ANNO 2017
Commento alla decisione di
Francesco Lazzeri
per g.c. di Diritto Penale Contemporaneo
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Paolo GROSSI Presidente
- Giorgio LATTANZI Giudice
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale dell’art. 157, sesto comma, del codice penale, promossi dalla
Corte di cassazione con ordinanza del 29 aprile 2015, dal Tribunale ordinario
di Velletri con ordinanza del 19 novembre 2015, dal Tribunale ordinario di
Torino con ordinanza del 22 giugno 2015, dal Giudice dell’udienza preliminare
del Tribunale ordinario di Larino con ordinanza del 21 luglio 2016 e dal
Tribunale ordinario di Torino con ordinanza del 7 novembre 2016, iscritte
rispettivamente al n. 237
del registro ordinanze 2015, ai nn. 32, 53 e 241
del registro ordinanze 2016 e al n. 103
del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2015, nn. 9, 12 e 48, prima
serie speciale, dell’anno 2016 e n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visti gli atti di costituzione di G.
R. e di G. Z., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 21 novembre
2017 e nella camera di consiglio del 22 novembre 2017 il Giudice relatore
Franco Modugno;
uditi gli avvocati Fulvio Simoni per G. R., Tullio Padovani per G. Z. e l’avvocato
dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto
in fatto
1.– Con ordinanza del 29
aprile 2015 (r.o. n. 237 del 2015), la Corte di
cassazione, quarta sezione penale, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della
Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 157, sesto
comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 6 della legge 5 dicembre
2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354,
in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione
delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede che il
termine di prescrizione del reato di «disastro colposo», di cui all’art. 449,
in relazione all’art. 434 cod. pen., è raddoppiato.
1.1.– La Corte rimettente riferisce di essere
investita del ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale ordinario di Sassari avverso la sentenza del Giudice per le indagini
preliminari del medesimo Tribunale del 6 marzo 2014, che aveva dichiarato non
doversi procedere nei confronti degli imputati per essere i reati loro
contestati estinti per prescrizione.
Secondo il ricorrente, mentre
per alcuni reati la decisione sarebbe corretta, per il delitto di cui agli
artt. 434 e 449 cod. pen., indicato nel capo h) dell’imputazione, il giudice avrebbe
errato nel ritenere non applicabile la disposizione concernente il raddoppio
dei termini di prescrizione, di cui all’art. 157, sesto comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 6 della legge n. 251 del
2005. Tale legge è entrata, infatti, in vigore l’8 dicembre 2005, e non nel
2008, come ritenuto nella sentenza impugnata.
Il ricorso – ad avviso della
Corte rimettente – sarebbe fondato, essendo, in effetti, la legge n. 251 del
2005 già vigente alla data di commissione del delitto in questione, indicato
nel capo di imputazione come realizzato «fino al maggio 2006».
La novella del 2005 ha
profondamente modificato la disciplina della prescrizione, stabilendo che essa
estingua il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena
edittale stabilita dalla legge e, comunque sia, un tempo non inferiore a sei
anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione,
ancorché puniti con la sola pena pecuniaria (art. 157, primo comma, cod. pen.,
come novellato). In deroga a tale previsione, tuttavia, il sesto comma dello
stesso art. 157 cod. pen. stabilisce
che, per alcuni reati, il termine di prescrizione risultante dall’applicazione
delle regole ordinarie è raddoppiato.
Tra i reati coinvolti nel
regime del raddoppio figurano anche quelli previsti dall’art. 449 cod. pen., che
al primo comma punisce con la reclusione da uno a cinque anni chiunque «cagiona
per colpa un incendio o un altro disastro preveduto dal capo primo di questo
titolo». Di conseguenza, i reati in parola – che in base alla regola generale
dell’art. 157, primo comma, cod. pen. si prescriverebbero in sei anni – risultano assoggettati a
un termine prescrizionale di anni dodici, aumentabile di un quarto, ai sensi
dell’art. 161, secondo comma, cod. pen., nel caso di
intervento di atti interruttivi.
La sentenza impugnata dovrebbe
essere, di conseguenza, annullata, limitatamente alla statuizione relativa al
reato in questione.
La Corte rimettente dubita,
tuttavia, della legittimità costituzionale dell’art. 157, sesto comma, cod. pen.,
nella parte in cui prevede il raddoppio del termine prescrizionale del delitto
di «disastro colposo», di cui al combinato disposto degli artt. 449 e 434 cod. pen.
La questione sarebbe
rilevante, giacché, in caso di suo accoglimento, il reato per cui si procede
risulterebbe già estinto per prescrizione prima della sentenza impugnata.
Quanto alla non manifesta
infondatezza, il giudice a quo
osserva che, in base alla regola generale posta dall’art. 157, primo comma,
cod. pen.,
il reato di disastro doloso previsto dall’art. 434, secondo comma, cod. pen., in quanto punito con la pena della reclusione da tre
a dodici anni, si prescrive in dodici anni. È questa la fattispecie dolosa
corrispondente a quella colposa oggetto del giudizio a quo, nel quale si contesta agli imputati di aver cagionato per
colpa «un disastro ambientale, consistito nella immissione in ambiente delle
sostanze pericolose indicate nel capo di imputazione». Diversamente che per
l’ipotesi dolosa – nella quale il reato resta integrato, ai sensi del primo
comma dell’art. 434 cod. pen., nel momento in cui sorge un pericolo per la pubblica
incolumità, mentre la verificazione del disastro vale a configurare la
fattispecie aggravata prevista dal secondo comma dello stesso articolo – per la
configurabilità del delitto colposo è necessario, ai sensi dell’art. 449 cod. pen., che l’evento si verifichi.
Il termine prescrizionale
relativo al disastro colposo risulta, quindi, uguale a quello previsto per il
disastro doloso, nel caso in cui l’evento si sia verificato.
Tale assetto risulterebbe di
dubbia compatibilità con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza sanciti
dall’art. 3 Cost.
La Corte costituzionale, con
la sentenza n.
143 del 2014, ha già dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 157,
sesto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede il raddoppio del termine di
prescrizione del delitto di incendio colposo (art. 449, in riferimento all’art.
423 cod. pen.). Con riguardo a tale ipotesi
criminosa, la norma censurata determinava, infatti, una anomalia di ordine
sistematico, rendendo il termine prescrizionale della fattispecie colposa
addirittura superiore a quello della corrispondente figura dolosa, identica sul
piano oggettivo.
Secondo la Corte rimettente,
anche rispetto al delitto in esame la norma denunciata produrrebbe effetti
collidenti con i principi costituzionali evocati. Risulterebbe, infatti,
«scardinata la scala della complessiva gravità delle due fattispecie criminose,
atteso che l’ipotesi di disastro colposo (ex
artt. 449 e 434 cod. pen.), meno grave, punita [...]
con la pena edittale da uno a cinque anni, viene a prescriversi nel medesimo
tempo occorrente per la più grave ipotesi dolosa, di cui all’art. 434, comma 2,
cod. pen.,
punita con la reclusione da tre a dodici anni».
Non sarebbe possibile, d’altra
parte, estendere in via interpretativa il «portato demolitorio» della sentenza n. 143 del
2014 ad altri disastri colposi, posto che detta pronuncia si basa
specificamente sull’analisi comparativa delle cornici edittali dei reati di
incendio, colposo e doloso.
1.2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo, anche con successiva memoria, che la questione sia dichiarata non
fondata.
Secondo l’Avvocatura generale
dello Stato, l’equiparazione dei termini di prescrizione del delitto di
disastro, tanto colposo quanto doloso, lungi dal determinare una irragionevole
sperequazione di trattamento, quale quella stigmatizzata dalla sentenza n. 143 del
2014 – concernente la diversa fattispecie dell’incendio colposo, sottoposta
ad un termine di prescrizione quasi doppio di quello valevole per l’incendio
doloso – sarebbe giustificata dal crescente allarme sociale generato dai
delitti colposi di danno ambientale, oltre che da ragioni di ordine probatorio,
collegate alla complessità delle indagini e degli accertamenti tecnici
necessari ai fini del riconoscimento della colpa in tutti i suoi elementi
costitutivi.
Si sarebbe, quindi, al
cospetto di una scelta fondata su valutazioni discrezionali del legislatore,
non censurabili in sede di sindacato di legittimità costituzionale.
1.3.– Si è costituito G. R., imputato nel
giudizio a quo, il quale ha chiesto l’accoglimento della
questione.
La parte privata sottolinea
l’irragionevolezza dell’equiparazione dei termini di prescrizione di
fattispecie criminose che, se pure identiche quanto a condotta ed evento,
risultano connotate da un disvalore marcatamente differenziato in ragione della
diversa componente psicologica, come attesta il profondo divario tra le
rispettive pene edittali. Posto che, alla luce della giurisprudenza
costituzionale, la prescrizione costituisce un istituto di diritto sostanziale,
attinente al trattamento sanzionatorio complessivo degli illeciti penali,
l’allineamento dei termini prescrizionali dei delitti in discorso infrangerebbe
il basilare principio che impone di reprimere più severamente i fatti commessi
con dolo rispetto a quelli realizzati per semplice colpa.
Al riguardo, sarebbe
significativo il raffronto con la disciplina antecedente alla legge n. 251 del
2005, che individuava i termini di prescrizione correlandoli a "fasce di reati”
di gravità decrescente. In tale cornice, alla maggiore gravità del disastro
doloso di cui all’art. 434, secondo comma, cod. pen. faceva correttamente riscontro, ai sensi del previgente art.
157, primo comma, numero 2), cod. pen., un termine di
prescrizione di quindici anni, largamente superiore a quello di dieci anni
applicabile alla corrispondente fattispecie colposa in forza del numero 3)
dello stesso articolo.
Analogamente a quanto ritenuto
dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 143 del
2014 riguardo all’incendio, la scelta legislativa censurata non potrebbe
trovare giustificazione né in considerazioni legate al grado di allarme
sociale, essendo insostenibile che un disastro causato per colpa "resista
all’oblio”, nella coscienza sociale, tanto quanto lo stesso disastro causato
intenzionalmente; né nella complessità degli oneri probatori che gravano
sull’accusa, la quale risulterebbe maggiore in rapporto alla fattispecie
dolosa, non solo sotto il profilo dell’individuazione dei soggetti
responsabili, ma anche sotto quello della dimostrazione dell’elemento
psicologico.
1.4.– La parte privata ha depositato memoria,
nella quale ha ulteriormente rilevato come la disciplina della prescrizione sia
da sempre ispirata al criterio della correlazione tra disvalore del reato e
tempo necessario a prescrivere. Detta disciplina rappresenterebbe, dunque, una
proiezione sul terreno della punibilità del principio – di rango costituzionale
– di necessaria proporzionalità fra la gravità del reato e l’entità della
sanzione: proporzionalità che sarebbe stata «scardinata» dalla legge n. 251 del
2005 in rapporto al delitto in esame, obliterando il dato elementare per cui il
dolo rappresenta la forma più grave di colpevolezza.
2.– Con ordinanza del 19 novembre 2015 (r.o. n. 32 del 2016), il Tribunale ordinario di Velletri ha
sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale
dell’art. 157, sesto comma, cod. pen., «nella parte
in cui stabilisce il raddoppio dei termini di prescrizione per il reato di
disastro colposo ex art. 449 c.p. in
relazione alla fattispecie dolosa di cui all’art. 434, comma 2, c.p.».
2.1.– Il rimettente riferisce
di essere investito del processo penale nei confronti di quattro persone,
imputate del delitto di cui agli artt. 449, primo comma, e 434 cod. pen., per avere cagionato con colpa, tramite condotte
omissive contrastanti con gli obblighi di garanzia connessi alle funzioni da
esse rispettivamente svolte, un disastro ambientale, facendo sì che siti della
Valle del Sacco destinati ad insediamenti abitativi, agricoli e ad allevamento
del bestiame venissero contaminati con agenti inquinanti e nocivi per la
salute.
Quanto alla non manifesta
infondatezza della questione, il giudice a
quo rileva come la norma censurata sia già stata oggetto di declaratoria di
illegittimità costituzionale parziale ad opera della sentenza n. 143 del
2014, sia pure con riferimento ad una ipotesi – quella dell’incendio –
nella quale il termine prescrizionale della fattispecie colposa risultava più
lungo di quello della corrispondente fattispecie dolosa (e non già uguale ad
esso). Tale circostanza non consentirebbe di «estendere automaticamente» la
pronuncia al caso in esame, ma non impedirebbe di riferire ad esso gli
argomenti che la sorreggono, in quanto «di portata generale».
Anche con riferimento al
disastro – così come per l’incendio – si è al cospetto di fattispecie
delittuose strutturalmente identiche quanto a condotta ed evento, e
differenziate solo per l’elemento soggettivo, che conferisce loro, tuttavia,
una diversa gravità, chiaramente riflessa nelle rispettive pene edittali: la
pena detentiva massima della fattispecie colposa (cinque anni) è inferiore,
infatti, alla metà di quella della fattispecie dolosa (dodici anni).
A fronte di un simile scarto
di disvalore, espresso dallo stesso legislatore nella commisurazione delle
risposte punitive, sarebbe lecito dubitare della ragionevolezza di una norma
che stabilisca un termine di prescrizione identico per entrambe le fattispecie,
sottoponendo, così, la fattispecie meno grave «ad un trattamento
proporzionalmente deteriore rispetto a quella più grave». Tale soluzione
normativa non potrebbe essere, in effetti, giustificata con considerazioni
legate al grado di allarme sociale prodotto dal reato e alla complessità delle
indagini richieste per il suo accertamento, posto che, sotto questi aspetti, le
due ipotesi non si differenzierebbero in alcun modo (anzi, sarebbe semmai
l’ipotesi dolosa ad avere conseguenze più gravi, quantomeno in termini di
allarme sociale).
La questione sarebbe, altresì,
rilevante nel giudizio a quo.
Rispetto ad uno degli
imputati, la posizione di garanzia che fonda l’addebito di responsabilità
colposa è cessata – come emerge dal capo di imputazione – il 31 maggio 2005 e,
dunque, prima dell’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 (avvenuta l’8
dicembre 2005). In base alla disciplina anteriore a detta legge, il termine
massimo di prescrizione del reato contestato risulterebbe pari a quindici anni
(dieci anni quale termine ordinario, aumentato fino alla metà per effetto degli
atti di interruzione intervenuti, ai sensi dell’originario art. 160, terzo
comma, cod. pen.). La situazione non sarebbe mutata
con la legge n. 251 del 2005: in base all’attuale normativa, il termine di
prescrizione massimo sarebbe sempre di quindici anni, sebbene diversamente
articolato (dodici anni, quale termine di base ai sensi della norma censurata,
aumentato fino a un quarto a seguito degli atti interruttivi). Di contro, se la
disposizione denunciata fosse dichiarata costituzionalmente illegittima, il
termine prescrizionale massimo si ridurrebbe a sette anni e mezzo (sei anni,
più l’aumento di un quarto) e tale disciplina sarebbe applicabile anche ai
fatti pregressi ai sensi dell’art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, in
quanto più favorevole al reo: con la conseguenza che la prescrizione sarebbe
già maturata.
Ma la questione risulterebbe
rilevante anche in rapporto agli altri tre imputati, rispetto ai quali il reato
è indicato nel capo di imputazione come commesso «fino al dicembre 2008», data
degli ultimi campionamenti che hanno riscontrato la presenza dell’agente
inquinante nelle acque del fiume Sacco. L’esattezza di tale indicazione
andrebbe, infatti, verificata alla luce della più recente giurisprudenza della
Corte di cassazione, secondo la quale il disastro ambientale costituisce un
reato istantaneo con effetti permanenti, che si consuma nel momento in cui è
posta in essere la condotta che determina la prima immissione inquinante
nell’ambiente: ciò, sebbene nel caso di specie il reato sia contestato nella
forma colposa omissiva, così che lo stesso potrebbe anche avere natura
permanente, nella misura in cui l’omissione contestata si protragga fino
all’adozione delle necessarie cautele e continui a determinare l’immissione dell’agente
nocivo nell’ambiente. Si tratterebbe, peraltro, di un punto quantomeno incerto,
onde sarebbe ben possibile che, all’esito dell’istruzione dibattimentale, la
data di consumazione del reato venga retrodatata ad un periodo non successivo
al maggio 2008: ipotesi nella quale il dimezzamento a sette anni e mezzo del
tempo massimo di prescrizione conseguente all’accoglimento della questione
farebbe sì che la prescrizione stessa risulti già maturata alla data
dell’ordinanza di rimessione (19 novembre 2015), imponendo, quindi, l’immediato
proscioglimento degli imputati per avvenuta estinzione del reato. Peraltro,
anche qualora risultasse corretta la data di consumazione indicata nel decreto
di rinvio a giudizio (dicembre 2008), l’accoglimento della questione influirebbe
sullo svolgimento successivo del dibattimento, condizionando le cadenze
temporali della complessa istruttoria da svolgere. In tal caso, infatti, il
termine prescrizionale di sette anni e mezzo spirerebbe dopo circa sei mesi
dalla data dell’ordinanza di rimessione, con la conseguenza che l’attività
istruttoria dovrebbe esaurirsi in tale ristretto arco temporale affinché possa
giungersi ad una decisione sul merito.
2.2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il
quale ha chiesto, anche con successiva memoria, che la questione sia dichiarata
non fondata sulla base di considerazioni analoghe a quelle prospettate in
rapporto all’ordinanza r.o. n. 237 del 2015.
2.3.– Si è costituito G. Z, imputato nel
giudizio a quo, instando per
l’accoglimento della questione.
Ad ulteriore riprova del fatto
che la disciplina censurata non costituisca frutto di «meditata e legittima
scelta discrezionale, ma travalichi nell’arbitrio», la parte privata rileva
che, per effetto della riforma introdotta dalla legge n. 251 del 2005, mentre
il termine prescrizionale del reato di disastro colposo è stato aumentato
(passando dai precedenti dieci anni agli attuali dodici), quello dell’omologa
fattispecie dolosa è stato viceversa ridotto (da quindici a dodici anni).
2.4.– La parte privata ha depositato memoria,
con la quale ha contestato la tesi dell’Avvocatura generale dello Stato,
secondo cui la norma censurata si spiegherebbe alla luce della particolare
complessità dell’attività investigativa necessaria ai fini dell’accertamento
dei fatti di reato previsti dall’art. 449 cod. pen.
Secondo la parte privata, la
complessità delle indagini non potrebbe essere considerata un elemento
indistintamente connaturato ai delitti contro l’incolumità pubblica, giacché,
se così fosse, non si comprenderebbe per quale ragione il raddoppio del termine
prescrizionale non sia stato esteso anche al delitto di avvelenamento colposo
di acque e sostanze alimentari (artt. 439 e 452 cod. pen.):
delitto anch’esso contestato agli imputati nel giudizio a quo e già dichiarato estinto per prescrizione.
Ancora più a monte, peraltro,
dovrebbe escludersi che la complessità delle indagini rappresenti un parametro
idoneo a giustificare la dilatazione del termine di prescrizione di taluni
reati. Si tratterebbe, infatti, di parametro eccentrico rispetto al fondamento
dell’istituto della prescrizione, che andrebbe ricercato «nella prospettiva
teleologica della pena», e segnatamente nella sua funzione di prevenzione
generale, connettendosi al progressivo affievolimento, con il decorso del
tempo, dell’allarme generato dal reato nella coscienza comune. In questa
prospettiva, la correlazione tra il tempo sufficiente a prescrivere e
l’astratta gravità del reato, espressa dalla pena edittale, costituirebbe un
coerente e necessario precipitato della ratio
dell’istituto, salvo che il legislatore, nella sua «meditata discrezionalità»,
opti per una soluzione estensiva, allorché l’allarme sociale generato da alcuni
tipi di reato implichi una «resistenza all’oblio» più che proporzionale
all’energia della risposta sanzionatoria. L’ampliamento del termine
prescrizionale non potrebbe essere, per converso, impropriamente collegato a un
fattore di tipo processuale del tutto estraneo all’anzidetta «prospettiva
teleologica», quale, appunto, l’asserita complessità delle indagini: tanto più
che l’effetto estintivo conseguente al decorso del termine prescrizionale
prescinde dalla instaurazione o meno di un procedimento penale.
3.– Con ordinanza del 22 giugno 2015 (r.o. n. 53 del 2016), il Tribunale ordinario di Torino ha
sollevato, in riferimento all’art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art.
157, sesto comma, cod. pen., «nella parte in cui
prevede che il termine di prescrizione è raddoppiato per il reato di cui
all’art. 449 c.p. in relazione all’art. 434 c.p. (crollo colposo)».
3.1.– Il giudice a quo procede nei confronti di due persone imputate del delitto di
cui agli artt. 434 e 449 cod. pen., per aver
cagionato con colpa, nelle loro rispettive qualità di direttore dei lavori per
la costruzione di un refettorio scolastico e di preposto presso il cantiere
dell’impresa edile, il crollo di una parte della copertura dell’edificio.
Quanto alla non manifesta
infondatezza, il rimettente rileva che, per effetto della norma censurata, il
termine di prescrizione del delitto di crollo colposo risulta identico a quello
del delitto di crollo doloso, nel caso in cui l’evento si verifichi (dodici
anni).
Un simile assetto violerebbe
l’art. 3 Cost. Posto che la prescrizione costituisce
un istituto di diritto sostanziale, attinente al trattamento sanzionatorio
complessivo degli illeciti penali, contrasterebbe con i principi di uguaglianza
e di ragionevolezza che due fattispecie poste a tutela dello stesso bene
giuridico, ma punite con pene sensibilmente diverse a seconda della componente
psicologica, vengano trattate esattamente allo stesso modo dal punto di vista
della prescrizione.
La declaratoria di
illegittimità costituzionale pronunciata dalla sentenza n. 143 del
2014, d’altra parte, non potrebbe essere estesa alla fattispecie in esame in
via ermeneutica, in quanto espressamente circoscritta al delitto di incendio
colposo e basata su valutazioni non riferibili al crollo colposo.
La questione sarebbe altresì
rilevante, giacché, in caso di suo accoglimento, il reato per cui si procede,
commesso il 9 novembre 2007, risulterebbe già prescritto.
3.2.– È intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata
sulla base di argomenti similari a quelli addotti in rapporto all’ordinanza r.o. n. 237 del 2015 e, in particolare, in base alla
considerazione che, per comune esperienza, l’accertamento dei fatti
riconducibili al paradigma punitivo del crollo colposo richiede lunghe e
complesse attività di indagine, che comportano un fisiologico allungamento
della durata del processo.
4.– Anche il Giudice dell’udienza preliminare
del Tribunale ordinario di Larino, con ordinanza del 21 luglio 2016 (r.o. n. 241 del 2016), dubita della legittimità costituzionale
dell’art. 157, sesto comma, cod. pen., nella parte in
cui prevede che il termine di prescrizione del reato di «disastro colposo»
(art. 449 in riferimento all’art. 434 cod. pen.) è
raddoppiato.
4.1.– Il giudice a quo riferisce di essere investito della richiesta di rinvio a
giudizio di una persona imputata del delitto di cui agli artt. 434 e 449 cod. pen., per aver provocato colposamente, quale legale
rappresentante di una società in nome collettivo incaricata dei lavori di
ristrutturazione di uno stabile, il crollo di una costruzione adiacente,
effettuando scavi in prossimità di questa senza adottare le cautele necessarie
per evitare la compromissione della sua statica.
La questione sarebbe
rilevante, in quanto i fatti risalgono al 30 agosto 2007, onde solo il
censurato meccanismo del raddoppio impedirebbe di ritenere il reato estinto per
prescrizione.
Quanto alla non manifesta
infondatezza, il rimettente ritiene che la parificazione del termine di
prescrizione del crollo colposo a quello della corrispondente ipotesi dolosa,
assai più grave, violi i
principi di uguaglianza e di ragionevolezza. Ciò, alla luce del principio
affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 143 del
2014, con riferimento all’incendio colposo, secondo il quale la
discrezionalità legislativa in materia di disciplina dell’istituto della
prescrizione, di natura sostanziale, deve essere sempre esercitata nel rispetto
del principio di ragionevolezza e, comunque sia, in modo da non determinare
disparità di trattamento fra fattispecie omogenee.
4.2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri,
intervenuto nel giudizio a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, ha
chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.
L’Avvocatura generale dello
Stato osserva che la scelta legislativa censurata deve ritenersi giustificata
da considerazioni legate all’allarme sociale generato dal delitto di cui si
discute e alla complessità delle indagini necessarie ai fini del riconoscimento
della colpa.
La circostanza che la
fattispecie colposa sia assoggettata ad un trattamento sanzionatorio meno grave
di quella dolosa non renderebbe, di per sé, irragionevole la parificazione del
termine di prescrizione. La sanzione penale – che ha funzioni retributive, di
emenda e di prevenzione – risponde, infatti, ad una ratio diversa da quella dell’istituto della prescrizione, la quale
si radica – alla luce delle indicazioni della giurisprudenza costituzionale –
nell’«interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il
lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venir meno, o
notevolmente attenuato […] l’allarme della coscienza comune», nonché nel
«"diritto all’oblio” dei cittadini quando il reato non sia così grave da
escludere tale tutela».
5.– Con una ulteriore ordinanza di rimessione
del 7 novembre 2016 (r.o. n. 103 del 2017), il
Tribunale ordinario di Torino ha sollevato questione di legittimità
costituzionale, in relazione all’art. 3 Cost., dell’art. 157, sesto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede il raddoppio del termine
di prescrizione del delitto di «crollo colposo».
5.1.– Il giudice a quo premette di essere investito, in sede dibattimentale, del
processo nei confronti di varie persone, imputate, tra l’altro, del delitto di
cui all’art. 449, in relazione all’art. 434, secondo comma, cod. pen., per avere cagionato, con colpa, il crollo parziale di
un edificio, provocando lesioni personali gravi a più soggetti.
Il rimettente rileva come
l’istituto della prescrizione abbia carattere sostanziale, implicando una
rinuncia dello Stato all’esercizio della potestà punitiva. Il termine di
prescrizione costituisce, a sua volta, una componente del trattamento
sanzionatorio complessivo del reato, tanto che, per costante giurisprudenza di
legittimità, deve tenersi conto di esso ogni qualvolta occorra individuare la
disciplina più favorevole al reo. In questa cornice, l’equiparazione dei
termini di prescrizione dei delitti di crollo, colposo e doloso, prodotta dalla
norma censurata, violerebbe i principi di uguaglianza e di ragionevolezza,
omologando fattispecie poste a tutela dello stesso bene giuridico, ma punite in
modo sensibilmente diverso in ragione del differente elemento psicologico.
Anche in questo caso, il
giudice a quo esclude che sia
possibile estendere in via interpretativa al delitto in esame la pronuncia
parzialmente ablativa della norma censurata relativa al delitto di incendio
colposo (sentenza
n. 143 del 2014). Il percorso argomentativo che sorregge tale pronuncia
risulterebbe, tuttavia, valevole anche in rapporto al reato in discussione,
posto che la censurata equiparazione del termine prescrizionale scardinerebbe,
comunque sia, «la scala della complessiva gravità delle due fattispecie
criminose», colposa e dolosa.
La questione sarebbe, altresì,
rilevante nel giudizio a quo. Il
reato per cui si procede è stato infatti commesso, secondo l’ipotesi
accusatoria, il 30 marzo 2009: solo in caso di accoglimento della questione
esso risulterebbe, pertanto, prescritto.
5.2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio
dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata, sulla scorta di rilievi
similari a quelli prospettati in rapporto all’ordinanza r.o.
n. 53 del 2016.
Considerato in diritto
1.– La Corte di cassazione (r.o.
n. 237 del 2015), il Tribunale ordinario di Velletri (r.o.
n. 32 del 2016), il Tribunale ordinario di Torino (r.o.
n. 53 del 2016 e n. 103 del 2017) e il Giudice dell’udienza preliminare del
Tribunale ordinario di Larino (r.o. n. 241 del 2016)
dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 157, sesto comma, del
codice penale, come sostituito dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251
(Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di
attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle
circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede che il
termine di prescrizione del delitto di crollo di costruzioni o altro disastro
colposo (art. 449, in riferimento all’art. 434 cod. pen.)
è raddoppiato. Alcune ordinanze di rimessione riferiscono il dubbio di
costituzionalità alla figura del «disastro colposo» (r.o.
n. 237 del 2015, n. 32 e n. 241 del 2016), altre a quella del «crollo colposo»
(r.o. n. 53 del 2016 e n. 103 del 2017), senza,
peraltro, che ai diversi nomina iuris impiegati dai rimettenti appaia corrispondere
l’intento di limitare l’auspicata declaratoria di illegittimità costituzionale
a una parte soltanto dei fatti repressi dal combinato disposto dei richiamati
artt. 449 e 434 cod. pen.
Ad avviso dei giudici a quibus, la norma censurata violerebbe
l’art. 3 della Costituzione, per contrasto con i principi di uguaglianza e di
ragionevolezza, giacché, in conseguenza del censurato raddoppio, il termine di
prescrizione del delitto in questione risulta uguale a quello della
corrispondente fattispecie dolosa (art. 434, secondo comma, cod. pen.), identica sul piano oggettivo, ma di disvalore
sensibilmente maggiore in rapporto al diverso coefficiente di partecipazione
psicologica del reo, come attesta l’ampio scarto tra le rispettive cornici
sanzionatorie edittali.
2.– Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche o analoghe
relative alla medesima norma, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per
essere definiti con unica decisione.
3.– Sul piano dell’ammissibilità, va rilevato come tutti i giudici
rimettenti abbiano motivato congruamente in ordine alla rilevanza della
questione, ponendo in evidenza che – alla luce della data di commissione dei
reati per cui si procede e tenendo pure conto dell’aumento massimo conseguente
agli atti interruttivi effettuati – il termine di prescrizione dei reati stessi
risulterebbe spirato solo ove venisse rimossa la censurata regola del
raddoppio.
Ciò vale anche in rapporto all’ordinanza di
rimessione del Tribunale ordinario di Velletri (r.o.
n. 32 del 2016), almeno per quanto concerne uno dei quattro imputati nel
giudizio a quo (quello la cui
posizione di garanzia, rilevante ai fini dell’addebito di responsabilità
colposa, risulterebbe cessata il 31 maggio 2005 e che – secondo quanto rilevato
dal rimettente – beneficerebbe dell’accoglimento della questione in quanto atto
a rendere la disciplina introdotta dalla legge n. 251 del 2005 più favorevole
di quella vigente alla data del fatto). Tanto basta a rendere ammissibile la
questione sollevata, a prescindere da ogni considerazione riguardo alla sua
effettiva rilevanza rispetto agli altri imputati, che il rimettente ricollega invece
ad un evento puramente ipotetico (quale l’eventuale «retrodatazione» della data
di commissione del reato all’esito dell’istruzione dibattimentale), o a
generici effetti di condizionamento delle future cadenze temporali di tale
istruzione.
4.– Nel merito, le questioni non sono fondate.
Giova ricordare come, nel disegno originario del
codice penale, il tempo di prescrizione dei reati fosse determinato tramite la
loro ripartizione in sei "fasce di gravità” decrescente, in base alla pena
edittale massima, a ciascuna delle quali corrispondeva un termine
prescrizionale via via più ridotto.
Nel riformare l’istituto della prescrizione, la
legge n. 251 del 2005 ha profondamente innovato tale assetto, sostituendo al
criterio "per fasce” una regola unitaria. In base ad essa, il tempo necessario
a prescrivere è pari al massimo della pena edittale dei singoli reati, salva la
previsione di una soglia minima, intesa ad evitare una troppo rapida
prescrizione dei reati meno gravemente puniti, pari a sei anni per i delitti e
a quattro anni per le contravvenzioni (art. 157, primo comma, cod. pen.,
come novellato).
Il legislatore ha ritenuto, tuttavia, di dover
introdurre un correttivo agli effetti prodotti dalla modifica (alla quale è
conseguita una sensibile e generalizzata contrazione dei termini prescrizionali
relativi ai reati di media gravità). Ha stabilito, cioè, che per alcune figure
criminose – ritenute, secondo quanto emerge dai lavori parlamentari, di
particolare allarme sociale e tali da richiedere complesse indagini probatorie
– il termine di prescrizione risultante dall’applicazione della regola generale
dianzi ricordata (oltre che di quelle enunciate dai successivi commi dello
stesso art. 157 cod. pen.) è raddoppiato (nuovo art.
157, sesto comma, cod. pen., norma oggi censurata).
Nell’elenco dei reati coinvolti nel regime del
raddoppio – elenco successivamente ampliato da plurime novelle legislative –
figurano, in prima fila, i delitti colposi di danno contro la pubblica
incolumità previsti dall’art. 449 cod. pen. (cosiddetti disastri colposi). Tale disposizione punisce, al
primo comma, con la reclusione da uno a cinque anni «chiunque, al di fuori
delle ipotesi previste nel secondo comma dell’articolo 423-bis, cagiona per colpa un incendio o un altro disastro preveduto
dal capo primo di questo titolo» (ossia dal capo I del titolo VI del libro
secondo del codice penale, relativo ai «delitti di comune pericolo mediante
violenza»). La previsione punitiva viene, quindi, a coniugarsi alle diverse
norme incriminatrici presenti nella partizione normativa richiamata, rendendo
punibile la forma colposa dei delitti da esse contemplati.
In questo modo, si è venuta, peraltro, a
determinare una anomalia: e, cioè, che per taluni fra i delitti in questione il
termine di prescrizione della fattispecie colposa è divenuto più lungo di
quello della corrispondente ipotesi dolosa (assolutamente identica sul piano
della condotta e dell’evento, stante la tecnica di descrizione della
fattispecie mediante mero rinvio, utilizzata dal citato art. 449 cod. pen.).
Il fenomeno si manifestava in modo
particolarmente vistoso con riguardo al delitto di incendio (previsto, quanto
all’ipotesi dolosa, dall’art. 423 cod. pen. e da questo punito con la reclusione da tre a sette anni).
Se commesso con dolo, tale delitto si prescriveva, infatti, in sette anni
(tempo corrispondente al massimo della pena edittale, ai sensi dell’art. 157,
primo comma, cod. pen.); se commesso con colpa, in un
tempo largamente superiore, e cioè in dodici anni: il termine minimo di
prescrizione dei delitti (sei anni) – operante nella specie, trattandosi di
reato punito con pena detentiva massima inferiore a tale soglia (cinque anni,
ai sensi dell’art. 449, primo comma, cod. pen.) –
risultava, infatti, raddoppiato in forza della norma censurata.
5.– Con la sentenza n. 143 del
2014 – richiamata da tutti i rimettenti a sostegno delle loro censure –
questa Corte ha ritenuto l’anomalia ora indicata contrastante con l’art. 3 Cost., dichiarando, di conseguenza, costituzionalmente
illegittimo l’art. 157, sesto comma, cod. pen., nella
parte in cui prevedeva il raddoppio del termine di prescrizione del delitto di
incendio colposo (art. 449, in riferimento all’art. 423 cod. pen.).
Al riguardo, si è rilevato che la prescrizione,
pur potendo assumere una valenza anche processuale, in rapporto alla garanzia
della ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), costituisce, nel vigente ordinamento, un istituto
di natura sostanziale (ex plurimis, sentenze n. 324 del 2008
e n. 393 del
2006, nonché, più di recente, ordinanza n. 24 del
2017): istituto la cui ratio «si
collega preminentemente, da un lato, all’"interesse generale di non più
perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione
abbia fatto venir meno, o notevolmente attenuato, […] l’allarme della coscienza
comune” (sentenze n.
393 del 2006 e n. 202 del 1971,
ordinanza n. 337
del 1999); dall’altro, "al ‘diritto all’oblio’ dei cittadini, quando il
reato non sia così grave da escludere tale tutela” (sentenza n. 23 del
2013)» (sentenza
n. 143 del 2014). Tali finalità si riflettono nella tradizionale correlazione
del tempo necessario a prescrivere al livello della pena edittale, indicativo
della gravità astratta del reato e del suo disvalore nella coscienza sociale:
correlazione divenuta, peraltro, ancor più stretta e diretta a seguito della
legge n. 251 del 2005.
La regola generale di computo congegnata in
questa chiave non è, di certo, inderogabile da parte del legislatore, «non
potendo in essa scorgersi un "momento necessario di attuazione – o di
salvaguardia – dei principi costituzionali” (sentenza n. 455 del
1998, ordinanza
n. 288 del 1999)». Soluzioni ampliative dei termini di prescrizione
ordinari possono essere giustificate, in specie, «sia dal particolare allarme
sociale generato da alcuni tipi di reato, il quale comporti una "resistenza
all’oblio” nella coscienza comune più che proporzionale all’energia della
risposta sanzionatoria; sia dalla speciale complessità delle indagini richieste
per il loro accertamento e dalla laboriosità della verifica dell’ipotesi
accusatoria in sede processuale, cui corrisponde un fisiologico allungamento
dei tempi necessari per pervenire alla sentenza definitiva» (sentenza n. 143 del
2014).
La discrezionalità legislativa in materia deve
essere esercitata, tuttavia, nel rispetto del principio di ragionevolezza e in
modo tale da non determinare ingiustificabili sperequazioni di trattamento tra
fattispecie omogenee, come invece era avvenuto nel caso dell’incendio. Con
riguardo a questo, a fronte di fattispecie identiche sul piano oggettivo, il
legislatore aveva infatti ribaltato la «scala di gravità» espressa dalle comminatorie
di pena, in coerenza con il rapporto sistematico che intercorre tra il dolo e
la colpa, prevedendo per l’ipotesi meno grave (quella colposa) un termine di
prescrizione quasi doppio di quello valevole per l’omologa ipotesi dolosa.
Un simile regime non poteva essere giustificato
né con considerazioni legate all’allarme sociale, essendo palesemente contrario
a logica che un incendio causato per colpa – ossia per imprudenza, imperizia o
inosservanza di regole cautelari – "resista all’oblio”, nella coscienza
sociale, molto più a lungo del medesimo incendio causato intenzionalmente; né
con ragioni di ordine probatorio, essendo parimente insostenibile che provocare
un incendio per colpa, anziché con dolo, innalzi verticalmente, nella generalità
dei casi, il tasso di complessità della indagini. L’esigenza di avvalersi di
periti – evocata nel corso dei lavori parlamentari relativi alla legge n. 251
del 2005 – è infatti comune alle due ipotesi, e se pure, nel caso dell’incendio
colposo, la perizia può risultare necessaria anche ai fini di individuare la
regola cautelare violata, nel caso dell’incendio doloso occorre fare i conti
con le maggiori difficoltà che usualmente incontra l’identificazione dei
soggetti responsabili.
6.– Ad avviso degli odierni rimettenti, analoga declaratoria di
illegittimità costituzionale si imporrebbe anche in rapporto al delitto di
crollo di costruzioni o altro disastro colposo, risultante dal combinato
disposto degli artt. 449 e 434 cod. pen.
L’art. 434 cod. pen., al primo comma,
punisce con la reclusione da uno a cinque anni «chiunque, fuori dei casi
preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare il
crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro […],
se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità» (fattispecie di
pericolo). Una pena maggiore – reclusione da tre a dodici anni – è prevista dal
secondo comma «se il crollo o il disastro avviene» (fattispecie di danno).
La
fattispecie di pericolo prevista dal primo comma dell’art. 434 cod. pen. non trova, peraltro, un suo
corrispondente colposo. L’art. 449, primo comma, cod. pen.
esige, infatti, ai fini della punibilità per colpa dei
fatti da esso richiamati, che il disastro si verifichi, evocando, perciò,
esclusivamente la fattispecie di danno prevista dal secondo comma dell’art. 434
cod. pen.
Ciò posto, i giudici a quibus si mostrano pienamente
consapevoli del fatto che il caso oggi in esame presenta un evidente tratto
differenziale rispetto a quello scrutinato dalla sentenza n. 143 del
2014. Nella specie, infatti, il meccanismo del raddoppio rende il termine
di prescrizione della fattispecie colposa – non già (nettamente) più lungo di
quello della fattispecie dolosa, come nel caso dell’incendio – ma esattamente
uguale ad esso.
Il reato di crollo o altro disastro doloso con
verificazione dell’evento si prescrive, infatti, in base alla regola generale
dell’art. 157, primo comma, cod. pen., in dodici anni (massimo edittale della pena comminata
dall’art. 434, secondo comma, cod. pen.). Anche
volendo ritenere – in conformità all’opinione prevalente, peraltro recentemente
disattesa dalla giurisprudenza di legittimità – che l’ipotesi prevista dal secondo
comma dell’art. 434 cod. pen. abbia
natura di circostanza aggravante, e non di fattispecie autonoma di reato, essa
entra, comunque sia, nel computo del termine prescrizionale ai sensi dell’art.
157, secondo comma, cod. pen., trattandosi di
aggravante ad effetto speciale.
Il medesimo tempo di dodici anni occorre anche
per la prescrizione del delitto di crollo o altro disastro colposo. Il termine
ordinario di prescrizione, pari a sei anni (termine minimo di prescrizione dei
delitti, applicabile in quanto la pena massima prevista dall’art. 449 cod. pen. è al di sotto di tale
soglia), è infatti raddoppiato dal sesto comma dell’art. 157 cod. pen.
Secondo i giudici a quibus, l’elemento differenziale ora
indicato non varrebbe a mutare la conclusione. Sarebbe, infatti, irragionevole
e lesivo del principio di uguaglianza che due fatti identici sul piano
oggettivo, ma di diversa gravità in relazione all’atteggiamento psicologico del
loro autore – e per questo puniti dallo stesso legislatore con pene detentive
nettamente divaricate – siano trattati poi esattamente allo stesso modo con
riguardo ai tempi di prescrizione.
7.– La tesi non può essere condivisa.
Nella sentenza n. 143 del
2014 questa Corte non ha affermato, né in alcun modo adombrato, che vi sia
una inderogabile esigenza costituzionale di scaglionare i termini
prescrizionali in senso inverso rispetto a quanto la legge n. 251 del 2005
aveva fatto con riguardo al delitto di incendio: nel senso, cioè, che occorra
stabilire, senza possibilità di eccezioni, per l’ipotesi colposa un termine
diverso e più breve di quello valevole per la versione dolosa del medesimo
reato.
Al riguardo, occorre considerare come
l’assoggettamento delle due forme di realizzazione dello stesso delitto –
dolosa e colposa – ad un eguale termine di prescrizione non rappresenti affatto
una anomalia introdotta per la prima volta dalla legge n. 251 del 2005. Al
contrario, il fenomeno era già ampiamente noto al sistema anteriore.
L’originario criterio di determinazione del termine di prescrizione per "fasce
di gravità” dei reati comportava, infatti, che quante volte le pene edittali
massime del delitto doloso e del suo corrispondente colposo – benché
diversificate – ricadessero entrambe nell’ambito della medesima "fascia”, il
tempo necessario a prescrivere risultava identico nei due casi. Come si ricorda
nella stessa sentenza
n. 143 del 2014, ciò avveniva anche e proprio nel caso dell’incendio. In
quanto puniti con pene massime comprese tra i cinque e i dieci anni di
reclusione – cinque anni l’incendio colposo, sette il doloso – corrispondenti
alla "fascia” di cui al numero 3) dell’originario art. 157, primo comma, cod. pen.,
ambedue i delitti si prescrivevano, prima della legge n. 251 del 2005, in dieci
anni.
Peraltro, anche dopo l’abbandono del criterio
"per fasce” da parte della legge n. 251 del 2005, permane nell’ordinamento –
indipendentemente dal censurato meccanismo del raddoppio – un ragguardevole
numero di casi di equiparazione. Ciò avviene segnatamente per effetto della
soglia dei sei anni, quale termine minimo di prescrizione dei delitti (art.
157, primo comma, cod. pen.). Figure delittuose quali
– tanto per addurre qualche esempio – la rivelazione di segreti d’ufficio (art.
326, primo e secondo comma, cod. pen.),
l’inadempimento di contratti di pubbliche forniture (art. 355, primo e terzo
comma, cod. pen.) o le lesioni personali semplici
(artt. 582 e 590 cod. pen.), essendo punite con pene
massime sensibilmente differenziate, ma, comunque sia, non superiori a sei anni
tanto se realizzate con dolo quanto se commesse con colpa, si prescrivono in
entrambi i casi nello stesso termine (sei anni appunto).
Ed è particolarmente significativo che il
fenomeno si riscontri anche nello stesso ambito dei delitti contro la pubblica
incolumità, tra i quali si colloca la figura criminosa che al presente
interessa. Ad esempio, il delitto di omissione colposa di cautele contro gli
infortuni sul lavoro (art. 451 cod. pen.) si
prescrive in sei anni, allo stesso modo della corrispondente fattispecie dolosa
(art. 437 cod. pen.), e parimente un sessennio è
richiesto per la prescrizione del delitto di «adulterazione o contraffazione di
altre cose in danno della salute pubblica», sia esso doloso (art. 441 cod. pen.) o colposo (art. 452, secondo comma, cod. pen.).
8.– Ciò posto, al fine di ritenere che il fenomeno considerato confligga
con l’art. 3 Cost. non giova
richiamare la natura sostanziale dell’istituto della prescrizione, in uno
all’esigenza di diversificare il trattamento di situazioni obiettivamente
dissimili. A differenziare la fattispecie dolosa da quella colposa, assicurando
la proporzionalità del trattamento sanzionatorio al disvalore del fatto,
provvede la pena. Non è, per converso, imprescindibile che alla
diversificazione delle risposte punitive – pure prefigurata dal legislatore –
si aggiunga, sempre e comunque sia, quella dei termini di prescrizione. Come
nota anche l’Avvocatura generale dello Stato, la natura sostanziale
dell’istituto della prescrizione – in quanto implicante una rinuncia dello
Stato alla pretesa punitiva – non vale certamente a cancellare l’eterogeneità
della sua funzione rispetto a quella della pena.
Al legislatore non è, in effetti, precluso di
ritenere, nella sua discrezionalità, che in rapporto a determinati delitti
colposi la "resistenza all’oblio” nella coscienza sociale e la complessità
dell’accertamento dei fatti siano omologabili a quelle della corrispondente
ipotesi dolosa, giustificando, con ciò, la sottoposizione di entrambi ad un
identico termine prescrizionale. E tale apprezzamento può legittimamente
esprimersi anche attraverso la introduzione di deroghe alla disciplina
generale.
Al riguardo, non può non ribadirsi quanto già
affermato nella sentenza
n. 143 del 2014: e, cioè, che simili soluzioni derogatorie possono essere
giustificate da entrambi gli elementi sopra indicati – livello dell’allarme
sociale e laboriosità delle attività accertative dell’illecito – e non già
soltanto dal primo di essi, come invece sostiene la parte privata costituita
nel giudizio promosso dal Tribunale ordinario di Velletri, facendo leva sull’asserita
eccentricità di un fattore di tipo processuale, quale la complessità delle
indagini, rispetto al fondamento dell’istituto della prescrizione. È ben vero
che, come rileva la parte privata, la prescrizione decorre anche se il
procedimento penale non viene instaurato. Ciò nondimeno, è ragionevole che il
legislatore si faccia carico dell’eventualità che il termine di prescrizione
risultante dall’applicazione delle regole ordinarie non permetta, anche quando
il procedimento penale prenda tempestivamente avvio, di pervenire alla
pronuncia definitiva prima dell’estinzione del reato.
9.– Il discorso vale in modo particolare proprio con riguardo al delitto
cui si riferisce l’odierno scrutinio.
È noto, infatti, come, prima della recente
introduzione dei nuovi delitti in materia di ambiente, la giurisprudenza –
valorizzando l’ampia comprensività del concetto di «altro disastro» (cosiddetto
disastro innominato), cui fa riferimento l’art. 434 cod. pen.
– abbia ripetutamente ricondotto a tale paradigma punitivo, anche e soprattutto
nell’ipotesi colposa delineata dall’art. 449 cod. pen., fatti di cosiddetto
disastro ambientale. Proprio fatti di tal genere formano, del resto, oggetto di
due degli odierni giudizi a quibus. Si tratta di una soluzione interpretativa che
la legge 22 maggio 2015, n. 68 (Disposizioni in materia di delitti contro
l’ambiente) ha inteso convalidare e preservare, inserendo nella formula
descrittiva della nuova fattispecie tipica di disastro ambientale delineata
dall’art. 452-quater cod. pen. una clausola volta
espressamente a far salvi «i casi previsti dall’articolo 434».
È dato di comune esperienza, altresì, come si
sia al cospetto di vicende che –sebbene risultino ascrivibili a colpa –
generano nell’attuale momento storico un allarme sociale particolarmente
intenso e i cui effetti si manifestano spesso a notevole distanza di tempo,
richiedendo nella generalità dei casi accertamenti complessi tanto nella fase
delle indagini quanto in quella processuale (anche per il numero dei soggetti
usualmente coinvolti).
In quest’ottica, il legislatore della legge n.
251 del 2005 ha inteso quindi evitare che, per effetto della nuova regola di
determinazione del tempo necessario a prescrivere, si determinasse un drastico
abbattimento del termine prescrizionale della fattispecie colposa in questione
(il quale sarebbe rimasto, in pratica, quasi dimezzato, passando da dieci a sei
anni): esito che avrebbe impedito, in una larga percentuale di casi, di
definire il processo prima dell’estinzione del reato.
Tale preoccupazione si è, d’altro canto, nel
frangente tradotta nella previsione di un regime che resta entro il confine del
legittimo esercizio della discrezionalità legislativa in materia, proprio
perché implica la semplice equiparazione di detto termine prescrizionale a
quello della fattispecie dolosa, e non già – come per l’incendio – lo
"scavalcamento” di quest’ultimo (soluzione costituzionalmente ingiustificabile,
per le ragioni indicate nella sentenza n. 143 del
2014).
La circostanza – denunciata anch’essa dalla
parte privata costituita nel giudizio promosso dal Tribunale ordinario di
Velletri – che la legge n. 251 del 2005 abbia, per un verso, aumentato il
termine prescrizionale del disastro innominato colposo, e per l’altro ridotto
quello del disastro doloso (e ciò diversamente da quanto è avvenuto con la
successiva legge n. 68 del 2015, che ha assoggettato al raddoppio tanto
l’ipotesi dolosa, quanto quella colposa del neointrodotto
delitto di disastro ambientale), può essere eventualmente motivo di critica sul
piano politico-criminale, ma non vale, di per sé, a rendere costituzionalmente
illegittima la soluzione adottata. Mentre il fatto – dedotto dalla stessa parte
privata – che il legislatore non abbia avvertito l’esigenza di coinvolgere nel
regime del raddoppio anche altri delitti colposi, distinti da quello di cui si
discute, quali i delitti contro la salute pubblica (art. 452 cod. pen.), resta nell’ambito degli apprezzamenti discrezionali,
insuscettibili di sindacato da parte di questa Corte.
10.– Le questioni vanno dichiarate, pertanto, non fondate.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate
le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 157, sesto comma, del
codice penale, come sostituito dall’art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251
(Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di
attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle
circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate, in
riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, dal
Tribunale ordinario di Velletri, dal Tribunale ordinario di Torino e dal
Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Larino con le
ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 22 novembre 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Franco MODUGNO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 dicembre 2017.