ORDINANZA N. 25
ANNO 2010
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale del primo periodo del comma 2 dell’art. 19 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto) – quale sostituito dal comma 1 dell’art. 2 del decreto legislativo 2 settembre 1997, n. 313 (Norme in materia di imposta sul valore aggiunto) – nella parte in cui si riferisce alle attività sanitarie esenti dall’IVA ai sensi dell’art. 10, primo comma, numero 19), dello stesso decreto del Presidente della Repubblica n. 633 del 1972, promosso con ordinanza depositata il 12 gennaio 2009 dalla Commissione tributaria regionale del Veneto nel giudizio vertente tra l’Unità Locale Socio Sanitaria (ULSS) 18 di Rovigo e l’Agenzia delle entrate, ufficio di Rovigo, iscritta al n. 189 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 13 gennaio 2010 il Giudice relatore Franco Gallo.
Ritenuto che nel corso di un giudizio di appello, con ordinanza depositata il 12 gennaio 2009, la Commissione tributaria regionale del Veneto ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 53, 76, 77 e 117, primo comma, della Costituzione – questioni di legittimità del primo periodo del comma 2 dell’art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), quale sostituito dal comma 1 dell’art. 2 del d.lgs. 2 settembre 1997, n. 313 (Norme in materia di imposta sul valore aggiunto), decreto legislativo emanato in attuazione dell’art. 3, comma 66, lettera b), della legge di delegazione 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), in relazione alle attività sanitarie esenti dall’IVA ai sensi dell’art. 10, primo comma, numero 19), dello stesso d.P.R. n. 633 del 1972;
che, secondo quanto premesso in punto di fatto dalla Commissione tributaria rimettente: a) l’Unità Locale Socio Sanitaria (ULSS) 18 di Rovigo aveva chiesto alla competente Agenzia delle entrate il rimborso dell’IVA corrisposta per l’acquisto di beni e servizi utilizzati nella propria attività negli anni dal 1996 al 2002; b) la stessa ULSS aveva poi impugnato davanti alla Commissione tributaria provinciale di Rovigo il silenzio-rifiuto formatosi su detta richiesta di rimborso; c) il giudice adíto aveva rigettato il ricorso con sentenza successivamente appellata dalla medesima ULSS; d) l’appellante aveva dedotto, quali motivi del gravame, sia l’applicabilità, nella specie, dell’esenzione prevista dall’art. 13, parte B), lettera c), della VI Direttiva 388/77/CEE, sia l’illegittimità costituzionale del comma 2 dell’art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972; e) l’appellata Agenzia delle entrate aveva eccepito, da un lato, il difetto di legittimazione della ULSS a chiedere il rimborso dell’IVA, trattandosi di soggetto cessionario dei beni e servizi equiparabile al consumatore finale, nonché, dall’altro, l’inapplicabilità al caso di specie della invocata disposizione della direttiva comunitaria (recepita dall’art. 10, primo comma, numero 27-quinquies, del d.P.R. n. 633 del 1972), concernente la diversa ipotesi di successiva rivendita a terzi di un bene per il quale l’IVA corrisposta al momento dell’acquisto non era stata detratta in ragione del regime di esenzione dall’imposta previsto per l’attività dell’acquirente;
che, secondo quanto premesso in punto di diritto dalla stessa Commissione tributaria regionale: a) l’ULSS non è qualificabile come consumatore finale, ma conduce una azienda sanitaria e pertanto, «come soggetto passivo d’imposta, è legittimata a chiedere il rimborso»; b) gli acquisti di beni e di servizi effettuati «nella situazione in esame» dalla medesima ULSS debbono considerarsi destinati ad operazioni «attinenti all’esercizio dell’impresa»; c) tuttavia, in ragione della peculiare attività sanitaria svolta, la citata Unità locale è esente dall’IVA e non è ammessa «alla detrazione pro rata»; d) la suddetta disposizione della direttiva comunitaria (art. 13, parte B, lettera c, della VI Direttiva 388/77/CEE) è erroneamente invocata dall’appellante, perché va interpretata nel senso che l’esenzione da essa prevista non si riferisce all’IVA relativa all’acquisto a monte dei beni, cioè all’ipotesi oggetto del giudizio principale, ma alla diversa ipotesi della rivendita degli stessi beni (come precisato dall’ordinanza della Corte di giustizia CE 6 luglio 2006 in causa C-18/05 [rectius: nelle cause riunite C-18/05 e C-155/05]);
che, su tali premesse, il giudice a quo afferma che la disposizione censurata, nello stabilire che «Non è detraibile l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni o servizi afferenti operazioni esenti o comunque non soggette all’imposta […]», víola gli evocati parametri, nella parte in cui si riferisce a quelle attività sanitarie – nella specie svolte dalla suddetta ULSS – che l’art. 10, primo comma, numero 19), dello stesso d.P.R. n. 633 del 1972 dichiara esenti dall’IVA («le prestazioni di ricovero e cura rese da enti ospedalieri o da cliniche e case di cura convenzionate nonché da società di mutuo soccorso con personalità giuridica e da ONLUS, compresa la somministrazione di medicinali, presidi sanitari e vitto, nonché le prestazioni di cura rese da stabilimenti termali»);
che, in particolare, il giudice rimettente deduce, in primo luogo, la violazione degli artt. 76 e 77 Cost., perché la disposizione censurata, stabilendo la predetta indetraibilità dell’imposta, si pone in contrasto con l’art. 3, comma 66, lettera b), della legge di delegazione n. 662 del 1996, il quale fissa per il legislatore delegato il principio e criterio direttivo dell’indetraibilità dell’IVA «per gli acquisti di beni e servizi destinati esclusivamente a finalità estranee all’esercizio dell’impresa o dell’arte o professione utilizzati esclusivamente per operazioni non soggette all’imposta, eccettuate quelle cui le norme comunitarie ricollegano comunque il diritto alla detrazione»;
che, secondo il giudice a quo, infatti, il citato principio e criterio direttivo «prefigura l’esclusione dal diritto alla detrazione […] dei soli acquisti di beni e servizi destinati a finalità estranee all’esercizio dell’attività (impresa, arte o professione) per la quale opera l’esenzione, utilizzati esclusivamente per operazioni non soggette all’imposta» e non per quelli utilizzati, come nella specie, per l’attività istituzionale «di impresa» dell’ULSS.
che la Commissione tributaria regionale denuncia, in secondo luogo, il contrasto della censurata disposizione con l’art. 117, primo comma, Cost., per violazione di norme comunitarie, sotto un duplice profilo: a) perché provoca «una distorsione (invertita) della concorrenza rispetto alle imprese commerciali soggette all’IVA, le quali, in ipotesi, eroghino servizi analoghi, potendo recuperare l’IVA pagata sull’acquisto di beni e servizi utilizzati per la loro attività», e, pertanto, si pone in contrasto con il principio di neutralità dell’imposta, affermato sin dalla prima direttiva n. 67/227/CEE, in forza del quale l’imposta deve ricadere sul consumo in modo proporzionale al prezzo dei beni e servizi, indipendentemente dalle transazioni intervenute nel processo di produzione e distribuzione antecedente; b) perché impone l’indetraibilità dell’IVA di acquisti di beni e servizi effettuati nell’àmbito di operazioni rientranti nell’esercizio dell’azienda sanitaria, cioè di operazioni che, «secondo una costante giurisprudenza», sono «soggette alla normativa IVA» e «per le quali la direttiva IVA prevede il diritto alla detrazione»;
che il rimettente prospetta, in terzo luogo, la violazione dell’art. 3 Cost., sotto quattro profili: a) perché la denunciata disposizione irragionevolmente vanifica la finalità dell’esenzione di cui all’art. 10, primo comma, punto 19), dello stesso d.P.R. n. 633 del 1972; finalità consistente esclusivamente nel non far gravare sull’utente l’imposta sulla produzione di quello specifico servizio di pubblico interesse e, certamente, non nel far gravare l’onere sul soggetto produttore del servizio e, quindi, sul costo, tanto piú che chi esercita tali attività esenti da imposta non è ammesso alla detrazione pro rata; b) perché la suddetta denunciata disposizione, non consentendo all’azienda che eroga il servizio sanitario di detrarre l’IVA pagata per l’acquisto di beni e servizi destinati esclusivamente alla prestazione di tale servizio (esente dall’imposta), irragionevolmente contraddice non solo il fondamento dell’imposta stessa, la quale dovrebbe gravare sul consumatore finale e non sull’ente sanitario, ma anche la neutralità della medesima imposta; c) perché il censurato comma 2 dell’art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972 comporta una ingiustificata disparità di trattamento tra i soggetti – da un lato – che non ricorrono al mercato per acquistare i beni e servizi utilizzati per erogare la prestazione sanitaria e che in relazione a tali beni e servizi, pertanto, non sono gravati dall’IVA ed i soggetti – dall’altro – che, come la ULSS appellante, ricorrono invece al mercato per acquistare i suddetti beni e servizi e che, in relazione ai medesimi beni e servizi, sono gravati dall’IVA; d) perché il citato comma 2 dell’art. 19 comporta una ingiustificata disparità di trattamento tra i soggetti che, ai sensi del comma 1 dello stesso articolo, detraggono l’IVA pagata per l’acquisto di beni e servizi utilizzati per operazioni che rientrano nell’esercizio dell’impresa ed i soggetti che, invece, ai sensi del comma 2 del medesimo art. 19, non detraggono l’IVA pagata per l’acquisto di beni e servizi utilizzati per operazioni esenti, e ciò anche quando tali operazioni rientrano nell’esercizio dell’azienda sanitaria e, «secondo una costante giurisprudenza, sono […] soggette alla normativa IVA», con «diritto alla detrazione»;
che in quarto luogo, infine, il giudice a quo deduce che la disposizione censurata si pone in contrasto con l’art. 53 Cost., perché, per «quanto sopra considerato», rende l’imposta «sganciata anche da una manifestazione di capacità contributiva»;
che, in ordine alla rilevanza, la Commissione tributaria rimettente afferma che il giudizio principale «non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione delle questioni sopra prospettate»;
che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le sollevate questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate;
che la difesa erariale osserva preliminarmente che la legge n. 662 del 1996 – di delegazione al Governo ad emanare il decreto legislativo contenente la disposizione censurata – stabilisce, all’alinea ed alla lettera b) del comma 66 dell’art. 3, che «Il Governo è delegato ad emanare, entro nove mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o piú decreti legislativi in materia di imposta sul valore aggiunto, in conformità alla normativa comunitaria, nel rispetto dei seguenti princípi e criteri direttivi: […] b) revisione della disciplina delle detrazioni di imposta e delle relative rettifiche, escludendo il diritto alla detrazione per gli acquisti di beni e servizi destinati esclusivamente a finalità estranee all’esercizio dell’impresa o dell’arte o professione utilizzati esclusivamente per operazioni non soggette all’imposta, eccettuate quelle cui le norme comunitarie ricollegano comunque il diritto alla detrazione […]»;
che, sempre secondo la difesa erariale, la citata legge di delegazione obbliga pertanto il legislatore delegato a rispettare tutti i princípi comunitari in materia, tra i quali è ricompreso quello fissato dall’art. 168 della Direttiva 2006/112/CE sull’IVA (già Direttiva 77/388/CEE), secondo cui, nel caso di operazioni esenti, è l’ultimo soggetto IVA, anziché il consumatore finale, a sopportare l’onere dell’imposta assolta a monte;
che in particolare – aggiunge la difesa erariale – detto art. 168 stabilisce che il soggetto passivo dell’IVA ha diritto alla detrazione «nella misura in cui i beni ed i servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta», salvi casi eccezionali (non applicabili nella specie) indicati dall’art. 169 della stessa Direttiva, nei quali il diritto alla detrazione non si perde nonostante che l’imposta afferisca ad operazioni esenti;
che, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, il principio di diritto comunitario desumibile dal menzionato art. 168 è stato applicato proprio dalla disposizione censurata, con conseguente insussistenza della dedotta violazione degli artt. 3, 53, 76, 77 e 117, primo comma, Cost.;
che la difesa dello Stato sottolinea – infine – che, quanto alla citata normativa comunitaria, l’ordinanza di rimessione non prospetta alcuna questione di compatibilità né con i suddetti evocati parametri né con i «principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o i diritti inalienabili della persona umana».
Considerato che la Commissione tributaria regionale del Veneto dubita, in riferimento agli artt. 3, 53, 76, 77 e 117, primo comma, della Costituzione, della legittimità del primo periodo del comma 2 dell’art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), quale sostituito dal comma 1 dell’art. 2 del d.lgs. 2 settembre 1997, n. 313 (Norme in materia di imposta sul valore aggiunto), decreto legislativo emanato in attuazione dell’art. 3, comma 66, lettera b), della legge di delegazione 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), in relazione alle attività sanitarie esenti dall’IVA ai sensi dell’art. 10, primo comma, numero 19), dello stesso d.P.R. n. 633 del 1972;
che, secondo il giudice rimettente, la disposizione denunciata, stabilendo che «Non è detraibile l’imposta relativa all’acquisto o all’importazione di beni o servizi afferenti operazioni esenti o comunque non soggette all’imposta […]», víola gli evocati parametri, nella parte in cui si riferisce a quelle attività sanitarie che l’art. 10, primo comma, numero 19), del medesimo d.P.R. n. 633 del 1972 dichiara esenti dall’IVA («le prestazioni di ricovero e cura rese da enti ospedalieri o da cliniche e case di cura convenzionate nonché da società di mutuo soccorso con personalità giuridica e da ONLUS, compresa la somministrazione di medicinali, presidi sanitari e vitto, nonché le prestazioni di cura rese da stabilimenti termali»);
che in particolare, ad avviso del giudice a quo, la censurata disposizione – in quanto, come sopra visto, prevede l’indetraibilità (e, quindi, la non rimborsabilità da parte dell’erario) dell’IVA, pagata in via di rivalsa sugli acquisti di beni e servizi, per i soggetti che abbiano acquistato ed utilizzato quei beni e servizi al fine di svolgere un’attività sanitaria esente da IVA – violerebbe, in primo luogo, gli artt. 76 e 77 Cost., perché si porrebbe in contrasto con l’art. 3, comma 66, lettera b), della citata legge di delegazione n. 662 del 1996, il quale, sempre ad avviso del giudice rimettente, limita l’esclusione dal diritto alla detrazione «ai soli acquisti di beni e servizi destinati a finalità estranee all’esercizio dell’attività (impresa, arte o professione) per la quale opera l’esenzione, utilizzati esclusivamente per operazioni non soggette all’imposta»;
che, in secondo luogo, sarebbe violato anche l’art. 117, primo comma, Cost., perché: a) la disposizione censurata provocherebbe «una distorsione (invertita) della concorrenza rispetto alle imprese commerciali soggette all’IVA, le quali, in ipotesi, eroghino servizi analoghi, potendo recuperare l’IVA pagata sull’acquisto di beni e servizi utilizzati per la loro attività», e, pertanto, si porrebbe in contrasto con il principio di neutralità dell’imposta, affermato sin dalla direttiva n. 67/227/CEE, in forza del quale l’imposta deve ricadere sul consumo in modo proporzionale al prezzo dei beni e servizi, indipendentemente dalle transazioni intervenute nel processo di produzione e distribuzione antecedente; b) le operazioni rientranti nell’esercizio dell’azienda sanitaria, «secondo una costante giurisprudenza, sono operazioni soggette alla normativa IVA, per le quali la direttiva IVA prevede il diritto alla detrazione»;
che, in terzo luogo, la suddetta previsione di indetraibilità dell’IVA violerebbe l’art. 3 Cost., perché: a) facendo irragionevolmente gravare l’onere fiscale sul soggetto produttore del servizio e, quindi, sul costo, vanificherebbe la finalità della citata esenzione, intesa a non far gravare sull’utente l’imposta sulla produzione di quello specifico servizio di pubblico interesse; b) non consentendo all’azienda che eroga il servizio sanitario di detrarre l’IVA pagata in rivalsa per l’acquisto di beni e servizi destinati esclusivamente alla prestazione del servizio esente da detta imposta, irragionevolmente contraddirebbe sia il fondamento sia la neutralità dell’imposta stessa, la quale dovrebbe gravare sul consumatore finale e non sull’ente sanitario; c) comporterebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra i soggetti (non gravati dall’IVA) che non ricorrono al mercato per acquistare i beni e servizi utilizzati per erogare la prestazione sanitaria ed i soggetti (gravati, invece, dall’IVA) che ricorrono al mercato per acquistare i suddetti beni e servizi; d) comporterebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra, da un lato, i soggetti che (ai sensi del comma 1 dell’art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972) detraggono l’IVA pagata in via di rivalsa per l’acquisto di beni e servizi utilizzati per operazioni rientranti nell’esercizio dell’impresa e non esenti dall’IVA e, dall’altro, i soggetti che (ai sensi del censurato comma 2 del medesimo art. 19) non possono detrarre l’IVA pagata in via di rivalsa per l’acquisto di beni e servizi utilizzati per operazioni esenti dall’IVA rientranti nell’esercizio dell’azienda sanitaria;
che, in quarto luogo, infine, il censurato primo periodo del comma 2 dell’art. 19 del d.P.R. n. 633 del 1972 si porrebbe in contrasto anche con l’art. 53 Cost., perché, per «quanto sopra considerato», renderebbe l’imposta «sganciata anche da una manifestazione di capacità contributiva»;
che le questioni sono manifestamente inammissibili, per avere il giudice a quo omesso di motivare sulla loro rilevanza e, in particolare, sulla necessità di fare applicazione, nel giudizio principale, della disposizione denunciata;
che, infatti, il rimettente si limita ad affermare, al riguardo, che la disposizione censurata costituisce l’unico ostacolo all’accoglimento della domanda, proposta dalla appellante Unità Sanitaria Locale (ULSS), di rimborso dell’IVA sugli acquisti di beni e servizi inerenti alla sua attività sanitaria, esente dall’IVA;
che, ad avviso del giudice a quo, l’Unità Sanitaria conduce un’azienda ed esercita un’«impresa» e pertanto, ove non sussistesse il comma 2 dell’art. 19, non sarebbe equiparabile ad un consumatore finale, ma sarebbe, «come soggetto passivo d’imposta, […] legittimata a chiedere il rimborso» dell’IVA pagata in via di rivalsa;
che il giudice rimettente, tuttavia, omette di considerare che: a) il non censurato comma quinto, secondo periodo, dell’art. 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 stabilisce, tra l’altro, che «non sono considerate attività commerciali:[…] le prestazioni sanitarie soggette al pagamento di quote di partecipazione alla spesa sanitaria erogate dalle unità sanitarie locali e dalle aziende ospedaliere del servizio sanitario nazionale»; b) ai sensi dell’art. 1 del d.P.R. n. 633 del 1972, costituiscono operazioni imponibili, ai fini dell’IVA, solo «le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni da chiunque effettuate»; c) lo svolgimento, in via esclusiva, della suddetta attività non commerciale indicata dall’art. 4 non integra l’esercizio di un’impresa e, pertanto, chi la svolge – contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo – non è soggetto passivo dell’IVA ai sensi del parimenti non censurato art. 17 del d.P.R. n. 633 del 1972 e, di conseguenza, non è legittimato né a detrarre l’IVA sugli acquisti né a richiederne il rimborso all’erario;
che, a fronte di tali disposizioni, la Commissione tributaria regionale avrebbe dovuto indicare le ragioni di fatto o di diritto per le quali la ULSS parte del giudizio principale deve, a suo avviso, considerarsi un soggetto passivo dell’IVA, sia pure operante in regime di esenzione dall’imposta (in forza del citato art. 10, primo comma, numero 19, del d.P.R. n. 633 del 1972), e non, invece, un soggetto escluso dall’applicazione della medesima imposta in quanto non esercente un’attività di impresa (in forza dei menzionati artt. 1, 4 e 17 dello stesso d.P.R. n. 633 del 1972);
che, del resto, il rimettente avrebbe dovuto avvertire in modo particolarmente intenso l’esigenza di indicare tali ragioni, sia perché egli stesso muove dal presupposto che solo il soggetto passivo dell’IVA è legittimato a richiedere il rimborso di tale imposta, sia perché, prima del deposito dell’ordinanza di rimessione, la Corte di cassazione aveva depositato una sentenza con la quale, in una fattispecie identica a quella del giudizio principale, aveva ribadito il difetto di legittimazione della ULSS a chiedere il rimborso dell’IVA pagata in via di rivalsa sugli acquisti di beni e servizi utilizzati per la sua attività sanitaria, in quanto priva della qualità di soggetto passivo dell’imposta ed equiparabile ad un consumatore finale (sentenza n. 28177 del 2008, depositata il 26 novembre 2008);
che la rilevata omissione motivazionale si risolve nella carenza di motivazione sulla rilevanza delle sollevate questioni, perché il rimettente non ha chiarito le ragioni per le quali egli debba fare applicazione della disposizione censurata in relazione all’art. 10, primo comma, numero 19, del d.P.R. n. 633 del 1972 e non, invece, del citato art. 4, comma quinto, secondo periodo, dello stesso d.P.R.;
che tale motivo di manifesta inammissibilità assorbe quello derivante dal fatto che il dubbio prospettato dal rimettente, riguardante la compatibilità della denunciata norma nazionale con disposizioni di direttive comunitarie ad effetto diretto, deve essere risolto (eventualmente con l’ausilio della Corte di giustizia, in forza dell’art. 234 del Trattato CE) in via prioritaria – rispetto all’incidente di costituzionalità – dallo stesso giudice comune (ex plurimis: sentenze n. 415 e n. 102 del 2008, n. 284 del 2007; ordinanza n. 454 del 2006).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale del primo periodo del comma 2 dell’art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul valore aggiunto), quale sostituito dal comma 1 dell’art. 2 del d.lgs. 2 settembre 1997, n. 313 (Norme in materia di imposta sul valore aggiunto), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 53, 76, 77 e 117, primo comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale del Veneto con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 gennaio 2010.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Franco GALLO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 28 gennaio 2010.