ORDINANZA N. 204
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL
POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Sabino CASSESE Presidente
- Giuseppe TESAURO Giudice
- Paolo
Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Sergio MATTARELLA ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di
legittimità costituzionale dell’art. 2-bis,
comma 3, della legge
24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del
termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di
procedura civile), promossi dalla Corte d’appello di Reggio
Calabria, sezione civile, con ordinanze del 16 e del 19 settembre, del 24
ottobre e dell’11 novembre 2013, rispettivamente iscritte al n. 266
del registro ordinanze 2013 ed ai nn. 3, 21 e 23 del
registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2013 e nn.
5 e 11, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’11 giugno 2014
il Giudice relatore Sergio Mattarella.
Ritenuto che, con ordinanza del 16 settembre 2013 (r.o. n. 266 del 2013), la Corte d’appello di Reggio
Calabria, sezione civile, nella persona del giudice designato al fine di provvedere
sulla domanda di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole
del processo, nel corso di un procedimento avente a oggetto una domanda di equa
riparazione proposta nei confronti del Ministero della giustizia dalla parte
risultata soccombente nel processo presupposto, ha sollevato, in riferimento all’art. 117 della
Costituzione, in relazione all’art. 6, paragrafo
1, della Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata
a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto
1955, n. 848 (d’ora in avanti, «CEDU» o «Convenzione»), questione di
legittimità del comma 3 dell’art. 2-bis della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa
riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e
modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), articolo
aggiunto dall’art. 55, comma 1, lettera b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n.
83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni,
dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n.
134;
che, ad avviso del giudice a quo, tale impugnata disposizione – secondo cui: «La misura
dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1 [che prevede, a sua volta, che: «Il
giudice liquida a titolo di equa riparazione una somma di denaro, non inferiore
a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno
superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del
processo»], non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se
inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice» − víola il parametro invocato «nella parte in cui limita la
misura dell’indennizzo (liquidabile in favore della parte che abbia subito un
danno per la durata irragionevole del processo presupposto) al "valore del
diritto accertato” senza alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando
in tal modo l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione
in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente
soccombente»;
che il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere
investito del ricorso, proposto il 19 luglio 2013 nei confronti del Ministero
della giustizia, con il quale M.F., nella qualità di erede di A.S., aveva
chiesto l’indennizzo del danno subíto per effetto
dell’irragionevole durata di una controversia in materia di lavoro promossa
davanti al Tribunale ordinario di Patti, sezione distaccata di S. Agata di
Militello; b) che la ricorrente nel giudizio a quo era risultata interamente soccombente in detto presupposto
processo di lavoro, atteso che lo stesso era stato definito con la sentenza del
Tribunale ordinario di Patti, sezione distaccata di S. Agata di Militello, che
aveva rigettato la domanda della stessa ricorrente e che era passata in
giudicato il 22 gennaio 2013;
che il medesimo giudice rimettente sviluppa poi alcune considerazioni in
punto di diritto;
che, prima di prendere in esame la disposizione censurata, egli evidenzia la
portata innovativa, rispetto alla normativa anteriore al decreto-legge n. 83
del 2012, dell’alinea e della lettera a)
del comma 2 dell’art. 2-bis della
legge n. 89 del 2001, secondo cui «L’indennizzo è determinato a norma
dell’articolo 2056 del codice civile, tenendo conto: a) dell’esito del
processo nel quale si è verificata la violazione di cui al comma 1 dell’articolo 2»;
che, a tale proposito, il giudice a
quo osserva che, nel vigore di detta previgente normativa, la Corte di
cassazione aveva affermato la spettanza del diritto all’equa riparazione a
tutte le parti del processo «indipendentemente dal fatto che esse siano
risultate vittoriose o soccombenti e dalla consistenza economica ed importanza
del giudizio», nonché l’irrilevanza, al medesimo fine, della «asserita
consapevolezza da parte dell’istante della scarsa probabilità di successo
dell’iniziativa giudiziaria» (sono citate, in tale senso, le sentenze n. 8632 e
n. 8541 del 2010), ammettendo che si potesse tenere conto dell’esito del
processo presupposto solo qualora esso «abbia un indiretto riflesso
sull’identificazione, o sulla misura, del pregiudizio morale sofferto dalla
parte in conseguenza dell’eccesiva durata della causa», come si verifica
«quando il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente
resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento
della fattispecie di cui al richiamato art. 2», con la precisazione, peraltro,
che di tali circostanze «costituenti abuso del processo», anche ai fini della
commisurazione dell’indennizzo, «deve dare prova puntuale l’Amministrazione»,
non essendo «sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte
sia stata dichiarata manifestamente infondata» (è citata, nel senso indicato,
la sentenza n.
35 del 2012);
che, a fronte di tale indirizzo della giurisprudenza di legittimità,
formatosi anteriormente all’entrata in vigore del d.l.
n. 83 del 2012, la citata lettera a)
del comma 2 dell’art. 2-bis avrebbe
innovato sotto il duplice profilo che, in virtù della stessa, l’esito del
giudizio presupposto: a) assumerebbe, ancorché al solo fine della
quantificazione dell’indennizzo, «un ruolo non più eccezionale ma normale,
fisiologico e soprattutto sganciato dalla condizione che esso si accompagni
anche alla consapevolezza della parte e, correlativamente, ad
un uso strumentale del processo»; b) non
dovrebbe più, per comportare una riduzione dell’indennizzo, essere, insieme con
«l’abuso del processo alla base di esso richiesto», allegato e provato
dall’amministrazione resistente, «potendo e dovendo il giudice ex se […] sindacare e ponderare l’esito
del giudizio quale risultante dagli atti prodotti»;
che, passando all’esame dell’impugnato comma 3 dell’art. 2-bis, il rimettente afferma che lo stesso
stabilisce che la misura dell’indennizzo, anche in deroga agli importi indicati
dal comma 1 dello stesso art. 2-bis, non può superare non solo il valore della controversia −
ciò che, secondo lo stesso giudice a quo,
«dà espressione ad una convinzione di comune buon
senso particolarmente avvertita per le cause bagatellari»
−, ma neppure il valore del diritto accertato dal giudice, quando questo
sia inferiore al valore della causa;
che, ad avviso del rimettente, tale ultima disposizione comporterebbe che la
domanda di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo potrebbe
essere accolta solo nel caso in cui chi la propone sia risultato, almeno in
parte, vittorioso nel giudizio presupposto, mentre nessun indennizzo potrebbe
essere riconosciuto a chi, nello stesso giudizio, fosse risultato interamente
soccombente, atteso che, in tale ultimo caso, l’accertamento negativo della
sussistenza del diritto fatto valere in giudizio equivarrebbe all’accertamento
che tale diritto, in quanto inesistente, «per così dire, "vale zero”»;
che il rimettente conclude, sul punto, affermando che: «Non può sfuggire
pertanto il paradosso (ed anche la violazione del fondamentale parametro di cui
all’art. 3 Cost.) cui si incorrerebbe a ritenere che,
posto il valore della causa uguale a 100: a) in caso di diritto accertato
uguale a 10, sia liquidabile un indennizzo non maggiore di 10; b) in caso di
radicale rigetto della domanda, sia invece liquidabile un indennizzo maggiore
fino al limite di 100. Occorrerebbe presumere, cioè, ma non si vede con quale
plausibilità logica, che la durata irragionevole del processo sia fonte per la
parte di sofferenza morale maggiore in caso di totale rigetto della sua domanda
e minore in caso di parziale accoglimento»;
che, sempre ad avviso del rimettente, sarebbe «tutt’altro che certo […] che
una tale interpretazione della norma, fondata sulla sua insuperabile
formulazione letterale, vada oltre l’intenzione del legislatore, potendosi
rinvenire da altre parti della novella indici alquanto significativi nella
medesima direzione»;
che tali sarebbero, anzitutto, le disposizioni delle lettere b) e c)
del comma 2-quinquies dell’art. 2
della legge n. 89 del 2001 − comma aggiunto dall’art. 55, comma 1, lettera a),
numero 2), del d.l. n. 83 del 2012 − le quali
escludono qualunque indennizzo in favore, rispettivamente, della parte che
abbia visto accogliere la propria domanda in misura non superiore a una
proposta conciliativa che abbia rifiutato senza giustificato motivo (art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc.
civ.), e della parte vincitrice che abbia rifiutato la proposta di mediazione
quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al
contenuto della stessa (art. 13, primo comma, primo
periodo, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, recante «Attuazione
dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione
finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali»),
trattandosi di «ipotesi […] rispetto alle quali l’avere agito infondatamente in
giudizio costituisce sicuramente un minus (dal punto di vista del riconoscimento che nel
giudizio presupposto hanno ricevuto le ragioni fatte valere dalla parte)»;
che «rilievo convergente» dovrebbe essere attribuito, sempre secondo il
giudice a quo, anche alle seguenti
disposizioni della legge n. 89 del 2001 (anch’esse aggiunte o sostituite
dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012): a) la già
menzionata lettera a) del comma 2 dell’art. 2-bis,
che indica l’«esito del processo» tra i parametri di cui è necessario tenere
conto ai fini della determinazione dell’indennizzo; b)
l’art. 4, che ha escluso che la domanda di riparazione possa essere proposta
prima della conclusione del procedimento con provvedimento definitivo; c) la
lettera c) del comma 3 dell’art. 3, che impone al ricorrente di depositare,
unitamente al ricorso, copia autentica della sentenza o dell’ordinanza
irrevocabili che abbiano definito il giudizio;
che tali disposizioni evidenzierebbero, secondo il rimettente, l’importanza
attribuita dal legislatore della novella al fatto che il giudice investito
della domanda di equa riparazione conosca l’esito definitivo del giudizio, il
che «non altrimenti può spiegarsi se non con il preponderante rilievo
attribuito dal legislatore […] a tale aspetto della vicenda, quale parametro
determinativo della liquidazione dell’indennizzo»;
che una «indiretta conferma della ragionevolezza» dell’indicata
interpretazione della disposizione censurata si trarrebbe, infine,
dall’affermazione, contenuta nella relazione illustrativa al disegno di legge
di conversione del d.l. n. 83 del 2012, secondo cui
tra le finalità delle modificazioni della legge n. 89 del 2001 vi era anche
quella di «non allargare le maglie di un bacino di domanda di giustizia
suscettibile di distorsioni che sono già presenti nell’attuale sistema (in cui
accade che una causa venga instaurata, al di là della fondatezza della pretesa,
in funzione del conseguimento del successivo indennizzo spettante per la
violazione del temine di durata ragionevole del processo, dal momento che la
Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte affermato che l’indennizzo in
parola spetta anche alla parte rimasta soccombente nel processo "presupposto”»;
che, ad avviso del giudice rimettente, il passaggio citato tradirebbe la
consapevolezza del legislatore che il principio della spettanza dell’equa
riparazione anche alla parte interamente soccombente «è causa di distorsioni
nel funzionamento e nell’impostazione teorica stessa dei fondamenti e della
natura del diritto all’equa riparazione»;
che, sempre secondo il rimettente, ancorché l’indicata relazione
illustrativa indichi come obiettivo della novella quello di «non allargare le
maglie» della detta distorsione, le disposizioni effettivamente introdotte e
appena indicate «prescindendo del tutto, nell’attribuire il visto rilievo all’esito
del giudizio, dall’accertamento dell’esistenza di un atteggiamento negligente,
strumentale o abusivo a fondamento della domanda rigettata o della resistenza a
quella interamente accolta − appaiono oggettivamente [idonee] anche a
contrastare in radice il principio suddetto» della spettanza dell’equa
riparazione anche alla parte interamente soccombente;
che il giudice rimettente afferma di non ignorare l’esistenza dell’«indice
di segno contrario» costituito dalla disposizione della lettera a) del comma 2-quinquies dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001 − secondo
cui non è riconosciuto alcun indennizzo «in favore della parte soccombente
condannata a norma dell’articolo 96 del codice di
procedura civile [cioè per responsabilità processuale aggravata]» − la
quale, in base all’argomento a contrario,
dovrebbe essere interpretata nel senso della spettanza dell’indennizzo in
favore della parte soccombente che non abbia subito la citata condanna, con la
conseguenza che la mera soccombenza non sarebbe, di per sé sola, ragione di
esclusione dal diritto all’equa riparazione;
che a tale conclusione si opporrebbe, tuttavia, sempre secondo l’opinione
del rimettente, l’«indice normativo» costituito dall’impugnato comma 3
dell’art. 2-bis, il quale, pur non
riguardando i presupposti in astratto della spettanza del diritto
all’indennizzo ma la commisurazione di quest’ultimo (a priori, perciò, non escluso), finisce − rivelandosi così
«più potente rispetto ai limitati obiettivi per i quali era
stato probabilmente pensato» − con l’annullarlo completamente in tutti i
casi di soccombenza;
che alla stregua di ciò, secondo il rimettente, «A tutto concedere non può
non registrarsi un insanabile contrasto, quantomeno agli effetti pratici, tra
le due norme, il che però, lungi dal poter autorizzare […] a una mera
disapplicazione della seconda nella parte in cui risulti in contrasto con la
prima, ne rafforza piuttosto il sospetto di incostituzionalità»;
che il giudice a quo afferma,
infine, di non conoscere pronunce giurisprudenziali che, in base alla
disciplina dell’equa riparazione per la violazione del termine ragionevole del
processo risultante dalle modificazioni recate dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012, abbiano riconosciuto il diritto
all’indennizzo alla parte soccombente nel processo presupposto, ma solo
pronunce di rigetto dei ricorsi presentati da tale parte (sono citati, in
proposito, i decreti della Corte d’appello di Bari 25 settembre 2012 reso nel
procedimento n. 547/12 V.G., 6 novembre 2012 reso nel
procedimento n. 610/12 V.G., 6 novembre 2012 reso nel procedimento n. 613/12,
15 gennaio 2013 reso nel procedimento n. 641/12 V.G., nonché il decreto della
Corte d’appello di Caltanissetta del 7 febbraio 2013);
che, sulla
base di tali premesse, il giudice a quo,
dopo avere compiuto un’ampia rassegna dei princípi
che, in base alla giurisprudenza della Corte costituzionale, della Corte di
cassazione e della Corte di giustizia dell’Unione europea, governano i rapporti
tra la legislazione interna e la CEDU (sono citate, in particolare, le sentenze
della Corte costituzionale n. 303, n. 236, n. 175, n. 196, n. 113, n. 80 e n. 1
del 2011, n. 187, n. 138 e n. 93 del 2010, n. 311 del 2009, n. 348 e n. 349 del
2007, nonché le ordinanze n. 180 e n. 138 del 2011 e n. 150 del 2002; le sentenze
della Corte di cassazione n. 5894 del 2009, n. 1341, n. 1340, n. 1339 e n. 1338
del 2004, e la sentenza
della Corte di giustizia dell’Unione europea 24 aprile 2012, in causa C-571/10,
Kamberaj), afferma, in punto di non manifesta
infondatezza, che l’impugnato comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001 si pone in contrasto con l’art. 6,
paragrafo 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte
europea dei diritti dell’uomo;
che, a proposito di tale parametro interposto, il rimettente sottolinea come
detta Corte abbia sempre ritenuto «l’irrilevanza della soccombenza del
ricorrente, in sé e per sé considerata» ai fini della spettanza dell’equa
soddisfazione prevista dall’art. 41 della CEDU, in base al rilievo che la
parte, indipendentemente dall’esito della causa, «ha comunque subito una diminuzione della qualità della vita in
conseguenza dei patemi d’animo sopportati durante il lungo arco temporale che
ha preceduto la definitiva decisione della sua posizione processuale» (è
citata, in proposito, la sentenza
19 febbraio 1992, recte,
1998, Paulsen-Medalen e Svensson
contro Svezia);
che tale principio, prosegue il rimettente, è sempre stato affermato anche
dalla Corte di cassazione nel vigore della disciplina dettata dalla legge n. 89
del 2001 anteriormente alle modificazioni ad essa apportate dal d.l. n. 83 del 2012, avendo la giurisprudenza di
legittimità costantemente affermato,
come si è già visto, che il danno non patrimoniale non è escluso dall’esito
negativo del processo o dall’elevata possibilità del rigetto della domanda e
che, per ritenere infondata la domanda di indennizzo, è necessario che la parte
soccombente si sia resa responsabile di lite temeraria o, comunque, di un abuso
del processo (sono citate le sentenze n. 8632 e n. 8541 del 2010), del quale
deve fornire la prova la parte che lo eccepisce (è citata la sentenza n. 819
del 2010);
che la stessa Corte di cassazione aveva ancora affermato che, al fine di
negare la sussistenza del danno, può sì assumere rilievo la «chiara, originaria
e perdurante certezza sulla inconsistenza» del diritto fatto valere in
giudizio, con la precisazione, tuttavia, che non «equivale a siffatta certezza
originaria la mera consapevolezza della scarsa probabilità di successo
dell’azione» (sentenze n. 8165 del 2010 e n. 24269 del 2008);
che il giudice a quo precisa infine che il quadro normativo e giurisprudenziale
descritto non può ritenersi «rilevantemente mutato» a séguito dell’entrata in
vigore del nuovo testo dell’art. 35, paragrafo 3,
lettera b), della CEDU, come
modificato dall’art. 12 del Protocollo n. 14 alla Convenzione, firmato a
Strasburgo il 13 maggio 2004, ratificato e reso esecutivo con la legge 15
dicembre 2005, n. 280 (Ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 14 alla
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo
e delle libertà fondamentali emendante il sistema di controllo della
Convenzione, fatto a Strasburgo il 13 maggio 2004), secondo cui «La Corte
dichiara irricevibile ogni ricorso individuale presentato ai sensi
dell’articolo 34 se ritiene che: […] (b) il ricorrente non ha subito alcun
pregiudizio importante, salvo che il rispetto dei diritti dell’uomo garantiti
dalla Convenzione e dai suoi Protocolli esiga un esame del ricorso nel merito e
a condizione di non rigettare per questo motivo alcun caso che non sia stato
debitamente esaminato da un tribunale interno»;
che, secondo il rimettente − il quale, a proposito del significato
attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo al menzionato art. 35,
paragrafo 3, lettera b), della CEDU,
cita le sentenze 6 marzo 2012,
Gagliano contro Italia, 19
ottobre 2010, Rinck contro Francia e 18
ottobre 2010, Giusti contro Italia − infatti, «nulla autorizza a
ritenere che una tale clausola, essendo rapportata a parametri ulteriori e
diversi dal mero esito della causa e legati piuttosto alla considerazione delle
variabili circostanze del caso concreto, possa di per sé comportare una
revisione dei descritti parametri talmente radicale da potersi prevedere che,
in forza della stessa, possa escludersi tout
court, sempre e in ogni caso, la riconoscibilità dell’equo indennizzo alla
parte soccombente»;
che, quanto alla rilevanza, la rimettente Corte
d’appello afferma anzitutto che un’interpretazione costituzionalmente orientata
della disposizione censurata, tale da renderla compatibile con l’invocato
parametro interposto dell’art. 6, paragrafo 1, della
CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritto dell’uomo, è resa
impossibile dal suo tenere letterale, il quale impedisce di liquidare
l’indennizzo in misura superiore «al valore del diritto accertato»;
che, in particolare, non sarebbe praticabile
l’interpretazione «restrittiva e correttiva» dell’impugnato comma 3 nel senso
di ritenere, come sostenuto in uno dei primi commenti alla novella di cui
all’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012, che «il
riferimento al diritto accertato dal giudice costituisca un limite nella
determinazione del valore della causa così come avviene per individuare lo
scaglione di valore della causa ai fini della
liquidazione delle spese legali»;
che a tale interpretazione si opporrebbero, infatti,
l’analisi logica della disposizione censurata e l’uso della locuzione
disgiuntiva «o», rafforzata dall’inciso «se inferiore», elementi che
evidenzierebbero che il valore del diritto accertato dal giudice è indicato
dalla norma censurata, in alternativa al valore della causa, come limite alla
misura dell’indennizzo e non come criterio di determinazione del valore della
causa;
che ne conseguirebbe, conclusivamente, che una lettura
della disposizione censurata diversa da quella accolta si tradurrebbe in
un’interpretazione contra legem, non consentita neppure al fine di rendere detta
disposizione conforme alla CEDU;
che, sempre in punto di rilevanza, il giudice a quo sottolinea come la norma impugnata
abbia una «diretta incidenza» sulla
decisione in ordine alla domanda di equa riparazione proposta;
che, infatti, «se ne fosse […] confermata la
legittimità costituzionale in applicazione della stessa la domanda […] andrebbe
rigettata; in caso contrario essa andrebbe accolta, salvo solo una
commisurazione tendenzialmente al minimo dell’indennizzo spettante, all’interno
del range
fissato dal primo comma dell’art. 2-bis
e salvo sempre il limite rappresentato dal valore della causa»;
che il rimettente precisa infine che, ancorché la
fattispecie al suo esame riguardi un’ipotesi di rigetto integrale della
domanda, con soccombenza del ricorrente nel processo presupposto, il dubbio di
costituzionalità prospettato «è destinato a porsi, nei medesimi termini, anche
nell’ipotesi inversa di soccombenza della parte resistente (o convenuta) nel
processo presupposto, ovviamente ove sia questa a proporre la domanda per equa
riparazione»;
che ad avviso del giudice a quo, infatti, «sembra evidente che il riferimento al valore del
diritto accertato va rapportato alla posizione che nel processo presupposto
assumeva la parte che avanzi richiesta d’indennizzo ai sensi della legge n.
89/2001»;
che, pertanto, nel caso di soccombenza del convenuto,
«non deve fuorviare la considerazione che […] il giudizio presupposto si sia
concluso ovviamente con l’accoglimento della domanda avanzata dall’attore e
quindi con il positivo accertamento del diritto da quest’ultimo fatto valere,
posto che, ai fini qui in considerazione, rileva piuttosto l’altra faccia di
quella statuizione che, per il convenuto, equivale al rigetto delle sue tesi
difensive»;
che, per converso, anche nel caso di soccombenza
dell’attore (come è avvenuto nel giudizio a
quo), ove a richiedere l’indennizzo fosse, però, non lo stesso attore ma la
parte convenuta, vittoriosa nel giudizio, «nei confronti della stessa non
varrebbe ovviamente il limite qui censurato, posto che, in rapporto alla sua
posizione, il rigetto della domanda attrice equivale al pieno riconoscimento
della fondatezza del suo diritto a contrastare la pretesa avversaria»;
che il rimettente precisa ancora che «La norma
censurata evoca […], a ben vedere, il valore dell’accertamento contenuto nella
sentenza; e un contenuto di accertamento è sempre presente in qualsiasi
sentenza: di rigetto, di condanna, costitutiva o di mero accertamento (positivo
o negativo) che sia. Un tale contenuto poi è sempre ambivalente rispetto alle
posizioni delle parti in lite (per definizione, ovviamente, contrapposte).
L’attore dunque che agisce in giudizio per ottenere l’accertamento di un suo
diritto, chiede per l’appunto un accertamento positivo di una tale situazione
giuridica; nella stessa causa ovviamente si contrappone la posizione del
convenuto che, resistendo alla domanda, per ciò stesso implicitamente invoca un
accertamento negativo di tale situazione, non rilevando, ai nostri fini, se ne
faccia a sua volta oggetto di domanda riconvenzionale o semplicemente di mera
difesa»;
che è
intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;
che la difesa statale afferma anzitutto che la questione
sollevata sarebbe inammissibile sia in quanto sarebbe volta a ottenere un’indicazione
interpretativa da parte della Corte costituzionale sul significato da
attribuire alla locuzione "valore del diritto accertato dal giudice” (valore
inteso come limite alla misura dell’indennizzo), perciò configurandosi come un
improprio tentativo di conseguire dalla Corte un avallo interpretativo (è
citata la sentenza
della Corte costituzionale n. 21 del 2013), sia in quanto il rimettente
avrebbe omesso di verificare la possibilità di una, in effetti praticabile,
interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata,
idonea a superare i dubbi di legittimità della stessa;
che, sotto tale secondo aspetto, la difesa statale
sostiene che la Corte di appello rimettente, pur avendo prospettato delle
interpretazioni dell’impugnato comma 3 dell’art. 2-bis diverse da quella − ritenuta incompatibile con l’art. 6,
paragrafo 1, della CEDU − che escluda la
liquidazione dell’indennizzo alla parte rimasta soccombente nel processo
presupposto, non avrebbe esplicitato «l’incompatibilità costituzionale [di
tali] restanti interpretazioni»;
che l’Avvocatura generale dello Stato rileva, infine,
che «rispetto all’ipotesi ritenuta coerente con i principi CEDU (quella, cioè,
secondo cui il soccombente totale verrebbe comunque liquidato, tenendo conto
dei parametri di quantificazione individuati dalla disciplina in via generale)
viene incongruamente (e contraddittoriamente) ipotizzato un contrasto con
l’art. 117, primo comma, della Costituzione, senza
alcun riferimento alla violazione del parametro dell’eguaglianza di cui
all’articolo 3 Cost. rispetto alla posizione del soccombente parziale;
l’indennizzo riconosciuto a quest’ultimo è, infatti, parametrato al valore del
diritto accertato, che è inferiore, secondo quanto prospetta il giudice a quo, rispetto a quello minimo
riconosciuto al soccombente totale in relazione alla
forbice di cui all’art. 2-bis, comma 1, della legge 89 del 2001»;
che, ai fini della ricerca di un’interpretazione costituzionalmente
orientata della disposizione censurata, il giudice rimettente avrebbe omesso di
considerare sia la ratio delle
modificazioni apportate dall’art. 55 del d.l. n. 83
del 2012 alla legge n. 89 del 2001, sia il contesto
sistematico in cui tale disposizione si inserisce;
che, al riguardo, la difesa statale rammenta anzitutto
che la citata novella si configura come un «tentativo di contenere i costi a
carico del bilancio dello Stato derivanti dagli indennizzi liquidati e di
razionalizzare il carico di lavoro che grava sulle Corti d’appello, evitando
che la durata dei procedimenti per la liquidazione delle indennità possa dar
luogo, a sua volta, a responsabilità dello Stato per violazione dell’articolo 6
CEDU»;
che, a tale fine, il menzionato art. 55 avrebbe
«diversamente strutturato lo stesso diritto all’equa
riparazione» attraverso: a) la fissazione, in via presuntiva, dei termini di
durata ragionevole dei processi (art. 2, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater della legge n. 89 del 2001); b)
l’individuazione di «ipotesi tipicamente abusive dei poteri processuali […] che
costituiscono cause di esclusione dell’indennizzo» (art.
2, comma 2-quinquies,
della legge n. 89 del 2001); c) la previsione di parametri e limiti nella
determinazione concreta dell’indennizzo (art. 2-bis della legge n. 89 del 2001);
che, sempre secondo la difesa dello Stato, spetta,
comunque, al giudice investito della domanda, la doverosa valutazione della
sussistenza del diritto a un’equa riparazione − da effettuare in base a
un criterio che tenga conto dei parametri (fissati dal comma 2 dell’art. 1
della legge n. 89 del 2001, anch’esso sostituito dal numero 1
della lettera a del comma 1 dell’art.
55 del d.l. n. 83 del 2012) della complessità del
caso, dell’oggetto del procedimento, del comportamento delle parti e del
giudice durante il procedimento presupposto (nonché di
ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua
definizione) − sicché «perché l’obbligazione indennitaria consegua alla
violazione della ragionevole durata del processo e sia in concreto
configurabile, è necessario il previo accertamento costitutivo del giudice» e
che, analogamente, la mancata previsione di automatismi nella commisurazione
dell’indennizzo deriva dalla necessità di considerare la specificità di ciascun
caso;
che l’Avvocatura generale dello Stato prosegue
sottolineando come sia pacifico nella giurisprudenza della Corte di cassazione −
che ha recepito, sul punto, gli orientamenti della Corte europea dei diritti
dell’uomo − che il diritto all’equa riparazione spetta indipendentemente
dall’esito del processo presupposto «ad eccezione del caso in cui il
soccombente fosse consapevole della inconsistenza delle proprie istanze»,
sicché sarebbe impossibile, sempre secondo la difesa statale, interpretare
l’impugnato comma 3 nel senso che esso nega l’indennizzo all’interamente
soccombente;
che vi sarebbe, invece, la possibilità di liquidare a
tale parte soccombente nel processo presupposto un indennizzo compreso tra 500
e 1.500 euro per ogni anno di ritardo secondo quanto previsto dal comma 1
dell’art. 2-bis, «dando spazio, nella
decisione, agli ulteriori parametri oggettivi di
valutazione introdotti con la sopra illustrata finalità calmieratrice della
riforma»;
che, del resto, prosegue la difesa statale, «il
richiamo alla soglia del valore del "diritto accertato” conferma la coerenza di
un’interpretazione in linea con la ratio
della riforma, nell’ipotesi in cui il soccombente parziale (la cui pretesa si
sia considerevolmente ridotta in sede di accertamento giudiziale) abbia, nel
successivo giudizio di equa riparazione, sostanzialmente prospettato, in
termini di tendenziale abuso del processo, una domanda irragionevolmente
eccedente il diritto effettivamente vantato (e riconosciuto nel giudizio presupposto).
Così limitato lo spettro dell’intervento normativo, se ne comprende la
ragionevolezza in chiave costituzionalmente orientata: la parte che nel
giudizio presupposto abbia chiesto 1.000 e ottenuto 100
avrà, in sede di equa riparazione, una liquidazione non superiore a
quest’ultimo importo, perché, pur avendo ragione nel merito, ha ecceduto nella
quantificazione della richiesta; ciò non è incongruo rispetto alla posizione di
chi, pur avendo chiesto allo stesso modo 1.000, non ha avuto riconosciuto nulla
per effetto di una decisione sull’an di una pretesa comunque legittimamente e non abusivamente
avanzata»;
che, poiché una tale interpretazione «non è stata
neppure ipotizzata dal giudice rimettente», anche sotto tale profilo la
questione sarebbe manifestamente inammissibile;
che, con ordinanza del 19 settembre 2013
(r.o. n. 3 del 2014), la Corte d’appello di Reggio
Calabria, sezione civile, nella persona del giudice designato al fine di
provvedere sulla domanda di equa riparazione in caso di violazione del termine
ragionevole del processo, nel corso di un procedimento avente a oggetto una
domanda di equa riparazione proposta dalla parte risultata soccombente nel
processo presupposto, ha sollevato, in riferimento all’art. 117 Cost., in relazione all’art. 6,
paragrafo 1, della CEDU, questione di legittimità
del comma 3 dell’art. 2-bis della legge
n. 89 del 2001, «nella parte in cui limita la misura dell’indennizzo
(liquidabile in favore della parte che abbia subito un danno per la durata
irragionevole del processo presupposto) al "valore del diritto accertato” senza
alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando
in tal modo l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione
in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente
soccombente»;
che il giudice
rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del ricorso,
proposto il 26 luglio 2013 nei confronti del Ministero della giustizia, con il
quale F.G. aveva chiesto l’indennizzo del danno subíto
per effetto dell’irragionevole durata di una
controversia civile promossa davanti al Tribunale ordinario di Messina; b) che
il ricorrente nel giudizio a quo era
risultato interamente soccombente in detto presupposto processo civile, atteso
che lo stesso era stato definito con una sentenza del Tribunale ordinario di
Messina che aveva rigettato la domanda dello stesso ricorrente e che era
passata in giudicato il 15 aprile 2013;
che, in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione,
la Corte di appello rimettente svolge considerazioni identiche a quelle esposte
nell’ordinanza del 16 settembre 2013 (r.o. n. 266 del
2013);
che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;
che la difesa dello Stato prospetta deduzioni di contenuto analogo a quelle
di cui all’atto di intervento nel giudizio iscritto al n. 266 del registro
ordinanze 2013;
che, con ordinanza del 24 ottobre 2013 (r.o.
n. 21 del 2014), la Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella
persona del giudice designato al fine di provvedere sulla domanda di equa
riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, nel
corso di un procedimento avente a oggetto una domanda di equa riparazione
proposta dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto, ha
sollevato, in riferimento all’art. 117 Cost., in relazione all’art. 6,
paragrafo 1, della CEDU, questione di legittimità
del comma 3 dell’art. 2-bis della
legge n. 89 del 2001, «nella parte in cui limita la misura dell’indennizzo
(liquidabile in favore della parte che abbia subito un danno per la durata
irragionevole del processo presupposto) al "valore del diritto accertato” senza
alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando
in tal modo l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione
in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente
soccombente»;
che il giudice
rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del ricorso in
riassunzione, proposto il 17 ottobre 2013 nei confronti del Ministero della
giustizia, con il quale M.N. aveva chiesto l’indennizzo del danno subíto per effetto dell’irragionevole durata di una
controversia di lavoro da lui promossa davanti al Giudice del lavoro di
Siracusa con ricorso depositato il 3 ottobre 1996 diretto a ottenere il
riconoscimento dell’illegittimità del licenziamento intimatogli dalla Industria
Acqua Siracusana s.p.a.; b) che il ricorrente nel
giudizio a quo era risultato
interamente soccombente in detto presupposto processo di lavoro, atteso che lo
stesso era stato definito, in sede di rinvio, con la sentenza della Corte
d’appello di Messina n. 1289 del 2011, che aveva rigettato la domanda dello
stesso ricorrente;
che, in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione,
la Corte d’appello rimettente svolge considerazioni identiche a quelle esposte
nelle ordinanze iscritte al n. 266 del registro ordinanze 2013 e al n. 3 del
registro ordinanze 2014;
che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;
che la difesa dello Stato prospetta deduzioni di contenuto analogo a quelle
di cui agli atti di intervento nei giudizi iscritti al n. 266 del registro
ordinanze 2013 e al n. 3 del registro ordinanze 2014;
che, con ordinanza pronunciata il 31
ottobre 2013 e depositata l’11 novembre 2013 (reg. ord.
n. 23 del 2014), la Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione civile, nel
corso di un procedimento di opposizione contro un decreto che aveva deciso su
di una domanda di equa riparazione proposta dalla parte risultata soccombente
nel processo presupposto, ha sollevato, in riferimento all’art. 117 Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1,
della CEDU, questione di legittimità del comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella
parte in cui limita la misura dell’indennizzo (liquidabile in favore della
parte che abbia subito un danno per la durata irragionevole del processo
presupposto) al "valore del diritto accertato” senza alcuna ulteriore
specificazione o limite, comportando in tal modo l’impossibilità di liquidare
in alcuna misura un’equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto,
sia risultata interamente soccombente»;
che il giudice
rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito
dell’opposizione proposta, ai sensi dell’art. 5-ter della legge n. 89 del 2001, da S.F. nei confronti del Ministero
della giustizia avverso il decreto del 22 maggio 2013 con il quale la Corte
d’appello di Reggio Calabria aveva rigettato il ricorso proposto dallo stesso
S.F. il 2 maggio 2013 al fine di ottenere l’indennizzo del danno subíto per effetto dell’irragionevole durata di una
controversia; b) che il contraddittorio era stato ritualmente integrato nei
confronti dell’amministrazione opposta a mezzo della
notificazione del ricorso in opposizione presso la competente Avvocatura
distrettuale dello Stato il 2 agosto 2013; c) che il diritto all’indennizzo era
stato negato dal giudice di prime cure in ragione del fatto che lo stesso S.F.
era stato integralmente soccombente nel processo presupposto; d) che
l’opponente S.F. lamenta che: d.1.) la tipicità e la tassatività delle ipotesi
di esclusione del diritto all’indennizzo previste dall’art. 2-quinquies (recte: art. 2,
comma 2-quinquies) della legge n. 89
del 2001 impedisce che, tra di esse, possa essere compresa «quella
ulteriormente coniata dal provvedimento impugnato»; d.2.)
la negazione del diritto all’indennizzo da parte del giudice di prime cure
«deriverebbe, in ogni caso, da un’applicazione analogica dell’art. 2-bis [della legge n. 89 del 2001] non
consentita dalla circostanza del vertere tale disposizione non l’an, ma solo il quantum,
dell’indennizzo riconoscibile»; e) che l’opposto Ministero della giustizia ha
dedotto: e.1.) l’inammissibilità del ricorso in opposizione «per omessa
illustrazione delle ragioni fondanti il relativo merito»; e.2.) in subordine,
l’infondatezza della domanda; f) che detta eccezione di inammissibilità del
ricorso in opposizione non è fondata perché dalla documentazione in atti si
evince che l’opponente S.F. «pur non allegando il decreto opposto ha
chiaramente ed efficacemente, quantunque per sintesi, enunciato il contenuto
del medesimo e le ragioni ivi addotte, nonché le doglianze al riguardo da sé
mosse, consentendo così agevolmente l’esercizio del contraddittorio»;
che il medesimo giudice rimettente espone poi le seguenti considerazioni in
punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione sollevata;
che egli premette anzitutto che la soccombenza nel giudizio presupposto è
espressamente prevista come causa di rigetto della domanda di equa riparazione
solo nel caso in cui ricorrano le ulteriori condizioni previste dalle lettere a) e b)
del comma 2-quinquies dell’art. 2
della legge n. 89 del 2001 o quando la parte soccombente nel giudizio
presupposto abbia «posto in essere un abuso di poteri
processuali che abbia determinato un’ingiustificata dilatazione dei termini del
procedimento», sicché persiste la «legittimazione in capo [a detta] parte […] a
far valutare l’eventuale sussistenza d’una lesione del suo diritto a conseguire
in un tempo ragionevole una pronuncia risolutiva della questione controversa»;
che il comma 3 dell’art. 2-bis
della legge n. 89 del 2001, che ha introdotto un tetto massimo o valore soglia
della misura dell’indennizzo, «in quanto non
coordinata con [detto] superiore principio», farebbe insorgere i seguenti due
problemi interpretativi che, in quanto reciprocamente interdipendenti,
necessitano di soluzioni tra loro coerenti: a) il significato da attribuire
alla locuzione "valore del diritto accertato dal giudice”; b) «se
l’introduzione d’un tetto massimo all’indennizzo liquidabile […] valga per
tutti i possibili epiloghi del giudizio presupposto e per tutte le parti d’esso
(qualora, ovviamente, promuovano un ricorso ex
lege Pinto)»;
che, quanto al primo dei problemi segnalati, il giudice a quo osserva che: a) il parametro del "valore del diritto
accertato”, ancorché suppletivo, prevale rispetto a quello del valore della
causa, qualora in concreto sia inferiore a quest’ultimo; b) al fine di
individuare il parametro primario del valore della causa, il solo riferimento è
quello alla disciplina della determinazione del valore della controversia
dettata dagli articoli da 7 a 17 cod. proc. civ.; c)
mentre per la cause di valore determinato o determinabile il limite
dell’indennizzo costituito dal valore della causa sarebbe agevolmente
individuabile, per le cause di valore indeterminabile «è dubbio se debba
applicarsi il criterio per cui la causa avrà valore entro il tetto massimo di
competenza del giudice adito (soluzione che potrebbe operare peraltro soltanto
per le cause di competenza del giudice di pace) o quello aliunde determinato ai sensi
degli artt. 10 e ss., ovvero se la predetta disposizione non trovi applicazione
e quindi l’indennizzo liquidabile ex lege n. 89 del 2001 non debba, in tali ipotesi,
incontrare alcun tetto massimo»; d) l’epilogo del procedimento presupposto, in
particolare la soccombenza di chi successivamente proponga domanda di equa
riparazione, rileva come elemento per stabilire il limite massimo della misura
in concreto dell’indennizzo; e) «in subiecta materia notoriamente è ammesso che sussiste un
pregiudizio in re ipsa,
suscettibile dunque di quantificazione equitativa», con la conseguenza che non
potrebbe affermarsi né che è onere del ricorrente dedurre e provare se sussista
e quale sia, nella specie, il valore soglia di cui al comma 3 dell’art. 2-bis, né che, in difetto di allegazione o
deduzione di elementi idonei a consentire l’individuazione dello stesso, ciò
comporterebbe l’inammissibilità o il rigetto del ricorso (trovando
applicazione, in virtù del rinvio ad essi operato dal
secondo periodo del comma 4 dell’art. 3 della legge n. 89 del
2001, i primi due commi dell’art. 640 cod. proc. civ.); f) mentre, ai fini della competenza, la legge
fa riferimento, per la determinazione del valore della causa, al petitum (o ai petita), la legge
n. 89 del 2001 fa riferimento al valore ritenuto nella decisione, ragione per
cui «va chiarito quale sia l’effettivo contenuto prescrittivo della
disposizione»;
che, quanto al secondo dei problemi segnalati, secondo la Corte rimettente
andrebbe verificato se la disposizione censurata integri un’ulteriore causa di
eventuale esclusione dell’indennizzo, ancorché non indicata come tale, «nel
senso che nulla possa essere riconosciuto all’istante nel caso in cui il
diritto dallo stesso asseritamente vantato sia fatto
valere in giudizio ma sia stato affermato insussistente (in tutto o in parte),
ovvero se qualora il ricorrente sia stato soccombente (in tutto o in parte) nel
giudizio presupposto e detto giudizio abbia avuto durata irragionevole, la
negazione del diritto preteso non valga anche ad escludere il diritto ad equo
indennizzo»;
che, a fronte di tale problema, sussisterebbero, secondo il rimettente,
«almeno» le tre seguenti opzioni praticabili: a) quella ora indicata per prima
che, pur se apparentemente in contrasto con l’orientamento della Corte EDU
secondo il quale anche la parte interamente soccombente ha diritto all’equa
soddisfazione nel caso di durata irragionevole del processo, sarebbe
praticabile in quanto: a.1) quella «probabilmente […] più coerente con
l’esigenza calmieratrice» alla quale avrebbe inteso rispondere l’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012; a.2) «in sintonia […] con alcuni
spunti offerti dalla relazione introduttiva del testo del disegno di legge poi
[…] approvato dal Parlamento» (in particolare, con il rilevo da essa attribuito
alla «necessità d’arginare la presunzione di dannosità della prolungata durata
di un processo in modo che non divenga assoluta, ma rimanga iuris tantum»; a.3) coerente con la ratio
sottostante alle disposizioni del comma 2 dell’art. 2-quinquies, della
lettera a) del comma 2 dell’art. 2-bis, e dell’art. 4 della legge n. 89 del
2001; b) quella secondo cui l’indennizzo è riconosciuto anche al ricorrente che
sia risultato totalmente soccombente nel giudizio
presupposto − salve le cause di esclusione espressamente previste −
«ma pure che esso debba essere commisurato entro il range normativamente stabilito −
tra i 500 ed i 1500 euro per anno (o frazione) − e comunque con le
limitazioni di soglia o di tetto massimo dettate dall’art. 2-quinquies comma 3 (come dire che non
solo il vittorioso nel giudizio presupposto ma anche
il soccombente incontrerà un limite quantitativo alla pretesa riconoscibile»;
c) quella in base alla quale «in detta liquidazione a pro del totale soccombente il valore soglia suddetto non dovrebbe
operare (perché non v’è a suo favore riconoscimento d’alcun diritto al cui
valore parametrare tale tetto massimo); ma è palese che tanto implicherebbe una
diversificazione di trattamento (con esito premiale per il soccombente e
penalizzante per il vittorioso parziale) difficilmente compatibile con i
principi costituzionali d’uguaglianza e ragionevolezza»;
che, ad avviso del ricorrente, la seconda delle opzioni indicate sarebbe
quella più coerente con il costante indirizzo della Corte europea dei diritti
dell’uomo e con la lettera della legge e, per tale ragione, andrebbe
«tendenzialmente preferita, perché se il legislatore avesse voluto anche in
tale ipotesi derogarvi (in ossequio a principi superiori d’ordinamento, quali
quelli d’uguaglianza e di ragionevolezza) avrebbe potuto e dovuto prevederlo»;
che, tuttavia, prosegue il rimettente, occorre ugualmente chiarire cosa
debba intendersi per "valore del diritto accertato”;
che, al riguardo, il giudice a quo
afferma che: a) «assumere che il valore di soglia massima sia applicabile per
il solo caso in cui il ricorrente ex lege n. 89 del 2001 sia stato sostanzialmente
vittorioso (in tutto o in parte) nel giudizio presupposto non risulta, in
difetto d’espresse clausole limitative, ammissibile», tenuto conto anche che la
disposizione in esame deve esser coordinata con il comma 2 del medesimo art. 2-bis, «che a tanto non fa alcun
riferimento», nonché del fatto che l’accertamento
della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo dipende non
solo da quanto accade nel corso dello stesso (come sembrerebbe dalla lettura
del comma 2 dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001), ma anche dal suo esito
(occorrendo verificare che non ricorrano le ipotesi di espressa esclusione dal
riconoscimento dell’indennizzo); b) «opinare che la superiore lettera possa
interpretarsi nel senso di aver fatto riferimento alla vittoriosità
o alla soccombenza in senso processuale e non sostanziale (equiparando così
l’una all’altra delle due parti del giudizio presupposto) non sembra
discutibile tanto sotto il profilo dell’equità sostanziale, quanto sotto il
profilo del rigore formale dell’interpretazione», considerato
che «non appare […] concettualmente scorretto legittimare, in tali
eventualità, l’impiego quale valore di soglia massima di liquidazione −
in via suppletiva rispetto a quello del valore del diritto riconosciuto (che
non c’è perché la sentenza "rigetta” o dichiara inammissibile o improponibile o
improcedibile la domanda) − quello del valore "positivo” che il giudizio
abbia comunque recato alla parte processualmente vittoriosa: avendo infatti il
diritto negato all’uno un rilievo concreto economicamente correlabile alla
sfera giuridica dell’altro (nel senso che il convenuto nel giudizio presupposto
che non formuli riconvenzionali ma si limiti ad una mera difesa comunque
"lucra” dalla sconfitta della pretesa altrui la stabilizzazione della sua
situazione quo antea,
ossia il non dover corrispondere o il
non dover adempiere ad un facere altrimenti per lui oneroso nella misura del petitum preteso e
poi disatteso), l’interessato potrebbe venire a conseguire un indennizzo da
irragionevole durata pur non avendo azionato alcuna pretesa ex adverso, ed
addirittura in misura massima, mentre quella consentita al sostanzialmente
vittorioso (ma processualmente di gran lunga soccombente) potrebbe essere
decisamente inferiore alla prima; e ciò non risulterebbe irragionevole (o
comunque lesivo dell’uguaglianza sostanziale delle parti di lite), per la
diversa incidenza concreta sulla situazione di vita dell’uno e dell’altro della
pendenza in sé d’un processo potenzialmente foriero d’apportare vantaggio o
svantaggio rilevante ad entrambi i contendenti; in tale ipotesi si dovrebbe
però prescindere dal principio della domanda, che sembra invece recepito dal dictum espresso
dalla disposizione in esame ("… valore del diritto accertato …”)»; c) «di
dubbia legittimità appare, invece, una liquidazione equitativa che −
adottando, in via suppletiva, un criterio di perequazione correttivo di
potenziali distorsioni − riconoscesse che l’ammontare: o del valore del
diritto riconosciuto in concreto alla controparte; o del valore del giudizio
(in base al variabile grado di rilevanza della soccombenza, se parziale o
totale) possano costituire soglie non superabili per entrambi i già
contendenti; e ciò nel senso che, qualora il valore del diritto accertato in
capo all’attore (o ricorrente) del giudizio presupposto fosse o inferiore a
quello del valore del giudizio in senso processuale, o comunque accertato ex post, della controparte, questa non
potrebbe vedersi comunque riconosciuto un indennizzo superiore a quello
dell’attore sostanzialmente soccombente; e ciò poiché tanto risulta
incompatibile con l’indole oggettiva del valore "soglia” in questione e non è
consentito dal tipo di discrezionalità ammessa per il giudicante in subiecta materia, poiché detta discrezionalità è
pur sempre "vincolata” − trattandosi d’un procedimento liquidatorio che
conferisce al decidente un potere mai sostanzialmente arbitrario, ove si
riconosca che è comunque prevista una soglia minima inderogabile (riferibile
all’indole non meramente simbolica dell’indennizzo da riconoscere) − e la
sua sindacabilità in sede d’opposizione garantisce che l’eventuale ricorso
appunto a parametri d’equità non vulneri il fondamento che la predetta
discrezionalità ripete dalla legge vigente»;
che il rimettente indica perciò i seguenti «casi astrattamente prospettabili»
in cui il proponente la domanda di equa riparazione sia stato: a) parzialmente
soccombente – quale attore (o ricorrente) o quale convenuto (o resistente) –
nel giudizio presupposto; b) totalmente soccombente – quale convenuto (o
resistente) – nel giudizio presupposto; c) totalmente soccombente – quale
attore (o ricorrente) – nel giudizio presupposto;
che, sulla base di quanto in precedenza esposto, il giudice a quo afferma quindi che: a) nel primo
caso, «il valore "soglia” comunque non superabile nella liquidazione
dell’indennizzo (imposto dall’art. 2 bis
comma 3 della legge citata) debba essere identificato
nel valore del diritto effettivamente riconosciuto alla parte sostanzialmente
vittoriosa»; b) nel secondo caso, «il valore "soglia” comunque non superabile
sarà pur sempre individuato nel valore del diritto riconosciuto alla parte
sostanzialmente vittoriosa, ed ovviamente, salva la specificità della vicenda
processuale (che potrà giustificare, in situazioni peculiari, anche
l’equiparazione tra le parti), potrà essere diversificata la misura
dell’indennizzo – entro il range assentito – con tendenziale liquidazione di quella del
sostanzialmente soccombente in misura inferiore a quella riconoscibile al
sostanzialmente vittorioso ma con possibilità di sua equiparazione ad essa»; c)
nel terzo caso, «l’accertamento negativo della sussistenza di un diritto
equivale all’accertamento che il diritto fatto valere in giudizio ha valore
(per chi asseriva di esserne titolare e di poterne fruire e disporre) giuridicamente
ed economicamente pari a zero»;
che il rimettente precisa ancora che «ove non siano formulate
riconvenzionali, ma mere difese (o eccezioni idonee a paralizzare la pretesa
altrui), non v’è ex adverso
alcuna domanda e pertanto non può agevolmente affermarsi che la pronuncia abbia
implicitamente accertato contra un
qualche diritto del convenuto o del resistente (cui riferire l’individuazione
del predetto valore soglia)»;
che, a quest’ultimo proposito, il rimettente aggiunge ancora che: a) «se il
soccombente e la controparte permangono nella situazione quo antea, che dal punto di vista della
controparte vi sia una sostanziale vittoriosità,
poiché essa pur godrà del risultato utile costituito dalla continuità di detta
situazione di fatto rispetto alle pretese dell’attore (o ricorrente) su cui sia
intervenuto il giudicato ed entro i limiti del suo valore (quale emerso in
decisione) potrà invocare per sé indennizzo (come riconosciuto sub b)»; b) «ciò non equivale ad alcuna
stabilizzazione o qualificabilità della stessa alla
stregua d’un diritto o di situazione di fatto giuridicamente tutelabile né
verso costui né verso chicchessia ed implicherà soltanto che il bene della vita
controverso (che ha pur sempre un valore economicamente quantificabile)
risulterà "intatto” rispetto all’iniziativa attorea, ma solo interinalmente»;
c) «a pro dell’attore o ricorrente –
che subisca (nel giudizio presupposto) la predetta soccombenza processuale,
eventualmente con condanna soltanto per la rifusione delle spese processuali,
ai fini della quantificazione del correlato diritto ad equo indennizzo in caso
di durata irragionevole di detto procedimento potrà utilizzarsi quale valore
"soglia” non superabile quello del valore economico del diritto antea goduto dal
convenuto o resistente vittorioso, o, qualora non ve ne fosse alcuno, il valore
soglia costituito dal valore economico del bene della vita dedotto in
controversia quale emerso in decisione mentre, in ultima analisi, se esso non
sia suscettibile di rilievo patrimoniale, non v’è a ben vedere un parametro che
consenta di provvedere»;
che il giudice rimettente afferma poi che le pronunce adottate sino ad
allora dalla Corte d’appello di Reggio Calabria erano state discordanti circa
la soluzione da dare alla «questione esaminata» in quanto, in una occasione,
essa era stata risolta, da un magistrato designato, «nel senso di riconoscere
comunque l’operatività della norma di riferimento, pur senza che sia ritraibile
nel sistema certezza rassicurante in proposito», in un’altra, sollevando, da
parte di un diverso magistrato designato, la questione di legittimità
costituzionale successivamente iscritta al n. 185 del registro ordinanze 2013;
che il rimettente, dopo avere riprodotto testualmente la motivazione di tale
ordinanza di rimessione in punto di
rilevanza e di non manifesta infondatezza, conclude affermando che «quanto
sinora esposto legittima ulteriormente a ritenere sussistenti i presupposti per
promuovere dunque, in piena adesione al secondo precedente retro richiamato, incidente di costituzionalità della disposizione
in premessa richiamata anche nell’odierno procedimento»;
che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;
che la difesa dello Stato prospetta deduzioni di contenuto sostanzialmente
analogo a quelle di cui agli atti di intervento nei giudizi iscritti al n. 266
del registro ordinanze 2013 e ai nn. 3 e 21 del
registro ordinanze 2014.
Considerato che la Corte d’appello di
Reggio Calabria, sezione civile, nelle persone dei giudici designati al fine di
provvedere su domande di equa riparazione per violazione del termine
ragionevole del processo proposte da soggetti che erano risultati soccombenti
nei rispettivi processi presupposti, con quattro ordinanze di analogo
contenuto, dubita, in riferimento all’art. 117, primo comma,
della Costituzione, della legittimità dell’art. 2-bis, comma 3, della legge 24 marzo 2001,
n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine
ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura
civile) – a norma del quale: «La misura dell’indennizzo, anche in deroga al
comma 1 [che, a sua volta, stabilisce che: «Il giudice liquida a titolo di equa
riparazione una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a
1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che
eccede il termine ragionevole di durata del processo»], non può in ogni caso
essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto
accertato dal giudice» − nella parte in cui, col disporre che la misura
dell’indennizzo liquidabile a titolo di equa riparazione «non può in ogni caso
essere superiore […] al valore del diritto accertato dal giudice» (se inferiore
al valore della causa), comporterebbe «l’impossibilità di liquidare in alcuna
misura un’equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto,
sia risultata interamente soccombente»;
che, secondo i rimettenti, la disposizione denunciata, così intesa, víola l’art. 117, primo comma,
Cost., perché si pone in contrasto, in particolare, con l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (di séguito, «CEDU» o «Convenzione»),
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4
agosto 1955, n. 848, il quale, nell’interpretazione che ne ha dato la Corte
europea dei diritti dell’uomo, prevede che l’equa soddisfazione (art. 41 della
CEDU) per la lesione del diritto − da esso garantito − alla durata
ragionevole del processo spetta a tutte le parti di questo, indipendentemente
dal suo esito, e, in specie, anche alla parte che sia risultata
soccombente;
che, in considerazione dell’identità delle questioni proposte con le quattro
ordinanze di rimessione, i giudizi di legittimità costituzionale possono essere
riuniti e decisi con un’unica pronuncia;
che, preliminarmente, devono essere disattese le eccezioni di
inammissibilità della sollevata questione prospettate dall’Avvocatura generale
dello Stato;
che va anzitutto rigettata l’eccezione, formulata dalla difesa statale, di
inammissibilità della sollevata questione in quanto diretta ad ottenere
un’indicazione interpretativa sul significato da attribuire al limite
dell’indennizzo costituito dal «valore […] del diritto accertato dal giudice»,
ciò che configurerebbe l’incidente di costituzionalità come un improprio
tentativo di conseguire da questa Corte un avallo interpretativo;
che, infatti, la questione sollevata non mira a ottenere l’avallo di questa
Corte all’interpretazione del comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001 che, tra le varie possibili, i
rimettenti ritengono preferibile, ma consiste, piuttosto, nella denuncia del
contrasto tra l’unico significato normativo che i giudici a quibus reputano attribuibile a detta
disposizione − quello secondo cui essa comporterebbe l’impossibilità di
liquidare un indennizzo a titolo di equa riparazione della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo in favore
di chi sia risultato, nello stesso, soccombente − e il parametro
costituzionale invocato;
che deve pure essere respinta l’eccezione, formulata dalla difesa statale,
di inammissibilità della questione sollevata perché i rimettenti avrebbero
omesso di verificare la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente
orientata della disposizione censurata, non avendo, in particolare, «neppure
ipotizzato» la possibilità «di liquidare [alla parte totalmente soccombente nel
processo presupposto] un importo compreso nella forbice predeterminata dalla
legge (500/1.500 euro per ciascun anno di ritardo)» al comma 1 dell’art. 2-bis;
che, infatti, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa erariale, i
giudici rimettenti hanno verificato la possibilità di un’interpretazione
costituzionalmente orientata della disposizione denunciata, ritenendola, però,
impraticabile alla luce del tenore letterale della stessa che, a loro avviso,
impedirebbe di attribuirle un significato diverso da quello sospettato di
illegittimità («ogni pur dovuto tentativo in tale direzione
[dell’interpretazione costituzionalmente adeguata] è destinato a scontrarsi con
l’insuperabile dato testuale della norma, che impedisce di liquidare un
indennizzo in misura superiore al "valore del diritto accertato”»);
che deve infine essere respinta anche l’ulteriore eccezione, sempre
formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, di inammissibilità della
questione sollevata in quanto i rimettenti, nel lamentare che il limite del
valore del diritto accertato dal giudice, comportando che nessun indennizzo
possa essere liquidato al soccombente nel processo presupposto, si pone in contrasto
con l’art. 117, primo comma, Cost., avrebbero
trascurato di considerare che, in caso di rimozione di detto limite, allo
stesso soccombente nel processo presupposto verrebbe riservato un trattamento
più favorevole di quello spettante a chi, nello stesso processo, sia risultato,
sia pure parzialmente, vittorioso (nel senso che il diritto da lui fatto valere
in giudizio è stato affermato, almeno in parte, esistente), atteso che, solo
nei confronti di quest’ultimo, continuerebbe a trovare applicazione il limite
del valore del diritto accertato dal giudice, con conseguente violazione
dell’art. 3 Cost.;
che, infatti, la diversità di trattamento che, nel caso di accoglimento
della questione sollevata, si verrebbe a determinare tra il soccombente nel
processo presupposto, al quale diverrebbe applicabile il solo, più favorevole,
limite del valore della causa e il parzialmente vittorioso nello stesso
processo, al quale continuerebbe ad applicarsi il meno favorevole limite del
valore del diritto accertato dal giudice, può fare sorgere un dubbio in ordine
alla ragionevolezza di tale diversità e all’eventuale conseguente contrasto con
l’art. 3 Cost. che, tuttavia, di per sé solo, non è suscettibile di precludere
l’esame del merito della questione sollevata e
l’eventuale rimozione, in accoglimento della stessa, del vulnus all’art. 117, primo comma, Cost.,
denunciato dai rimettenti;
che, nel merito, la questione sollevata deve essere dichiarata
manifestamente infondata;
che, infatti, questa Corte, con l’ordinanza n. 124
del 2014, ha già dichiarato la manifesta infondatezza di un’identica
questione di legittimità costituzionale −
sollevata, con ulteriori otto ordinanze, dalla medesima Corte d’appello di
Reggio Calabria − sul
rilievo dell’erroneità del presupposto interpretativo assunto a fondamento
della stessa, atteso che il comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui prevede che la
misura dell’indennizzo liquidabile a titolo di equa riparazione «non può in
ogni caso essere superiore […] al valore del diritto accertato dal giudice»,
deve essere inteso nel senso che si riferisce ai soli casi in cui questi
accerti l’esistenza del diritto fatto valere in giudizio dall’attore, il cui
valore accertato «costituisce un dato oggettivo, che non muta in ragione della
posizione che la parte che chiede l’indennizzo aveva nel processo presupposto»,
con la conseguenza che detta censurata disposizione, contrariamente a quanto
ritenuto dai rimettenti, non comporta l’impossibilità di liquidare un
indennizzo a titolo di equa riparazione della violazione del
diritto alla ragionevole durata del processo, in favore di chi, attore o
convenuto, sia risultato, nello stesso, soccombente;
che, al riguardo, i rimettenti non hanno prospettato,
nel merito, profili o argomentazioni diversi rispetto a quelli già esaminati da
questa Corte con la citata ordinanza o comunque idonei ad indurre ad una
differente pronuncia sulla sollevata questione di legittimità costituzionale;
che resta estranea all’oggetto del presente giudizio
ogni valutazione in ordine alla legittimità del limite del valore del diritto
accertato dal giudice con riguardo all’applicazione dello stesso nel caso in
cui tale diritto sia stato accertato in parte esistente.
Visti gli artt. 26, secondo
comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale
dell’art. 2-bis, comma 3, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa
riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e
modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), sollevata, in
riferimento all’art. 117, primo comma, della
Costituzione, dalla Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione civile, con le
ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede
della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il
9 luglio 2014.
F.to:
Sabino CASSESE, Presidente
Sergio MATTARELLA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 16 luglio 2014.