ORDINANZA N. 223
ANNO 2014
Commento alla decisione di
Antonio Ruggeri
Una opportuna precisazione, da parte di Corte cost. n. 223 del 2014, in merito ai conflitti (apparenti…) tra norme di diritto interno e norme della CEDU, in questa Rivista, Studi 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Sabino CASSESE Presidente
- Giuseppe TESAURO Giudice
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quinquies, lettera d), della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – comma aggiunto dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 – promosso dalla Corte d’appello di Bari nel procedimento vertente tra S.A. e il Ministero della giustizia con ordinanza del 9 luglio 2013, iscritta al n. 10 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 9 luglio 2014 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
Ritenuto che, con ordinanza del 9 luglio 2013, la Corte d’appello di Bari, in composizione monocratica, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quinquies, lettera d), della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – comma aggiunto dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 – nella parte in cui non riconosce l’indennizzo per la violazione del termine ragionevole del processo nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione solo se questa sia «connessa a condotte dilatorie della parte», deducendo la violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 35, paragrafo 3, lettera b), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: «CEDU»);
che il giudice a quo premette di essere investito del ricorso, depositato il 10 maggio 2013, per l’equa riparazione del pregiudizio subito, in ragione dell’eccessiva durata del processo, da una persona rinviata a giudizio per i reati di sequestro di persona e di tentata rapina aggravata, dichiarati prescritti con sentenza divenuta irrevocabile il 13 novembre 2012;
che, in punto di rilevanza, la Corte rimettente deduce che il ricorso, tempestivamente depositato, dovrebbe, allo stato, essere accolto, risultando superato il termine quinquennale stabilito per la celebrazione del doppio grado di giudizio ed essendo stata dichiarata la prescrizione senza che risultino condotte dilatorie della parte;
che, quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva che la regola posta dall’art. 2, comma 2-quinquies, lettera d), della legge n. 89 del 2001 ‒ che esclude l’indennizzo per l’eccessiva durata del processo «nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte» – ha codificato un principio giurisprudenziale consolidato;
che detta regola si porrebbe, tuttavia, in contrasto con la più recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, connessa a sopravvenute modifiche della stessa Convenzione;
che il 1° giugno 2010 è entrato, infatti, in vigore il nuovo art. 35, paragrafo 3, lettera b), della CEDU, in base al quale il ricorso individuale di cui all’art. 34 della medesima Convenzione è dichiarato irricevibile o inammissibile nel caso in cui «il ricorrente non ha subito alcun pregiudizio importante», salve le ipotesi di mancato esame del caso da parte del giudice nazionale o di compressione di diritti umani convenzionali (ipotesi non ravvisabili nel caso di specie);
che, in applicazione della nuova previsione, comunemente definita «de minimis non curat praetor», la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza 6 marzo 2012, Gagliano Giorgi contro Italia, ha escluso che fosse stato cagionato un «pregiudizio importante» ad un imputato che, a causa dell’eccessiva durata del processo, aveva beneficiato della prescrizione in rapporto ad uno dei reati ascrittigli, posto che quest’ultima, estinguendo il reato, aveva compensato o grandemente ridotto i pregiudizi che normalmente derivano dalla violazione del principio di ragionevole durata del processo;
che l’orientamento espresso dalla citata pronuncia dovrebbe essere considerato ormai «stabile», tenuto conto del fatto che la Grande Camera ha rifiutato di riesaminare il caso;
che, di conseguenza, la norma interna censurata – la cui «rigida dizione letterale» non consentirebbe interpretazioni alternative – tutelerebbe l’interesse alla ragionevole durata del processo penale nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione in assenza di condotte dilatorie della parte, anche quando manchi «un pregiudizio importante» nella prospettiva della Convenzione;
che, in questo modo, la disposizione denunciata si porrebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., alla cui stregua – secondo il rimettente – il legislatore nazionale dovrebbe non soltanto rispettare i vincoli derivanti dalle convenzioni internazionali, ma anche «evitare di modularne l’attuazione in maniera tale da riconoscere, a chi ne deduca la violazione, un bene che il giudice sovranazionale non riconoscerebbe»;
che il principio di sussidiarietà, visto con favore dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e al quale la stessa legge n. 89 del 2001 si ispira, precluderebbe, in specie, al legislatore nazionale di soddisfare una pretesa che la normativa e la giurisprudenza convenzionale non ritengono fondata: in tal caso, infatti, lo Stato non eserciterebbe il «margine di apprezzamento» riconosciutogli dalla Corte di Strasburgo, ma tutelerebbe un diritto solo apparentemente radicato nel contesto sovranazionale;
che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata.
Considerato che la Corte d’appello di Bari dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quinquies, lettera d), della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – comma aggiunto dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 – nella parte in cui esclude l’indennizzo per la violazione del termine ragionevole del processo nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione solo se questa sia «connessa a condotte dilatorie della parte»;
che, ad avviso della Corte rimettente, la norma censurata violerebbe l’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 35, paragrafo 3, lettera b), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), in quanto accorderebbe all’interesse alla ragionevole durata del processo un livello di tutela superiore a quello riconosciuto dalla Convenzione;
che, infatti, alla luce della più recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – e, in particolare, della sentenza 6 marzo 2012, Gagliano Giorgi contro Italia – quando il processo si concluda con la dichiarazione di prescrizione del reato mancherebbe un «pregiudizio importante», tale da superare la soglia minima di indennizzabilità ai sensi della disposizione combinata degli artt. 6, paragrafo 1, e 35, paragrafo 3, lettera b), della CEDU: e ciò anche in assenza di «condotte dilatorie della parte»;
che l’assunto della Corte rimettente è privo di fondamento;
che, a prescindere da ogni altro rilievo – sia in ordine alla lettura della normativa interna operata del giudice a quo e, in particolare, alla mancata verifica della possibilità di ritenere che, in assenza di manovre dilatorie dell’interessato, l’estinzione del reato per prescrizione, pur non determinando l’esclusione tout court del diritto all’indennizzo, costituisca comunque un elemento suscettibile di valutazione in concreto, al fine dell’eventuale superamento della presunzione di esistenza di un danno come conseguenza dell’eccessiva durata del processo; sia in ordine alla lettura offerta dallo stesso rimettente alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale, nella citata sentenza Gagliano Giorgi, ha ribadito che la soglia minima di gravità che la violazione di un diritto deve raggiungere per giustificare un esame da parte di una giurisdizione internazionale «è, per sua natura, relativa e dipende dalle circostanze del caso di specie» – è dirimente la considerazione che, nella prospettiva dello stesso giudice a quo, nessuna violazione del parametro evocato sarebbe comunque configurabile;
che, infatti, i livelli minimi di tutela dei diritti fondamentali prefigurati dalla CEDU, nell’interpretazione offertane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, costituiscono, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., un limite inderogabile per il legislatore italiano solo “verso il basso”, ma non “verso l’alto”;
che, come precisato da questa Corte, in materia di diritti fondamentali, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall’ordinamento interno, ma può e deve costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa (sentenza n. 317 del 2009): vale, in altre parole, il principio della massima espansione delle tutele e della conseguente prevalenza della fonte che conferisce la protezione più intensa;
che, d’altro canto, l’art. 53 della stessa CEDU stabilisce espressamente che l’interpretazione delle norme della Convenzione non può limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo riconosciuti in base alle leggi di ogni Parte contraente (o ad ogni altro accordo cui essa partecipi): confermando, con ciò, che il sistema di garanzia della Convenzione mira a rinforzare la protezione offerta a livello nazionale, senza mai imporle limitazioni, come invece pretenderebbe il giudice a quo;
che, in conclusione, resta comunque escluso che disposizioni maggiormente garantiste di diritto interno possano essere ritenute costituzionalmente illegittime in nome dell’esigenza di rispetto di norme della CEDU, o della loro interpretazione da parte della Corte di Strasburgo;
che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente infondata.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quinquies, lettera d), della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – comma aggiunto dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 – sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 6, paragrafo 1, e 35, paragrafo 3, lettera b), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dalla Corte d’appello di Bari con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2014.
F.to:
Sabino CASSESE, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2014.