SENTENZA N. 274
ANNO 2010
Commento alla decisione di
Gianguido D’Alberto
per g.c. della Rivista AIC
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA ”
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Maria Rita SAULLE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO ”
- Alessandro CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi per conflitti di attribuzione tra enti sorti a seguito del decreto del Ministro dell’interno dell’8 agosto 2009, recante: «Determinazione degli ambiti operativi delle associazioni di osservatori volontari, requisiti per l’iscrizione nell’elenco prefettizio e modalità di tenuta dei relativi elenchi, di cui ai commi da 40 a 44 dell’articolo 3 della legge 15 luglio 2009, n. 94», promossi dalle Regioni Toscana ed Emilia-Romagna con ricorsi notificati il 5 ed il 7 ottobre 2009, depositati in cancelleria l’8 ed il 13 ottobre 2009 ed iscritti ai nn. 10 e 11 del registro conflitti tra enti 2009.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 7 luglio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;
uditi gli avvocati Lucia Bora per la Regione Toscana, Giandomenico Falcon per la Regione Emilia-Romagna e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – Con ricorso notificato il 5 ottobre 2009 e depositato il successivo 8 ottobre (reg. confl. enti n. 10 del 2009), la Regione Toscana ha proposto conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione al decreto del Ministro dell’interno 8 agosto 2009, pubblicato nella Gazzetta ufficiale della Repubblica, serie generale, n. 183 dell’8 agosto 2009, recante «Determinazione degli ambiti operativi delle associazioni di osservatori volontari, requisiti per l’iscrizione nell’elenco prefettizio e modalità di tenuta dei relativi elenchi, di cui ai commi da 40 a 44 dell’articolo 3 della legge 15 luglio 2009, n. 94», prospettando la violazione dell’art. 117, commi secondo, lettera h), quarto e sesto, della Costituzione e del principio di leale collaborazione.
La ricorrente espone che con il decreto impugnato è stata data attuazione ai commi da 40 a 44 dell’art. 3 della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), i quali consentono ai sindaci di avvalersi della collaborazione di associazioni di cittadini ai fini della segnalazione alle Forze di polizia dello Stato o locali di eventi pericolosi per la sicurezza urbana ovvero di situazioni di disagio sociale. La ricorrente deduce, altresì, di avere già proposto questione di legittimità costituzionale in via principale nei confronti delle disposizioni di cui ai commi 40, 41, 42 e 43 del citato 3, per contrasto con i medesimi parametri dianzi indicati.
Come rilevato in tale sede, dette disposizioni non potrebbero essere infatti inquadrate nella materia «ordine pubblico e sicurezza», nella quale lo Stato ha competenza legislativa esclusiva (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.): materia da intendere, per consolidata giurisprudenza costituzionale, in senso restrittivo, e cioè come comprensiva dei soli interventi finalizzati alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso, quest’ultimo, quale complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui cui si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale.
In assenza di ogni indicazione limitativa in tale direzione, il concetto di «sicurezza urbana» abbraccerebbe, infatti, anche misure volte a contrastare il degrado delle città e a favorire l’ordinato sviluppo delle relazioni socio-economiche, riconducibili alla materia «polizia amministrativa locale», di competenza regionale esclusiva (art. 117, comma secondo, lettera h, e quarto, Cost.). A sua volta, l’espressione «disagio sociale» comprenderebbe situazioni di difficoltà di integrazione dell’individuo nel tessuto sociale derivanti dalle più varie cause, evocative, come tali, di interventi rientranti nella materia «politiche sociali», anch’essa di competenza regionale residuale: competenza che la ricorrente ha, in effetti, esercitato con la legge regionale 24 febbraio 2005, n. 41 (Sistema integrato di interventi e servizi per la tutela dei diritti di cittadinanza sociale), il cui art. 58 prevede specificamente l’adozione di «politiche per le persone a rischio di esclusione sociale».
Tali considerazioni varrebbero anche in rapporto al decreto ministeriale attuativo su cui si fonda l’odierno conflitto. I suoi primi sette articoli devolvono, infatti, al prefetto – cioè ad un rappresentante territoriale del Governo – senza alcun coinvolgimento delle Regioni, tutte le funzioni e le competenze: in specie, la tenuta dell’elenco delle associazioni di osservatori (art. 1), la definizione del contenuto delle convenzioni che i sindaci possono stipulare con le associazioni stesse (art. 4, comma 2), la revoca delle iscrizioni (art. 6) e la revisione degli elenchi (art. 7); realizzando, con ciò, una inammissibile intromissione nelle attribuzioni regionali in materia di «polizia amministrativa locale» e di «politiche sociali». Meramente eventuale e del tutto marginale sarebbe, d’altronde, la forma di partecipazione delle Regioni prefigurata dall’art. 8 del decreto, concernente l’organizzazione di corsi di formazione e di aggiornamento per gli osservatori volontari.
Risulterebbe violato, di conseguenza, anche l’art. 117, sesto comma, Cost., in forza del quale lo Stato può esercitare la potestà regolamentare solo nelle materie di sua competenza legislativa esclusiva: violazione tanto più evidente ove si consideri che la ricorrente ha già disciplinato la materia con la legge regionale 3 aprile 2006, n. 12 (Norme in materia di polizia comunale e provinciale), il cui art. 7 prevede specificamente che i comuni e le province possano stipulare convenzioni con le associazioni di volontariato iscritte nel registro regionale, «per realizzare collaborazioni tra queste ultime e le strutture di polizia locale rivolte a favorire l’educazione alla convivenza, al senso civico e al rispetto della legalità».
Particolarmente lesiva, per questo verso, risulterebbe la norma transitoria di cui all’art. 9 del decreto impugnato, la quale – incidendo sulla citata disciplina regionale – consente alle associazioni che già collaboravano con le autorità locali di continuare ad esercitare l’attività solo per un limitato periodo di tempo, dovendo indi uniformarsi a quanto stabilito dal decreto censurato e, dunque, passare sotto la vigilanza del prefetto.
Da ultimo, l’atto impugnato risulterebbe lesivo del principio di leale collaborazione, giacché, disciplinando ambiti di competenza regionale, avrebbe dovuto prevedere quantomeno l’intesa con le Regioni interessate o, comunque, adeguate forme di concertazione con queste ultime.
Per le ragioni esposte, la ricorrente chiede che la Corte dichiari che il decreto ministeriale censurato è lesivo delle attribuzioni regionali e, per l’effetto, lo annulli.
2. – Avverso il medesimo decreto ministeriale ha proposto conflitto di attribuzione anche la Regione Emilia-Romagna con ricorso notificato il 7 ottobre 2009 e depositato il successivo 13 ottobre (reg. confl. enti n. 11 del 2009), denunciando la violazione degli artt. 117, secondo, quarto e sesto comma, e 118 Cost., nonché del principio di leale collaborazione.
Premesso di avere anch’essa proposto questione di legittimità costituzionale in via principale nei confronti delle norme legislative statali attuate dal decreto impugnato, la ricorrente rileva come l’accoglimento di tale questione comporterebbe automaticamente l’illegittimità del decreto attuativo, per lesione delle prerogative costituzionali della Regione: in particolare, per avere disciplinato materie quali la «polizia amministrativa locale», la «sicurezza urbana» (in quanto materia ulteriore rispetto all’«ordine pubblico e sicurezza») e il «disagio sociale», che l’art. 117, secondo e quarto comma, Cost., riserverebbe alla potestà legislativa regionale.
Il decreto impugnato risulterebbe emesso anche in violazione del sesto comma dell’art. 117 Cost., che limita la potestà regolamentare dello Stato alle materie di cui al secondo comma dello stesso articolo.
Passando quindi analiticamente in rassegna i contenuti del decreto, la ricorrente rileva come ne resti avvalorata la conclusione che esso disciplina l’attività dei volontari in relazione ai servizi di polizia amministrativa locale: attività che la Regione Emilia-Romagna ha regolato con la legge 4 dicembre 2003, n. 24 (Disciplina della polizia amministrativa locale e promozione di un sistema integrato di sicurezza).
Rimarchevole sarebbe la circostanza che, malgrado ciò, non venga riconosciuto alcun ruolo alle Regioni, fatta eccezione per quanto previsto dall’art. 8, in tema di organizzazione di corsi di formazione e aggiornamento per gli osservatori volontari: disposizione da considerare, peraltro, anch’essa illegittima, non spettando al regolamento statale prevedere e disciplinare l’attività regionale di formazione.
Anche la Regione Emilia-Romagna ravvisa, d’altro canto, nella disposizione transitoria dell’art. 9 – concernente le associazioni che già svolgevano attività di volontariato «comunque riconducibili» alle previsioni dell’art. 3, comma 40, della legge n. 94 del 2009 – una palese interferenza con la disciplina regionale già in vigore, dettata, nella specie, dalla citata legge n. 24 del 2003.
La ricorrente assume, inoltre, che talune disposizioni del decreto, tra cui quelle da ultimo indicate, andrebbero oltre la stessa previsione dell’art. 3, comma 43, della legge n. 94 del 2009, secondo la quale il Ministro dell’interno era chiamato solo a determinare gli ambiti operativi delle associazioni di osservatori volontari, i requisiti per la loro iscrizione negli appositi elenchi e le modalità di tenuta di questi. Per tale parte, l’atto impugnato sarebbe dunque illegittimo in via autonoma, e non già come conseguenza dell’incostituzionalità delle norme legislative attuate.
In via subordinata, e per l’ipotesi in cui si ritenesse sussistente una esigenza di disciplina unitaria delle attività di volontariato in relazione alle materie «ordine pubblico e sicurezza» e «polizia amministrativa locale», la Regione Emilia-Romagna lamenta che, in violazione del principio di leale collaborazione, il decreto impugnato sia stato emanato senza la previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, ovvero, in via di ulteriore subordine, senza avere sentito tale Conferenza (o la Conferenza unificata), rimarcando come la previsione di «forme di coordinamento» con le Regioni nella materia «ordine pubblico e sicurezza» risulti doverosa anche alla luce dello specifico disposto dell’art. 118, terzo comma, Cost.
Alla luce di tali considerazioni, la ricorrente chiede, quindi, che la Corte dichiari che non spettava allo Stato adottare, a mezzo del Ministro dell’interno, l’atto impugnato e, conseguentemente, lo annulli.
3. – Si è costituito, in entrambi i giudizi, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto dei ricorsi.
Ad avviso della difesa dello Stato, l’attività degli osservatori volontari sarebbe, in realtà, integralmente riconducibile alla materia «ordine pubblico e sicurezza»: e ciò quantomeno alla luce del criterio della prevalenza, di cui la giurisprudenza costituzionale ha già fatto specifica applicazione in rapporto a situazioni di astratto concorso con la competenza regionale in materia di «polizia amministrativa locale».
Quanto, infatti, al concetto di «sicurezza urbana», la relativa definizione, offerta dal decreto del Ministro dell’interno 5 agosto 2008, è già passata al vaglio della Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 196 del 2009 – emessa a seguito di un conflitto di attribuzione proposto dalla Provincia autonoma di Bolzano – ha ritenuto che detto decreto concerna esclusivamente la tutela della sicurezza pubblica, intesa come attività di prevenzione e repressione dei reati.
Neppure il riferimento alle «situazioni di disagio sociale» intaccherebbe le competenze regionali, e in particolare quella relativa ai «servizi sociali». Gli osservatori volontari non sarebbero, infatti, chiamati ad erogare tali servizi, ma soltanto a segnalare situazioni critiche riscontrate nel corso del loro operato.
Parimenti infondate risulterebbero le censure di violazione del principio di leale collaborazione. La piena competenza statale in materia renderebbe, infatti, del tutto legittimi i meccanismi configurati dal legislatore per le predisposizione degli elenchi delle associazioni, la disciplina degli iscritti e il controllo sugli stessi. Né potrebbero invocarsi forme di coordinamento ulteriori rispetto a quelle insite nel previsto coinvolgimento, in forma consultiva, del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, alle cui sedute possono essere chiamati a partecipare i responsabili degli enti locali.
4. – Nell’imminenza dell’udienza pubblica, entrambe le Regioni ricorrenti hanno depositato memorie illustrative, volte a contestare le tesi della difesa dello Stato.
Le ricorrenti rilevano, in particolare, come la definizione della «sicurezza urbana» offerta dal decreto ministeriale del 2008 sia stata ritenuta conforme al dettato costituzionale dalla Corte sulla base di specifici argomenti esegetici, non riproponibili in rapporto al decreto oggi impugnato. Né – secondo la Regione Toscana – sarebbe comunque possibile una lettura delle disposizioni censurate che eviti la lesione delle competenze regionali, perché ciò significherebbe affidare a privati cittadini una funzione necessariamente pubblica (quale quella della prevenzione dei reati e del mantenimento dell’ordine pubblico).
Quanto, poi, alle situazioni di «disagio sociale», anche l’attività di mera segnalazione rientrerebbe nella competenza regionale in materia di «politiche sociali», non essendo ipotizzabile che alle Regioni spetti solo il compito di intervenire ex post – quando, cioè, le situazioni di disagio sono già insorte – lasciando allo Stato la determinazione della disciplina applicabile all’attività di prevenzione.
Né, d’altro canto, la competenza statale potrebbe essere affermata sulla base del criterio della prevalenza, giacché, a tacer d’altro, mancherebbe il relativo presupposto di applicabilità, rappresentato dall’identità di ratio delle disposizioni oggetto di censura.
Del tutto inidoneo a soddisfare il principio di leale collaborazione sarebbe, infine, il previsto intervento del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica (circoscritto, peraltro, alla formulazione di un parere circa il possesso, da parte delle associazioni, dei requisiti necessari ai fini dell’iscrizione nell’elenco), anche perché in tale organo possono essere coinvolti i responsabili degli enti locali, ma non anche quelli della Regione interessata.
Considerato in diritto
1. – Le Regioni Toscana ed Emilia-Romagna hanno proposto conflitti di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione al decreto del Ministro dell’interno 8 agosto 2009, recante disposizioni attuative dei commi da 40 a 44 dell’articolo 3 della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), i quali prevedono che i sindaci possano avvalersi, alle condizioni e con le modalità ivi stabilite, della collaborazione di associazioni di cittadini non armati al fine di segnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali «eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale».
Premesso di avere proposto questioni di legittimità in via principale nei confronti delle norme legislative attuate, le ricorrenti deducono che, per le medesime ragioni esposte in quella sede, anche la disciplina recata dal decreto attuativo risulterebbe lesiva delle attribuzioni regionali. Essa esorbiterebbe, infatti, dall’ambito della materia «ordine pubblico e sicurezza», di competenza esclusiva statale (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.): materia da intendere, per consolidata giurisprudenza costituzionale, in senso restrittivo, ossia come comprensiva dei soli interventi finalizzati alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico.
Il concetto di «sicurezza urbana» abbraccerebbe, infatti, anche misure volte a contrastare il degrado delle città e a favorire l’ordinato sviluppo della convivenza civile, riconducibili alla materia «polizia amministrativa locale», di competenza regionale esclusiva, ai sensi dei commi secondo, lettera h), e quarto dell’art. 117 Cost.; mentre la formula «disagio sociale» comprenderebbe situazioni di emarginazione della più varia origine, da fronteggiare con interventi rientranti nella materia «politiche sociali», anch’essa di competenza regionale residuale.
Sarebbe quindi violato anche il sesto comma dell’art. 117 Cost., avendo lo Stato esercitato una potestà regolamentare in materia non di propria competenza legislativa esclusiva: violazione particolarmente apprezzabile in rapporto alla norma transitoria dell’art. 9 del decreto, che impone alle associazioni di volontariato, già operanti in ambiti «comunque riconducibili» a quelli considerati, di uniformarsi – dopo un breve lasso di tempo – alle previsioni del decreto stesso, con conseguente interferenza su rapporti regolati da leggi regionali in vigore.
Le ricorrenti censurano, per altro verso, che il decreto demandi al prefetto ogni competenza – segnatamente in rapporto alla tenuta dell’elenco delle associazioni, alla definizione del contenuto delle convenzioni stipulate con esse dai sindaci, alla revoca delle iscrizioni e alla revisione degli elenchi – senza contemplare alcuna forma di coinvolgimento delle Regioni, fatta eccezione per quella, del tutto marginale, prefigurata all’art. 8, attinente all’organizzazione di corsi di formazione e aggiornamento dei volontari: donde – secondo la Regione Toscana – anche la violazione del principio di leale collaborazione.
In via subordinata, la Regione Emilia-Romagna lamenta – sotto il profilo della violazione del medesimo principio – che il decreto sia stato emanato senza la previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni o, in via di ulteriore subordine, senza avere sentito tale Conferenza (o la Conferenza unificata), rimarcando come la previsione di «forme di coordinamento» con le Regioni nella materia dell’ordine pubblico e sicurezza debba ritenersi doverosa anche alla luce dello specifico disposto dell’art. 118, terzo comma, Cost., che risulterebbe, dunque, esso pure violato.
2. – I ricorsi sollevano conflitti di attribuzione aventi ad oggetto il medesimo atto e basati su censure in larga parte analoghe, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
3. – In via preliminare, va rilevato che, successivamente alla proposizione dei ricorsi, il decreto ministeriale impugnato è stato oggetto di modifica ad opera del decreto del Ministro dell’interno 4 febbraio 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, serie generale, n. 30 del 6 febbraio 2010.
Si è trattato, peraltro, di modifiche marginali (soppressione del divieto, per gli osservatori volontari, di avvalersi di mezzi motorizzati; proroga del termine entro il quale le associazioni già operanti possono continuare l’attività in difetto di iscrizione nell’elenco), manifestamente prive di incidenza sul thema decidendum.
4. – Nel merito, i ricorsi sono parzialmente fondati, secondo quanto di seguito specificato.
4.1. – Nelle more del giudizio, questa Corte si è pronunciata, con la sentenza n. 226 del 2010, sulle questioni di legittimità costituzionale proposte dalle ricorrenti, aventi ad oggetto le norme legislative cui si è proposto di dare attuazione il decreto ministeriale impugnato (art. 3, commi 40, 41, 42 e 43, della legge n. 94 del 2009).
Nell’occasione, la Corte ha preliminarmente rimarcato come la normativa concernente gli osservatori volontari venisse vagliata nella sola prospettiva della verifica della denunciata invasione delle competenze regionali, avuto riguardo, in specie, alla spettanza del potere di stabilire le condizioni alle quali i Comuni possono avvalersi della collaborazione di associazioni di privati per il controllo del territorio; mentre restava affatto estraneo allo scrutinio – e dunque impregiudicato, ai sensi dell’art. 18, primo comma, Cost. – il diritto di associazione dei cittadini ai fini dello svolgimento dell’attività di segnalazione descritta dalle disposizioni censurate. Questo rilievo vale evidentemente anche con riferimento al giudizio odierno.
Ciò premesso, si è osservato, nella citata sentenza n. 226 del 2010, come il problema nodale posto dai quesiti di costituzionalità attenesse alla valenza delle formule «sicurezza urbana» e «situazioni di disagio sociale», impiegate nel comma 40 dell’art. 3 per identificare i compiti di segnalazione degli osservatori volontari, e segnatamente alla loro riconducibilità o meno alla materia, di competenza statale esclusiva, «ordine pubblico e sicurezza» (all’art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.): materia che – in contrapposizione alla «polizia amministrativa locale», da essa espressamente esclusa – va intesa restrittivamente, ossia come relativa alle sole misure inerenti alla prevenzione dei reati e alla tutela dei primari interessi pubblici sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza della comunità nazionale (ex plurimis, sentenze n. 129 del 2009, n. 237 e 222 del 2006, n. 383 e n. 95 del 2005, n. 428 del 204).
All’interrogativo si è data una risposta differenziata.
Quanto al concetto di «sicurezza urbana», il dettato della norma impugnata è stato ritenuto non in contrasto con il riparto costituzionale delle competenze. Si è reputata difatti valevole, al riguardo, la conclusione già raggiunta in rapporto al decreto del Ministro dell’interno 5 agosto 2008, recante la definizione del suddetto concetto agli effetti del potere di ordinanza dei sindaci di cui all’art. 54, comma 4, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali): e, cioè, che esso ha ad oggetto esclusivamente la tutela della sicurezza pubblica, intesa come attività di prevenzione e repressione dei reati (sentenza n. 196 del 2009). La titolazione della legge n. 94 del 2009 (che richiama anch’essa la «sicurezza pubblica»); il collegamento sistematico tra la norma impugnata e il citato art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000; i richiami a tale articolo e al decreto ministeriale del 2008 contenuti del decreto attuativo oggi impugnato; la complessiva disciplina dettata dai commi 40-43 dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009 (coerente con una lettura del concetto di «sicurezza pubblica» evocativa dei soli interventi di prevenzione e repressione delle attività criminose) sono tutti elementi che convergono nella direzione dianzi indicata.
Si è negata, inoltre, validità alla tesi della ricorrente Regione Toscana – oggi riproposta – secondo cui detta conclusione comporterebbe un inammissibile affidamento a privati di una funzione pubblica, quale appunto quella di prevenzione dei reati. A tale tesi va, infatti, obiettato che i volontari svolgono attività di mera osservazione e segnalazione e che qualsiasi privato cittadino può denunciare i reati, perseguibili d’ufficio, di cui venga a conoscenza (art. 333 del codice di procedura penale) e finanche procedere all’arresto in flagranza (art. 383 cod. proc. pen.); mentre lo stesso art. 24 della legge 1° aprile 1981, n. 181 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza»), nel descrivere i compiti istituzionali della Polizia di Stato, prevede che essa debba sollecitare la collaborazione dei cittadini.
Il riferimento alternativo al «disagio sociale» non è stato, per converso, reputato suscettibile di una lettura costituzionalmente conforme, in base alla quale detta formula evocherebbe le sole situazioni implicanti un concreto pericolo di commissione di fatti penalmente illeciti: trattandosi di lettura che – in contrasto con l’impiego da parte del legislatore della disgiuntiva «ovvero» – ricondurrebbe interamente la nozione considerata nel preliminare richiamo agli eventi pericolosi per la sicurezza urbana, rendendola pleonastica. Nella sua genericità, la formula «disagio sociale» si presta dunque ad abbracciare un vasto ambito di ipotesi di emarginazione o di difficoltà di inserimento dell’individuo nel tessuto sociale, derivanti dalle più varie cause (condizioni economiche, di salute, età, rapporti familiari e così via dicendo): situazioni che reclamano interventi ispirati a finalità di politica sociale, riconducibili alla materia dei «servizi sociali», di competenza legislativa regionale residuale. Né a questo fine rileva che gli osservatori si limitino a mere segnalazioni, senza erogare servizi. Il monitoraggio delle «situazioni critiche» rappresenta, infatti, la necessaria premessa conoscitiva degli interventi intesi alla rimozione e al superamento del «disagio sociale»: onde la determinazione delle condizioni e delle modalità con le quali i comuni possono avvalersi, per tale attività, dell’ausilio di privati volontari rientra anch’essa nelle competenze del legislatore regionale.
Da ultimo, si è negato che la competenza statale possa essere affermata sulla base del criterio della prevalenza, mancando il presupposto di applicabilità di tale criterio, rappresentato dall’esistenza di una disciplina che, collocandosi alla confluenza di un insieme di materie, sia espressione di un’esigenza di regolamentazione unitaria. Il riferimento alle «situazioni di disagio sociale» si presenta, infatti, come un elemento «spurio ed eccentrico rispetto alla ratio ispiratrice delle norme impugnate», che finisce «per rendere incongrua la stessa disciplina da esse dettata» (sentenza n. 226 del 2010).
Il comma 40 dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009 è stato dichiarato, di conseguenza, costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 117, quarto comma, Cost., limitatamente alle parole «ovvero situazioni di disagio sociale».
Derivando la lesione del riparto costituzionale delle competenze esclusivamente dalla eccessiva ampiezza della previsione del comma 40, sono state dichiarate non fondate le restanti questioni, concernenti i commi 41, 42 e 43, che, rispettivamente, prevedono l’iscrizione delle associazioni di volontari in apposito elenco tenuto dal prefetto, stabiliscono criteri di scelta tra le stesse e demandano al Ministro dell’interno il compito di determinare, con decreto da adottare entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge, «gli ambiti operativi delle disposizioni di cui ai commi 40 e 41, i requisiti per l’iscrizione nell’elenco e […] le modalità di tenuta dei relativi elenchi» (disposizione, quest’ultima, in base alla quale è stato emanato l’atto qui impugnato).
4.2. – La decisione sugli odierni ricorsi non può evidentemente che orientarsi nella medesima direzione, consistendo le censure di fondo delle Regioni ricorrenti (così come le difese dell’Avvocatura generale dello Stato) in una mera replica delle argomentazioni già svolte in sede di impugnazione in via principale delle norme legislative attuate.
Premesso che l’atto impugnato richiama, quanto al concetto di «sicurezza urbana», la definizione offerta dal d.m. 5 agosto 2008 (art. 1, comma 2), mentre non fornisce alcuna precisazione in ordine alla valenza del concetto alternativo di «disagio sociale», si deve concludere che – per le ragioni già indicate nella citata sentenza n. 226 del 2010 e dianzi ricordate – la tesi delle ricorrenti non è fondata in rapporto alla prima delle due formule, mentre lo è rispetto alla seconda, in quanto comprensiva di interventi riconducibili alla materia «servizi sociali», di competenza legislativa regionale residuale (art. 117, quarto comma, Cost.).
Ne deriva che, per la parte in cui disciplina l’attività di segnalazione di «situazioni di disagio sociale», l’atto impugnato viola anche il sesto comma dell’art. 117 Cost., che circoscrive la potestà regolamentare dello Stato alle sole materie di sua competenza legislativa esclusiva. Il presupposto, non contestato dalla difesa dello Stato, da cui muovono le ricorrenti – e, cioè, che l’atto impugnato, pur non recando formalmente tale denominazione, abbia natura di regolamento – corrisponde, infatti, ai contenuti sostanziali dell’atto, il quale detta norme intese a disciplinare, in via generale e astratta, i requisiti delle associazioni e degli osservatori volontari ad esse appartenenti, il loro ambito di operatività e i procedimenti amministrativi connessi, vincolando con ciò i comportamenti dei diversi soggetti, pubblici e privati, coinvolti nell’attività in questione (lo stesso art. 9 del decreto reca, del resto, la rubrica «norme transitorie»). Eventuali profili di illegittimità dell’atto conseguenti a tale qualificazione, legati segnatamente alla mancata osservanza della procedura di cui all’art. 17, comma 4, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri), esulano dal tema del presente giudizio.
Al fine di eliminare la rilevata lesione delle attribuzioni regionali è sufficiente, peraltro, rimuovere i riferimenti alle «situazioni di disagio sociale» che compaiono nei commi 1 e 2 dell’art. 1 e nel comma 1 dell’art. 2 del decreto impugnato, con riguardo, rispettivamente, all’elenco delle associazioni di osservatori volontari, agli scopi e ai compiti di queste (l’ulteriore riferimento che figura nel quarto capoverso del preambolo ha carattere meramente descrittivo dei contenuti delle norme primarie attuate).
Anche in questo caso, va esclusa la necessità di interventi sulle restanti previsioni del decreto (ivi compresa la norma transitoria di cui all’art. 9, sulla quale in modo particolare si appuntano le censure delle ricorrenti). Una volta circoscritta l’attività degli osservatori volontari alla segnalazione degli eventi pericolosi per la «sicurezza urbana» – e, dunque, in un ambito riconducibile alla prevenzione e repressione dei reati – dette previsioni perdono, infatti, automaticamente ogni carattere invasivo delle competenze regionali.
Il discorso vale anche in rapporto alla lesione del «principio di legalità», denunciata dalla Regione Emilia-Romagna sull’assunto che il decreto ministeriale impugnato, in alcune sue parti, avrebbe travalicato l’ambito di intervento assegnatogli dall’art. 3, comma 43, della legge n. 94 del 2009. Tale ipotizzato profilo di illegittimità dell’atto resta, infatti, irrilevante in questa sede, qualora non ridondi in una lesione delle attribuzioni costituzionali della Regione.
Con riguardo, poi, alle censure formulate in via subordinata dalla medesima Regione Emilia-Romagna, va escluso che l’atto impugnato sia tenuto comunque a prevedere forme di coordinamento con le Regioni, anche qualora l’attività degli osservatori volontari rimanga ristretta nell’ambito dell’«ordine pubblico e sicurezza». Come già rilevato da questa Corte, infatti, l’art. 118, terzo comma, Cost., nel prevedere una riserva di legge statale ai fini della disciplina di forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell’art. 117 Cost. (immigrazione, ordine pubblico e sicurezza), non impegna indefettibilmente lo Stato a prevedere un simile coordinamento ogni qualvolta rechi disposizioni riferibili alle suddette materie (sentenza n. 226 del 2010).
Neppure, da ultimo, richiede una soluzione differenziata la disposizione dell’art. 8 del decreto, attinente all’organizzazione dei corsi di formazione e di aggiornamento, avuto riguardo alla censura della Regione Emilia-Romagna, secondo la quale il regolamento statale non potrebbe comunque prevedere e disciplinare l’attività regionale di formazione. Al riguardo, è sufficiente considerare che l’organizzazione dei suddetti corsi è configurata dalla norma come una mera facoltà delle Regioni e degli enti locali che vi abbiano interesse («Le regioni e gli enti locali interessati possono organizzare corsi di formazione e aggiornamento …»), circostanza che esclude in ogni caso l’attitudine lesiva della previsione.
5. – Va, dunque, dichiarato che non spettava allo Stato e, per esso, al Ministro dell’interno adottare il decreto impugnato, limitatamente alla parte in cui disciplina l’attività di segnalazione di situazioni di disagio sociale.
Il medesimo decreto deve essere conseguentemente annullato in tale parte, secondo quanto in precedenza specificato.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara che non spettava allo Stato e, per esso, al Ministro dell’interno, adottare il decreto 8 agosto 2009, recante «Determinazione degli ambiti operativi delle associazioni di osservatori volontari, requisiti per l’iscrizione nell’elenco prefettizio e modalità di tenuta dei relativi elenchi, di cui ai commi da 40 a 44 dell’articolo 3 della legge 15 luglio 2009, n. 94», nella parte in cui disciplina l’attività di segnalazione di situazioni di disagio sociale;
annulla, per l’effetto, l’art. 1, comma 1, limitatamente alle parole «ovvero situazioni di disagio sociale», l’art. 1, comma 2, limitatamente alle parole «ovvero del disagio sociale,» e l’art. 2, comma 1, limitatamente alle parole «, ovvero situazioni di disagio sociale», del citato decreto del Ministro dell’interno 8 agosto 2009.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il il 7 luglio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2010.