Sentenza n. 322 del 2011

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SENTENZA N. 322

ANNO 2011

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-           Alfonso                       QUARANTA                                          Presidente

-           Franco                         GALLO                                                     Giudice

-           Gaetano                       SILVESTRI                                                     "

-           Sabino                         CASSESE                                                        "

-           Giuseppe                     TESAURO                                                       "

-           Paolo Maria                 NAPOLITANO                                               "

-           Giuseppe                     FRIGO                                                             "

-           Alessandro                  CRISCUOLO                                                   "

-           Paolo                           GROSSI                                                           "

-           Giorgio                        LATTANZI                                                      "

-           Aldo                            CAROSI                                                           "

-           Marta                           CARTABIA                                                     "

-           Sergio                          MATTARELLA                                              "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 245 del codice civile, promosso dal Tribunale ordinario di Catania nel procedimento vertente tra P.O. e P.M.A. ed altra con ordinanza del 5 aprile 2011, iscritta al n. 154 del registro ordinanze 2011 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 29, prima serie speciale, dell’anno 2011.

Udito nella camera di consiglio del 9 novembre 2011 il Giudice relatore Paolo Grossi.

Ritenuto in fatto

1. – Nel corso di un giudizio civile – instaurato, con atto di citazione notificato il 29 aprile 2009, da un soggetto interdetto (in persona del tutore pro-tempore), per ottenere il disconoscimento della paternità del figlio, minore d’età al momento della domanda – il Tribunale ordinario di Catania, con ordinanza emessa il 5 aprile 2011, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 245 del codice civile, nella parte in cui non prevede che la decorrenza del termine annuale di proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità sia sospeso, non solo quando la parte interessata si trovi in stato di interdizione per infermità mentale, ma anche quando questa si trovi in stato di incapacità naturale.

            1.1 – Il rimettente premette, in fatto, che (precedentemente alla proposizione del giudizio a quo) il medesimo Tribunale aveva dichiarato l’interdizione dell’attore, con sentenza del 30 gennaio 2004, e, quindi, con sentenza del 6 luglio 2007, la nullità per infermità mentale del matrimonio, contratto in data 15 dicembre 1990 con la convenuta, dal quale il 19 febbraio 1992 era nato il figlio minore.

Il Tribunale rappresenta, quindi, che – a fronte della affermazione, posta a fondamento della domanda, secondo cui il convenuto non poteva essere figlio dell’interdetto, per mancata coabitazione dei coniugi nel periodo compreso tra il trecentesimo ed il centottantesimo giorno prima della nascita, per impotenza del marito durante il tempo suddetto e per esistenza di una relazione extraconiugale della moglie – parte convenuta ha eccepito pregiudizialmente l’intervenuta decadenza dall’azione di disconoscimento ai sensi dell’art. 244 cod. civ. atteso che, fino alla pronuncia della sentenza di interdizione, l’attore era pienamente capace di agire giuridicamente.

            Il rimettente – osservato che, dagli accertamenti effettuati e dalle conclusioni rassegnate dai consulenti tecnici nel corso dei due giudizi di interdizione e di nullità del matrimonio, emerge («senza che nessuna effettiva contestazione» sia stata mossa dalle parti convenute sull’esistenza di tale incapacità) che l’attore è «soggetto che sin dalla nascita ha manifestato un ritardo mentale di tale gravità da renderlo incapace non solo di provvedere materialmente ai propri interessi, ma altresì di esprimere giudizi […] possedere capacità di critica tali da autodeterminarsi [...] e, dunque formarsi una autonoma volontà e consapevolezza degli eventi esterni e, in sintesi, radicalmente privo della capacità di intendere e di volere» – rileva che la norma censurata (insuscettibile di applicazione analogica) fa specifico richiamo allo «stato di interdizione per infermità di mente» e si riferisce unicamente alle ipotesi in cui il soggetto interessato sia giuridicamente incapace per effetto della conclusione del procedimento di interdizione; e pertanto pone l’incapace naturale nella medesima condizione del soggetto pienamente capace di intendere e di volere e di acquisire conseguentemente piena consapevolezza dei fatti che fondano l’azione (a differenza di quanto avviene per il compimento di atti e negozi giuridici, ex art. 428 cod. civ.).

            1.2 – Affermata la rilevanza della questione nel giudizio a quo (giacché, non operando nella specie la sospensione di cui alla norma censurata, non potrebbe che dichiararsi l’attore decaduto dall’azione), il rimettente ne deduce, in primo luogo il contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto essa irragionevolmente sottopone alla medesima disciplina due soggetti (quello pienamente capace di intendere e di volere e quello incapace naturalmente al momento in cui è sorto lo status) che si trovano in una condizione di fatto e giuridica del tutto diversa.

            In secondo luogo, il Tribunale ritiene che la norma, alla luce della evoluzione della giurisprudenza costituzionale riferita alla individuazione del momento di decorrenza del termine in esame nelle ipotesi in cui a promuovere l’azione sia il padre, contrasti con l’art. 24 Cost., avendo questa Corte sottolineato che il diritto di azione e i principi costituzionali che presiedono alla tutela giurisdizionale dei diritti vengono irrimediabilmente lesi «quando si consente che il termine per il suo esercizio possa decorrere indipendentemente dalla conoscenza dei presupposti e degli elementi costitutivi da cui sorge il diritto stesso» (sentenza n. 170 del 1999, richiamata insieme alla sentenza n. 134 del 1985).

Il rimettente rileva dunque che la disposizione impugnata di fatto impedisce al soggetto titolare di un’azione personalissima, che si trovi nella condizione, anche temporanea, di non potere avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell’azione, di poterla validamente esperire, senza che tale sostanziale privazione del diritto di agire possa essere giustificata da un preminente diverso interesse quale il favor legitimitatis; laddove anzi la verità biologica della procreazione è stata ritenuta (nelle sentenze n. 216 e n. 112 del 1997) una componente essenziale dell’interesse del medesimo minore, essendo stata riconosciuta espressamente l’esigenza di garantire al figlio il diritto alla propria identità e precisamente all’affermazione di un rapporto di filiazione veridico rispetto al quale può recedere l’intangibilità dello status, allorché esso risulti privato del fondamento della presunta corrispondenza alla verità biologica e quando risulti tempestivamente azionato il diritto.

Né varrebbe obiettare, per il giudice a quo, che l’estensione della sospensione di cui all’art. 245 cod. civ. comporterebbe, di fatto, l’inoperatività del termine, poiché tale effetto è possibile pur nell’ipotesi di soggetto che si trovi in stato di interdizione, atteso che il tutore può, e non deve, promuovere l’azione di disconoscimento dopo che sia intervenuta la sua nomina.

Considerato in diritto

            1. – Il Tribunale ordinario di Catania censura l’articolo 245 del codice civile, nella parte in cui non prevede che la decorrenza del termine annuale di proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità sia sospeso, non solo quando la parte interessata si trovi in stato di interdizione per infermità di mente, ma anche quando questa si trovi in stato di incapacità naturale.

            Il rimettente – premesso che (precedentemente alla proposizione del giudizio a quo) l’attore era stato dichiarato interdetto con sentenza del 30 gennaio 2004, e che, con successiva sentenza del 6 luglio 2007, era stata altresì dichiarata la nullità, per infermità mentale, del matrimonio contratto con la convenuta in data 15 dicembre 1990, da cui, il 19 febbraio 1992, era nato il figlio – osserva che, dagli accertamenti effettuati e dalle conclusioni rassegnate dai consulenti tecnici nel corso di predetti giudizi, l’attore è «soggetto che sin dalla nascita ha manifestato un ritardo mentale di tale gravità da renderlo incapace non solo di provvedere materialmente ai propri interessi, ma altresì di esprimere giudizi […] possedere capacità di critica tali da autodeterminarsi [...] e, dunque formarsi una autonoma volontà e consapevolezza degli eventi esterni e, in sintesi, radicalmente privo della capacità di intendere e di volere».

Il Tribunale denuncia, quindi, il contrasto della norma, in primo luogo, con l’art. 3 della Costituzione, in quanto sottopone irragionevolmente alla medesima disciplina due soggetti (quello pienamente capace di intendere e di volere e quello incapace naturalmente al momento in cui è sorto lo status) che si trovano in una condizione di fatto e giuridica del tutto diversa. E, in secondo luogo, con l’art. 24 Cost., poiché – avendo questa Corte sottolineato (nelle sentenze n. 170 del 1999 e n. 134 del 1985) che il diritto di azione e i principi costituzionali che presiedono alla tutela giurisdizionale dei diritti vengono irrimediabilmente lesi «quando si consente che il termine per il suo esercizio possa decorrere indipendentemente dalla conoscenza dei presupposti e degli elementi costitutivi da cui sorge il diritto stesso» – impedisce al soggetto titolare di un’azione personalissima che si trovi nella condizione, anche temporanea, di non potere avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell’azione, di poterla validamente esperire, senza che tale sostanziale privazione del diritto di agire possa essere giustificata da un preminente diverso interesse quale il favor legitimitatis.

            2. – La questione è fondata.

            2.1. – L’art. 245 cod. civ. stabilisce che «Se la parte interessata a promuovere l’azione di disconoscimento della paternità si trova in stato di interdizione per infermità di mente, la decorrenza del termine indicato nell’articolo precedente è sospesa, nei suoi confronti, sino a che dura lo stato di interdizione. L’azione può tuttavia essere promossa dal tutore».

La disposizione si colloca nel contesto del sistema che regolamenta i termini di proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità del figlio concepito durante il matrimonio ex art. 244 cod. civ., nei casi indicati dal primo comma del precedente art. 235. In particolare, essa predispone una peculiare garanzia di conservazione del diritto di azione in capo a colui il quale sia stato dichiarato interdetto per infermità di mente, in ragione del fatto che il soggetto si trova nella impossibilità, per la accertata incapacità di provvedere ai propri interessi, di proporre consapevolmente (conoscendone i presupposti e rappresentandosene coscientemente gli effetti) la propria domanda giudiziale che trae origine dalla scelta di far valere un diritto personalissimo.

            2.2. – Il rimedio della sospensione dei termini previsto dalla norma censurata riposa, d’altronde, sulla medesima ratio che ha condotto questa Corte a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 244, secondo comma, cod. civ., dapprima, «nella parte in cui non dispone, per il caso previsto dal numero 3 dell’art. 235 dello stesso codice, che il termine dell’azione di disconoscimento decorra dal giorno in cui il marito sia venuto a conoscenza dell’adulterio della moglie» (sentenza n. 134 del 1985), e, successivamente, «nella parte in cui non prevede che il termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità, nell’ipotesi di impotenza solo di generare, contemplata dal numero 2) dell’art. 235 cod. civ. decorra per il marito dal giorno in cui esso sia venuto a conoscenza della propria impotenza di generare» (sentenza n. 170 del 1999); nonché, in applicazione dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, del primo comma dello stesso art. 244 cod. civ. «nella parte in cui non prevede che il termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità, nell’ipotesi di impotenza solo di generare di cui al numero 2) dell’art. 235 cod. civ., decorra per la moglie dal giorno in cui essa sia venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito» (sentenza n. 170 del 1999, cit.).

Tali pronunce si fondano sulla duplice affermazione della irragionevolezza della previsione di una preclusione dell’esercizio dell’azione di disconoscimento al soggetto che non sia a conoscenza di un elemento costitutivo dell’azione medesima; e della irrimediabile lesione del diritto di azione che si verifica allorquando si consenta che il termine per il suo esercizio possa decorrere indipendentemente dalla conoscenza dei presupposti e degli elementi costitutivi da cui sorge il diritto stesso.

2.3. – Orbene, risulta palese come una identica esigenza di dare effettività a tale garanzia (affermata da questa Corte con riguardo ai termini di cui all’art. 244 cod. civ.) sia teleologicamente sottesa anche alla scelta legislativa, tradotta nella disposizione oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità, di sospendere sine die la decorrenza del termine di proposizione dell’azione de qua nel caso in cui la parte interessata a promuovere l’azione di disconoscimento della paternità si trovi in stato di interdizione per infermità di mente, e quindi nella situazione di non potere avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell’azione e di poterla validamente esperire. Ma ciò porta ad affermare che la tutela approntata dalla norma censurata dipende, non già dalla formale perdita della capacità di agire del soggetto quale conseguenza della dichiarazione di interdizione, bensì dall’accertamento della sussistenza in concreto di una gravemente menomata condizione intellettiva e volitiva del medesimo, in presenza dei presupposti di cui all’art. 414 cod. civ.

Poiché, però, la inequivoca previsione di cui all’art. 245 cod. civ. non consente di estenderne interpretativamente la operatività anche rispetto ad un soggetto formalmente capace, l’esclusione della praticabilità della omologa garanzia nei confronti di chi, sebbene non interdetto, si trovi (come nella specie) in eguali condizioni di abituale infermità di mente che lo rende incapace di provvedere ai propri interessi, determina la lesione di entrambi gli evocati parametri (artt. 3 e 24 Cost.). Ciò, a causa sia della irragionevole equiparazione del soggetto capace a quello di fatto incapace, ovvero (specularmente) dell’irragionevole diversità di trattamento riservata a soggetti che versino in un’identica situazione di abituale grave infermità di mente, che preclude in entrambi i casi la conoscenza dei fatti costitutivi dell’azione in esame; sia della contestuale lesione del diritto di azione – e del correlato principio di tendenziale corrispondenza, in materia di status, tra certezza formale e verità naturale (sentenze n. 216 e n. 112 del 1997) – impedito al titolare di un’azione personalissima che si trovi nella condizione di non avere conoscenza e consapevolezza del fatto costitutivo dell’azione e quindi nella impossibilità di esperirla validamente e tempestivamente.

Pertanto, l’art. 245 cod. civ. deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la decorrenza del termine indicato nell’art. 244 cod. civ. è sospesa anche nei confronti del soggetto che, sebbene non interdetto, versi in condizione di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, sino a che duri lo stato di incapacità naturale.

2.4. – Ovviamente, rispetto alla esigenza di individuare se, quando e per quanto tempo il soggetto non abbia avuto coscienza dei fatti in presenza dei quali sorge il suo potere di agire, va precisato che – seppure la previsione di cui alla norma in esame è connotata, sul piano probatorio, da una presunzione ex lege di mancata conoscenza (da intendersi quale assenza di consapevolezza dei relativi presupposti e cause, nonché di rappresentazione cosciente delle conseguenze) dei presupposti costitutivi dell’azione in esame da parte dei soggetti che siano stati dichiarati interdetti e finché dura lo stato di interdizione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 429 e 431 cod. civ. – l’estensione della garanzia della sospensione varrà evidentemente solo per quegli incapaci naturali rispetto ai quali (non già sulla base di una presunzione, bensì in ragione delle prove offerte, acquisite e valutate dal giudice) sia stato accertato che versino in uno stato di grave abituale infermità mentale, ossia che sussistano quei medesimi presupposti richiesti dall’art. 414 cod. civ. per la dichiarazione di interdizione, e fino a quando sia stato ugualmente provato (ove nel frattempo non si sia pervenuti autonomamente ad una dichiarazione di interdizione) il venir meno dello stato di incapacità. La qual cosa comporta che, come d’altronde previsto per l’interdetto, anche per l’incapace naturale – che non può, ovviamente, avvalersi dell’azione del tutore – varrà la medesima regola della corrispondenza della durata della sospensione della decorrenza del termine alla situazione di effettiva incapacità del soggetto che ne beneficia.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 245 del codice civile, nella parte in cui non prevede che la decorrenza del termine indicato nell’art. 244 cod. civ. è sospesa anche nei confronti del soggetto che, sebbene non interdetto, versi in condizione di abituale grave infermità di mente, che lo renda incapace di provvedere ai propri interessi, sino a che duri tale stato di incapacità naturale.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 novembre 2011.

F.to:

Alfonso QUARANTA, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 novembre 2011.