rappresentante di una società in nome collettivo incaricata dei lavori di ristrutturazione di uno stabile, il crollo di una costruzione adiacente, effettuando scavi in prossimità di questa senza adottare le cautele necessarie per evitare la compromissione della sua statica.

La questione sarebbe rilevante, in quanto i fatti risalgono al 30 agosto 2007, onde solo il censurato meccanismo del raddoppio impedirebbe di ritenere il reato estinto per prescrizione.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene che la parificazione del termine di prescrizione del crollo colposo a quello della corrispondente ipotesi dolosa, assai più grave, violi i principi di uguaglianza e di ragionevolezza. Ciò, alla luce del principio affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 143 del 2014, con riferimento all’incendio colposo, secondo il quale la discrezionalità legislativa in materia di disciplina dell’istituto della prescrizione, di natura sostanziale, deve essere sempre esercitata nel rispetto del principio di ragionevolezza e, comunque sia, in modo da non determinare disparità di trattamento fra fattispecie omogenee.

4.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.

L’Avvocatura generale dello Stato osserva che la scelta legislativa censurata deve ritenersi giustificata da considerazioni legate all’allarme sociale generato dal delitto di cui si discute e alla complessità delle indagini necessarie ai fini del riconoscimento della colpa.

La circostanza che la fattispecie colposa sia assoggettata ad un trattamento sanzionatorio meno grave di quella dolosa non renderebbe, di per sé, irragionevole la parificazione del termine di prescrizione. La sanzione penale – che ha funzioni retributive, di emenda e di prevenzione – risponde, infatti, ad una ratio diversa da quella dell’istituto della prescrizione, la quale si radica – alla luce delle indicazioni della giurisprudenza costituzionale – nell’«interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venir meno, o notevolmente attenuato […] l’allarme della coscienza comune», nonché nel «"diritto all’oblio” dei cittadini quando il reato non sia così grave da escludere tale tutela».

5.– Con una ulteriore ordinanza di rimessione del 7 novembre 2016 (r.o. n. 103 del 2017), il Tribunale ordinario di Torino ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in relazione all’art. 3 Cost., dell’art. 157, sesto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede il raddoppio del termine di prescrizione del delitto di «crollo colposo».

5.1.– Il giudice a quo premette di essere investito, in sede dibattimentale, del processo nei confronti di varie persone, imputate, tra l’altro, del delitto di cui all’art. 449, in relazione all’art. 434, secondo comma, cod. pen., per avere cagionato, con colpa, il crollo parziale di un edificio, provocando lesioni personali gravi a più soggetti.

Il rimettente rileva come l’istituto della prescrizione abbia carattere sostanziale, implicando una rinuncia dello Stato all’esercizio della potestà punitiva. Il termine di prescrizione costituisce, a sua volta, una componente del trattamento sanzionatorio complessivo del reato, tanto che, per costante giurisprudenza di legittimità, deve tenersi conto di esso ogni qualvolta occorra individuare la disciplina più favorevole al reo. In questa cornice, l’equiparazione dei termini di prescrizione dei delitti di crollo, colposo e doloso, prodotta dalla norma censurata, violerebbe i principi di uguaglianza e di ragionevolezza, omologando fattispecie poste a tutela dello stesso bene giuridico, ma punite in modo sensibilmente diverso in ragione del differente elemento psicologico.

Anche in questo caso, il giudice a quo esclude che sia possibile estendere in via interpretativa al delitto in esame la pronuncia parzialmente ablativa della norma censurata relativa al delitto di incendio colposo (sentenza n. 143 del 2014). Il percorso argomentativo che sorregge tale pronuncia risulterebbe, tuttavia, valevole anche in rapporto al reato in discussione, posto che la censurata equiparazione del termine prescrizionale scardinerebbe, comunque sia, «la scala della complessiva gravità delle due fattispecie criminose», colposa e dolosa.

La questione sarebbe, altresì, rilevante nel giudizio a quo. Il reato per cui si procede è stato infatti commesso, secondo l’ipotesi accusatoria, il 30 marzo 2009: solo in caso di accoglimento della questione esso risulterebbe, pertanto, prescritto.

5.2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata, sulla scorta di rilievi similari a quelli prospettati in rapporto all’ordinanza r.o. n. 53 del 2016.

Considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione (r.o. n. 237 del 2015), il Tribunale ordinario di Velletri (r.o. n. 32 del 2016), il Tribunale ordinario di Torino (r.o. n. 53 del 2016 e n. 103 del 2017) e il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Larino (r.o. n. 241 del 2016) dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 157, sesto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione del delitto di crollo di costruzioni o altro disastro colposo (art. 449, in riferimento all’art. 434 cod. pen.) è raddoppiato. Alcune ordinanze di rimessione riferiscono il dubbio di costituzionalità alla figura del «disastro colposo» (r.o. n. 237 del 2015, n. 32 e n. 241 del 2016), altre a quella del «crollo colposo» (r.o. n. 53 del 2016 e n. 103 del 2017), senza, peraltro, che ai diversi nomina iuris impiegati dai rimettenti appaia corrispondere l’intento di limitare l’auspicata declaratoria di illegittimità costituzionale a una parte soltanto dei fatti repressi dal combinato disposto dei richiamati artt. 449 e 434 cod. pen.

Ad avviso dei giudici a quibus, la norma censurata violerebbe l’art. 3 della Costituzione, per contrasto con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza, giacché, in conseguenza del censurato raddoppio, il termine di prescrizione del delitto in questione risulta uguale a quello della corrispondente fattispecie dolosa (art. 434, secondo comma, cod. pen.), identica sul piano oggettivo, ma di disvalore sensibilmente maggiore in rapporto al diverso coefficiente di partecipazione psicologica del reo, come attesta l’ampio scarto tra le rispettive cornici sanzionatorie edittali.

2.– Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o analoghe relative alla medesima norma, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

3.– Sul piano dell’ammissibilità, va rilevato come tutti i giudici rimettenti abbiano motivato congruamente in ordine alla rilevanza della questione, ponendo in evidenza che – alla luce della data di commissione dei reati per cui si procede e tenendo pure conto dell’aumento massimo conseguente agli atti interruttivi effettuati – il termine di prescrizione dei reati stessi risulterebbe spirato solo ove venisse rimossa la censurata regola del raddoppio.

Ciò vale anche in rapporto all’ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Velletri (r.o. n. 32 del 2016), almeno per quanto concerne uno dei quattro imputati nel giudizio a quo (quello la cui posizione di garanzia, rilevante ai fini dell’addebito di responsabilità colposa, risulterebbe cessata il 31 maggio 2005 e che – secondo quanto rilevato dal rimettente – beneficerebbe dell’accoglimento della questione in quanto atto a rendere la disciplina introdotta dalla legge n. 251 del 2005 più favorevole di quella vigente alla data del fatto). Tanto basta a rendere ammissibile la questione sollevata, a prescindere da ogni considerazione riguardo alla sua effettiva rilevanza rispetto agli altri imputati, che il rimettente ricollega invece ad un evento puramente ipotetico (quale l’eventuale «retrodatazione» della data di commissione del reato all’esito dell’istruzione dibattimentale), o a generici effetti di condizionamento delle future cadenze temporali di tale istruzione.

4.– Nel merito, le questioni non sono fondate.

Giova ricordare come, nel disegno originario del codice penale, il tempo di prescrizione dei reati fosse determinato tramite la loro ripartizione in sei "fasce di gravità” decrescente, in base alla pena edittale massima, a ciascuna delle quali corrispondeva un termine prescrizionale via via più ridotto.

Nel riformare l’istituto della prescrizione, la legge n. 251 del 2005 ha profondamente innovato tale assetto, sostituendo al criterio "per fasce” una regola unitaria. In base ad essa, il tempo necessario a prescrivere è pari al massimo della pena edittale dei singoli reati, salva la previsione di una soglia minima, intesa ad evitare una troppo rapida prescrizione dei reati meno gravemente puniti, pari a sei anni per i delitti e a quattro anni per le contravvenzioni (art. 157, primo comma, cod. pen., come novellato).

Il legislatore ha ritenuto, tuttavia, di dover introdurre un correttivo agli effetti prodotti dalla modifica (alla quale è conseguita una sensibile e generalizzata contrazione dei termini prescrizionali relativi ai reati di media gravità). Ha stabilito, cioè, che per alcune figure criminose – ritenute, secondo quanto emerge dai lavori parlamentari, di particolare allarme sociale e tali da richiedere complesse indagini probatorie – il termine di prescrizione risultante dall’applicazione della regola generale dianzi ricordata (oltre che di quelle enunciate dai successivi commi dello stesso art. 157 cod. pen.) è raddoppiato (nuovo art. 157, sesto comma, cod. pen., norma oggi censurata).

Nell’elenco dei reati coinvolti nel regime del raddoppio – elenco successivamente ampliato da plurime novelle legislative – figurano, in prima fila, i delitti colposi di danno contro la pubblica incolumità previsti dall’art. 449 cod. pen. (cosiddetti disastri colposi). Tale disposizione punisce, al primo comma, con la reclusione da uno a cinque anni «chiunque, al di fuori delle ipotesi previste nel secondo comma dell’articolo 423-bis, cagiona per colpa un incendio o un altro disastro preveduto dal capo primo di questo titolo» (ossia dal capo I del titolo VI del libro secondo del codice penale, relativo ai «delitti di comune pericolo mediante violenza»). La previsione punitiva viene, quindi, a coniugarsi alle diverse norme incriminatrici presenti nella partizione normativa richiamata, rendendo punibile la forma colposa dei delitti da esse contemplati.

In questo modo, si è venuta, peraltro, a determinare una anomalia: e, cioè, che per taluni fra i delitti in questione il termine di prescrizione della fattispecie colposa è divenuto più lungo di quello della corrispondente ipotesi dolosa (assolutamente identica sul piano della condotta e dell’evento, stante la tecnica di descrizione della fattispecie mediante mero rinvio, utilizzata dal citato art. 449 cod. pen.).

Il fenomeno si manifestava in modo particolarmente vistoso con riguardo al delitto di incendio (previsto, quanto all’ipotesi dolosa, dall’art. 423 cod. pen. e da questo punito con la reclusione da tre a sette anni). Se commesso con dolo, tale delitto si prescriveva, infatti, in sette anni (tempo corrispondente al massimo della pena edittale, ai sensi dell’art. 157, primo comma, cod. pen.); se commesso con colpa, in un tempo largamente superiore, e cioè in dodici anni: il termine minimo di prescrizione dei delitti (sei anni) – operante nella specie, trattandosi di reato punito con pena detentiva massima inferiore a tale soglia (cinque anni, ai sensi dell’art. 449, primo comma, cod. pen.) – risultava, infatti, raddoppiato in forza della norma censurata.

5.– Con la sentenza n. 143 del 2014 – richiamata da tutti i rimettenti a sostegno delle loro censure – questa Corte ha ritenuto l’anomalia ora indicata contrastante con l’art. 3 Cost., dichiarando, di conseguenza, costituzionalmente illegittimo l’art. 157, sesto comma, cod. pen., nella parte in cui prevedeva il raddoppio del termine di prescrizione del delitto di incendio colposo (art. 449, in riferimento all’art. 423 cod. pen.).

Al riguardo, si è rilevato che la prescrizione, pur potendo assumere una valenza anche processuale, in rapporto alla garanzia della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), costituisce, nel vigente ordinamento, un istituto di natura sostanziale (ex plurimis, sentenze n. 324 del 2008 e n. 393 del 2006, nonché, più di recente, ordinanza n. 24 del 2017): istituto la cui ratio «si collega preminentemente, da un lato, all’"interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venir meno, o notevolmente attenuato, […] l’allarme della coscienza comune” (sentenze n. 393 del 2006 e n. 202 del 1971, ordinanza n. 337 del 1999); dall’altro, "al ‘diritto all’oblio’ dei cittadini, quando il reato non sia così grave da escludere tale tutela” (sentenza n. 23 del 2013)» (sentenza n. 143 del 2014). Tali finalità si riflettono nella tradizionale correlazione del tempo necessario a prescrivere al livello della pena edittale, indicativo della gravità astratta del reato e del suo disvalore nella coscienza sociale: correlazione divenuta, peraltro, ancor più stretta e diretta a seguito della legge n. 251 del 2005.

La regola generale di computo congegnata in questa chiave non è, di certo, inderogabile da parte del legislatore, «non potendo in essa scorgersi un "momento necessario di attuazione – o di salvaguardia – dei principi costituzionali” (sentenza n. 455 del 1998, ordinanza n. 288 del 1999)». Soluzioni ampliative dei termini di prescrizione ordinari possono essere giustificate, in specie, «sia dal particolare allarme sociale generato da alcuni tipi di reato, il quale comporti una "resistenza all’oblio” nella coscienza comune più che proporzionale all’energia della risposta sanzionatoria; sia dalla speciale complessità delle indagini richieste per il loro accertamento e dalla laboriosità della verifica dell’ipotesi accusatoria in sede processuale, cui corrisponde un fisiologico allungamento dei tempi necessari per pervenire alla sentenza definitiva» (sentenza n. 143 del 2014).

La discrezionalità legislativa in materia deve essere esercitata, tuttavia, nel rispetto del principio di ragionevolezza e in modo tale da non determinare ingiustificabili sperequazioni di trattamento tra fattispecie omogenee, come invece era avvenuto nel caso dell’incendio. Con riguardo a questo, a fronte di fattispecie identiche sul piano oggettivo, il legislatore aveva infatti ribaltato la «scala di gravità» espressa dalle comminatorie di pena, in coerenza con il rapporto sistematico che intercorre tra il dolo e la colpa, prevedendo per l’ipotesi meno grave (quella colposa) un termine di prescrizione quasi doppio di quello valevole per l’omologa ipotesi dolosa.

Un simile regime non poteva essere giustificato né con considerazioni legate all’allarme sociale, essendo palesemente contrario a logica che un incendio causato per colpa – ossia per imprudenza, imperizia o inosservanza di regole cautelari – "resista all’oblio”, nella coscienza sociale, molto più a lungo del medesimo incendio causato intenzionalmente; né con ragioni di ordine probatorio, essendo parimente insostenibile che provocare un incendio per colpa, anziché con dolo, innalzi verticalmente, nella generalità dei casi, il tasso di complessità della indagini. L’esigenza di avvalersi di periti – evocata nel corso dei lavori parlamentari relativi alla legge n. 251 del 2005 – è infatti comune alle due ipotesi, e se pure, nel caso dell’incendio colposo, la perizia può risultare necessaria anche ai fini di individuare la regola cautelare violata, nel caso dell’incendio doloso occorre fare i conti con le maggiori difficoltà che usualmente incontra l’identificazione dei soggetti responsabili.

6.– Ad avviso degli odierni rimettenti, analoga declaratoria di illegittimità costituzionale si imporrebbe anche in rapporto al delitto di crollo di costruzioni o altro disastro colposo, risultante dal combinato disposto degli artt. 449 e 434 cod. pen.

L’art. 434 cod. pen., al primo comma, punisce con la reclusione da uno a cinque anni «chiunque, fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro […], se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità» (fattispecie di pericolo). Una pena maggiore – reclusione da tre a dodici anni – è prevista dal secondo comma «se il crollo o il disastro avviene» (fattispecie di danno).

  La fattispecie di pericolo prevista dal primo comma dell’art. 434 cod. pen. non trova, peraltro, un suo corrispondente colposo. L’art. 449, primo comma, cod. pen. esige, infatti, ai fini della punibilità per colpa dei fatti da esso richiamati, che il disastro si verifichi, evocando, perciò, esclusivamente la fattispecie di danno prevista dal secondo comma dell’art. 434 cod. pen.

Ciò posto, i giudici a quibus si mostrano pienamente consapevoli del fatto che il caso oggi in esame presenta un evidente tratto differenziale rispetto a quello scrutinato dalla sentenza n. 143 del 2014. Nella specie, infatti, il meccanismo del raddoppio rende il termine di prescrizione della fattispecie colposa – non già (nettamente) più lungo di quello della fattispecie dolosa, come nel caso dell’incendio – ma esattamente uguale ad esso.

Il reato di crollo o altro disastro doloso con verificazione dell’evento si prescrive, infatti, in base alla regola generale dell’art. 157, primo comma, cod. pen., in dodici anni (massimo edittale della pena comminata dall’art. 434, secondo comma, cod. pen.). Anche volendo ritenere – in conformità all’opinione prevalente, peraltro recentemente disattesa dalla giurisprudenza di legittimità  che l’ipotesi prevista dal secondo comma dell’art. 434 cod. pen. abbia natura di circostanza aggravante, e non di fattispecie autonoma di reato, essa entra, comunque sia, nel computo del termine prescrizionale ai sensi dell’art. 157, secondo comma, cod. pen., trattandosi di aggravante ad effetto speciale.

Il medesimo tempo di dodici anni occorre anche per la prescrizione del delitto di crollo o altro disastro colposo. Il termine ordinario di prescrizione, pari a sei anni (termine minimo di prescrizione dei delitti, applicabile in quanto la pena massima prevista dall’art. 449 cod. pen. è al di sotto di tale soglia), è infatti raddoppiato dal sesto comma dell’art. 157 cod. pen.

Secondo i giudici a quibus, l’elemento differenziale ora indicato non varrebbe a mutare la conclusione. Sarebbe, infatti, irragionevole e lesivo del principio di uguaglianza che due fatti identici sul piano oggettivo, ma di diversa gravità in relazione all’atteggiamento psicologico del loro autore – e per questo puniti dallo stesso legislatore con pene detentive nettamente divaricate – siano trattati poi esattamente allo stesso modo con riguardo ai tempi di prescrizione.

7.– La tesi non può essere condivisa.

Nella sentenza n. 143 del 2014 questa Corte non ha affermato, né in alcun modo adombrato, che vi sia una inderogabile esigenza costituzionale di scaglionare i termini prescrizionali in senso inverso rispetto a quanto la legge n. 251 del 2005 aveva fatto con riguardo al delitto di incendio: nel senso, cioè, che occorra stabilire, senza possibilità di eccezioni, per l’ipotesi colposa un termine diverso e più breve di quello valevole per la versione dolosa del medesimo reato.

Al riguardo, occorre considerare come l’assoggettamento delle due forme di realizzazione dello stesso delitto – dolosa e colposa – ad un eguale termine di prescrizione non rappresenti affatto una anomalia introdotta per la prima volta dalla legge n. 251 del 2005. Al contrario, il fenomeno era già ampiamente noto al sistema anteriore. L’originario criterio di determinazione del termine di prescrizione per "fasce di gravità” dei reati comportava, infatti, che quante volte le pene edittali massime del delitto doloso e del suo corrispondente colposo – benché diversificate – ricadessero entrambe nell’ambito della medesima "fascia”, il tempo necessario a prescrivere risultava identico nei due casi. Come si ricorda nella stessa sentenza n. 143 del 2014, ciò avveniva anche e proprio nel caso dell’incendio. In quanto puniti con pene massime comprese tra i cinque e i dieci anni di reclusione – cinque anni l’incendio colposo, sette il doloso – corrispondenti alla "fascia” di cui al numero 3) dell’originario art. 157, primo comma, cod. pen., ambedue i delitti si prescrivevano, prima della legge n. 251 del 2005, in dieci anni.

Peraltro, anche dopo l’abbandono del criterio "per fasce” da parte della legge n. 251 del 2005, permane nell’ordinamento – indipendentemente dal censurato meccanismo del raddoppio – un ragguardevole numero di casi di equiparazione. Ciò avviene segnatamente per effetto della soglia dei sei anni, quale termine minimo di prescrizione dei delitti (art. 157, primo comma, cod. pen.). Figure delittuose quali – tanto per addurre qualche esempio – la rivelazione di segreti d’ufficio (art. 326, primo e secondo comma, cod. pen.), l’inadempimento di contratti di pubbliche forniture (art. 355, primo e terzo comma, cod. pen.) o le lesioni personali semplici (artt. 582 e 590 cod. pen.), essendo punite con pene massime sensibilmente differenziate, ma, comunque sia, non superiori a sei anni tanto se realizzate con dolo quanto se commesse con colpa, si prescrivono in entrambi i casi nello stesso termine (sei anni appunto).

Ed è particolarmente significativo che il fenomeno si riscontri anche nello stesso ambito dei delitti contro la pubblica incolumità, tra i quali si colloca la figura criminosa che al presente interessa. Ad esempio, il delitto di omissione colposa di cautele contro gli infortuni sul lavoro (art. 451 cod. pen.) si prescrive in sei anni, allo stesso modo della corrispondente fattispecie dolosa (art. 437 cod. pen.), e parimente un sessennio è richiesto per la prescrizione del delitto di «adulterazione o contraffazione di altre cose in danno della salute pubblica», sia esso doloso (art. 441 cod. pen.) o colposo (art. 452, secondo comma, cod. pen.).

8.– Ciò posto, al fine di ritenere che il fenomeno considerato confligga con l’art. 3 Cost. non giova richiamare la natura sostanziale dell’istituto della prescrizione, in uno all’esigenza di diversificare il trattamento di situazioni obiettivamente dissimili. A differenziare la fattispecie dolosa da quella colposa, assicurando la proporzionalità del trattamento sanzionatorio al disvalore del fatto, provvede la pena. Non è, per converso, imprescindibile che alla diversificazione delle risposte punitive – pure prefigurata dal legislatore – si aggiunga, sempre e comunque sia, quella dei termini di prescrizione. Come nota anche l’Avvocatura generale dello Stato, la natura sostanziale dell’istituto della prescrizione – in quanto implicante una rinuncia dello Stato alla pretesa punitiva – non vale certamente a cancellare l’eterogeneità della sua funzione rispetto a quella della pena.

Al legislatore non è, in effetti, precluso di ritenere, nella sua discrezionalità, che in rapporto a determinati delitti colposi la "resistenza all’oblio” nella coscienza sociale e la complessità dell’accertamento dei fatti siano omologabili a quelle della corrispondente ipotesi dolosa, giustificando, con ciò, la sottoposizione di entrambi ad un identico termine prescrizionale. E tale apprezzamento può legittimamente esprimersi anche attraverso la introduzione di deroghe alla disciplina generale.

Al riguardo, non può non ribadirsi quanto già affermato nella sentenza n. 143 del 2014: e, cioè, che simili soluzioni derogatorie possono essere giustificate da entrambi gli elementi sopra indicati – livello dell’allarme sociale e laboriosità delle attività accertative dell’illecito – e non già soltanto dal primo di essi, come invece sostiene la parte privata costituita nel giudizio promosso dal Tribunale ordinario di Velletri, facendo leva sull’asserita eccentricità di un fattore di tipo processuale, quale la complessità delle indagini, rispetto al fondamento dell’istituto della prescrizione. È ben vero che, come rileva la parte privata, la prescrizione decorre anche se il procedimento penale non viene instaurato. Ciò nondimeno, è ragionevole che il legislatore si faccia carico dell’eventualità che il termine di prescrizione risultante dall’applicazione delle regole ordinarie non permetta, anche quando il procedimento penale prenda tempestivamente avvio, di pervenire alla pronuncia definitiva prima dell’estinzione del reato.

9.– Il discorso vale in modo particolare proprio con riguardo al delitto cui si riferisce l’odierno scrutinio.

È noto, infatti, come, prima della recente introduzione dei nuovi delitti in materia di ambiente, la giurisprudenza – valorizzando l’ampia comprensività del concetto di «altro disastro» (cosiddetto disastro innominato), cui fa riferimento l’art. 434 cod. pen. – abbia ripetutamente ricondotto a tale paradigma punitivo, anche e soprattutto nell’ipotesi colposa delineata dall’art. 449 cod. pen., fatti di cosiddetto disastro ambientale. Proprio fatti di tal genere formano, del resto, oggetto di due degli odierni giudizi a quibus. Si tratta di una soluzione interpretativa che la legge 22 maggio 2015, n. 68 (Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente) ha inteso convalidare e preservare, inserendo nella formula descrittiva della nuova fattispecie tipica di disastro ambientale delineata dall’art. 452-quater cod. pen. una clausola volta espressamente a far salvi «i casi previsti dall’articolo 434».

È dato di comune esperienza, altresì, come si sia al cospetto di vicende che –sebbene risultino ascrivibili a colpa – generano nell’attuale momento storico un allarme sociale particolarmente intenso e i cui effetti si manifestano spesso a notevole distanza di tempo, richiedendo nella generalità dei casi accertamenti complessi tanto nella fase delle indagini quanto in quella processuale (anche per il numero dei soggetti usualmente coinvolti).

In quest’ottica, il legislatore della legge n. 251 del 2005 ha inteso quindi evitare che, per effetto della nuova regola di determinazione del tempo necessario a prescrivere, si determinasse un drastico abbattimento del termine prescrizionale della fattispecie colposa in questione (il quale sarebbe rimasto, in pratica, quasi dimezzato, passando da dieci a sei anni): esito che avrebbe impedito, in una larga percentuale di casi, di definire il processo prima dell’estinzione del reato.

Tale preoccupazione si è, d’altro canto, nel frangente tradotta nella previsione di un regime che resta entro il confine del legittimo esercizio della discrezionalità legislativa in materia, proprio perché implica la semplice equiparazione di detto termine prescrizionale a quello della fattispecie dolosa, e non già – come per l’incendio – lo "scavalcamento” di quest’ultimo (soluzione costituzionalmente ingiustificabile, per le ragioni indicate nella sentenza n. 143 del 2014).

La circostanza – denunciata anch’essa dalla parte privata costituita nel giudizio promosso dal Tribunale ordinario di Velletri – che la legge n. 251 del 2005 abbia, per un verso, aumentato il termine prescrizionale del disastro innominato colposo, e per l’altro ridotto quello del disastro doloso (e ciò diversamente da quanto è avvenuto con la successiva legge n. 68 del 2015, che ha assoggettato al raddoppio tanto l’ipotesi dolosa, quanto quella colposa del neointrodotto delitto di disastro ambientale), può essere eventualmente motivo di critica sul piano politico-criminale, ma non vale, di per sé, a rendere costituzionalmente illegittima la soluzione adottata. Mentre il fatto – dedotto dalla stessa parte privata – che il legislatore non abbia avvertito l’esigenza di coinvolgere nel regime del raddoppio anche altri delitti colposi, distinti da quello di cui si discute, quali i delitti contro la salute pubblica (art. 452 cod. pen.), resta nell’ambito degli apprezzamenti discrezionali, insuscettibili di sindacato da parte di questa Corte.

10.– Le questioni vanno dichiarate, pertanto, non fondate.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 157, sesto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, dal Tribunale ordinario di Velletri, dal Tribunale ordinario di Torino e dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Larino con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 novembre 2017.

F.to:

Paolo GROSSI, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 13 dicembre 2017.