ORDINANZA N. 261
ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai Signori:
- Francesco AMIRANTE Presidente
- Ugo DE SIERVO Giudice
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
- Giuseppe FRIGO "
- Alessandro CRISCUOLO "
- Paolo GROSSI "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 12-bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), introdotto dall’art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), promosso dal Tribunale di Catania nel procedimento vertente tra G. G. e L. D. L. con ordinanza del 24 novembre 2009, iscritta al n. 48 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’8 luglio 2009 il Giudice relatore Paolo Grossi.
Ritenuto che il Tribunale ordinario di Catania − con ordinanza del 24 novembre 2008, emessa nel giudizio instaurato dalla signora G.G. contro l’ex coniuge L.D.L. per ottenere la liquidazione in proprio favore della quota del trattamento di fine rapporto percepita da quest’ultimo, da determinare nella misura del quaranta per cento in relazione alla durata legale del matrimonio − ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 29, 38 e 47 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 12-bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), introdotto dall’art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), «sia sotto il profilo espressamente prospettato dalla parte resistente sia sotto ulteriori profili suscettibili di rilievo anche officioso»;
che l’ex coniuge convenuto − già lavoratore dipendente, collocato in pensione in epoca successiva alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio − ha chiesto di calcolare «la quota spettante al coniuge divorziato esclusivamente con riferimento agli anni di effettiva convivenza tra i coniugi, anziché con riferimento alla durata legale del matrimonio, previa eventuale rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’art. 12 bis l. n. 898/70, interpretato secondo l’orientamento consolidato nella giurisprudenza di legittimità»;
che, in punto di rilevanza, il giudice rimettente reputa sussistenti «tutti gli elementi di fattispecie previsti» dalla disposizione denunciata, «direttamente applicabile per la soluzione della controversia insorta inter partes ed immediatamente rilevante ai fini della decisione»;
che, quanto alla non manifesta infondatezza, la disposizione denunciata, ad avviso del rimettente, «già nella sua intera portata precettiva, appare suscettibile di contrasto sia con l’art. 3 della Costituzione, per violazione del principio di eguaglianza e di ragionevolezza, sia con l’art. 29 della Costituzione, per violazione dei principi di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, sui quali è ordinato l’istituto del matrimonio nel vigente ordinamento giuridico, sia, infine, con i principi dettati a tutela previdenziale dei lavoratori dipendenti e del risparmio oggetto di copertura costituzionale ai sensi degli artt. 38 e 47 Cost.»;
che «la formulazione letterale della norma» e, «soprattutto, la sua interpretazione giurisprudenziale ormai consolidata» non consentirebbero «di superare, in via interpretativa, alcuni seri dubbi di costituzionalità», sembrando essa «disciplinare in modo diseguale la posizione di soggetti in posizioni del tutto analoghe»;
che, in particolare, da un lato, non apparirebbe «in alcun modo ragionevole», anche «in evidente contrasto con la natura assistenziale dell’istituto, la previsione normativa del diritto all’attribuzione della quota del TFR soltanto in favore del coniuge divorziato da un soggetto lavoratore dipendente e non già a favore del coniuge divorziato da un soggetto imprenditore o libero professionista»; e, dall’altro, «nell’ambito della medesima categoria dei lavoratori dipendenti», parrebbe «tanto più irragionevole», oltre che «in netto contrasto con la ratio compensativa dell’istituto in esame», non consentire al coniuge separato di «vantare alcun diritto in ordine al TFR che venga percepito dall’altro coniuge in costanza di separazione e prima del divorzio», «proprio in un momento storico in cui il matrimonio non è ancora venuto meno, sicché persistono alcuni obblighi di solidarietà coniugale tra i coniugi sicuramente maggiori rispetto a quelli di mera solidarietà postconiugale che residuano tra gli ex coniugi in seguito al divorzio»;
che viene proposto, «in via gradata» e sotto un «più limitato profilo», «un ulteriore dubbio di costituzionalità della norma in esame per violazione di tutti i principi sopra evidenziati», in riferimento sia «alla predeterminazione in misura fissa della quota dell’indennità di fine rapporto spettante» («senza consentire alcun intervento correttivo del Giudice di merito» diretto a «ponderare le contrapposte situazioni economiche dell’obbligato e del beneficiario», «in contrasto con la finalità assistenziale della norma ed a differenza di quanto normalmente accade nella materia del diritto di famiglia»); sia all’«interpretazione assolutamente prevalente del concetto di durata del matrimonio» («nel senso di ricomprendervi anche il periodo, successivo alla cessazione della convivenza, che va dalla separazione sino al passaggio in giudicato della pronunzia di divorzio»);
che, su queste basi, potrebbero verificarsi «ingiustificate parificazioni tra situazioni diverse» (in ipotesi attribuendosi a un ex coniuge una percentuale di indennità «del tutto sproporzionata rispetto alla contribuzione alla conduzione della famiglia, specie laddove non siano nati figli dal matrimonio, come è avvenuto nel caso oggetto del giudizio a quo»; o ottenendosi «situazioni di vero e proprio ingiustificato arricchimento del coniuge beneficiario a danno dell’obbligato», ove «il divorzio venga pronunziato molto tempo dopo la separazione», o quando il beneficiario goda «del proprio TFR» o di «altro incremento patrimoniale esterno»), con la conseguenza che la «sottrazione al lavoratore dipendente di parte del suo trattamento previdenziale e del suo risparmio forzoso» resterebbe «priva di giustificazione perché svincolata dalla solidarietà economica tra i coniugi» e l’interessato potrebbe trovare un correttivo «soltanto meramente indiretto e parziale» nella eventuale richiesta di riduzione dell’assegno divorzile;
che, nel proporre la questione di legittimità costituzionale, il giudice rimettente si dichiara consapevole che la medesima, prospettata «sotto un profilo del tutto analogo», è già stata dichiarata infondata con la sentenza n. 23 del 1991, reputando, tuttavia, sussistenti «nuove ragioni» per un ulteriore scrutinio, sia «alla luce dell’evoluzione sociale ed economica verificatasi negli ultimi anni nel paese», sia, «soprattutto», «alla luce dell’evoluzione normativa registratasi» con l’entrata in vigore della legge n. 54 del 2006, in tema di affidamento condiviso della prole minore, «in vista della tutela del c.d. diritto alla bigenitorialità dei minori»;
che, infatti, «essendo stato integralmente ribaltato dal legislatore del 2006 il criterio ordinario di affidamento della prole minore e dovendo ritenersi ormai quanto meno paritario il contributo dei coniugi, pur in costanza della crisi del loro matrimonio, alla cura ed alla responsabilità nei confronti dei figli» («dovere che, peraltro, trova diretto fondamento nel rapporto di filiazione più che nei doveri matrimoniali»), sarebbero «destinate a venir meno» «buona parte delle ragioni sottese» alla richiamata sentenza n. 23 del 1991 («allorquando il caso paradigmatico era effettivamente costituito dall’affidamento esclusivo della prole minore alla madre quale coniuge più debole»).
Considerato che questa Corte è chiamata a pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 12-bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), introdotto dall’art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 29, 38 e 47 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Catania, «sia sotto il profilo espressamente prospettato dalla parte resistente sia sotto ulteriori profili suscettibili di rilievo anche officioso»;
che la disposizione denunciata prevede che «1. Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell’art. 5, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l’indennità viene a maturare dopo la sentenza. 2. Tale percentuale è pari al quaranta per cento dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio»;
che, nella prospettazione del giudice rimettente, detta disposizione risulterebbe, «già nella sua intera portata precettiva», «suscettibile di contrasto» con i parametri costituzionali invocati;
che, in particolare, essa sembrerebbe, da un lato, «disciplinare in modo diseguale la posizione di soggetti in posizioni del tutto analoghe» e, dall’altro, determinare l’eventualità di «ingiustificate parificazioni tra situazioni diverse»;
che il giudice rimettente prospetta profili della questione che − a parte ogni altra considerazione in tema di situazioni comparabili, anche in riferimento al riscontro nelle vicende del giudizio principale, nonché in tema di ordine logico delle censure − risultano, in definitiva, formulati in termini tra loro alternativi, oltre che sorretti da argomentazioni che appaiono reciprocamente contraddittorie;
che, infatti, da un lato, egli lamenta che il coniuge separato da lavoratore dipendente non possa «vantare alcun diritto in ordine al TFR che venga percepito dall’altro coniuge», nonostante che la cessazione della convivenza non abbia fatto venir meno tutti gli obblighi di solidarietà coniugale; dall’altro, che l’ex coniuge sia invece tenuto, nei confronti dell’altro, a versare la quota predeterminata di trattamento di fine rapporto in riferimento «anche al periodo successivo alla cessazione della convivenza», nonostante che la prestazione risulti ormai «priva di giustificazione perché svincolata dalla solidarietà economica tra i coniugi»;
che, pertanto, un eventuale accoglimento della questione sotto un profilo implicherebbe il rigetto della stessa sotto l’altro, con la conseguenza che essa, secondo il costante orientamento di questa Corte, deve essere dichiarata manifestamente inammissibile (si vedano, ex multis, le ordinanze n. 62 del 2007; n. 360 del 2006; n. 363 del 2005);
che, inoltre, l’ordinanza di rimessione appare carente nella motivazione sulla non manifesta infondatezza della questione proposta in riferimento alle «nuove ragioni» che sussisterebbero per un ulteriore scrutinio di costituzionalità rispetto a quello di cui al giudizio concluso con la sentenza n. 23 del 1991;
che, infatti, tra queste ragioni viene addotta la sopravvenienza della legge n. 54 del 2006, in tema di affidamento condiviso della prole minore, il cui richiamo – peraltro generico e privo di riscontro nella fattispecie di cui al giudizio principale – risulta del tutto inconferente, anche per l’espressa enunciazione che «il contributo dei coniugi, pur in costanza della crisi del loro matrimonio, alla cura e alla responsabilità nei confronti dei figli» corrisponde a un «dovere che, peraltro, trova diretto fondamento nel rapporto di filiazione più che nei doveri matrimoniali»;
che una carente motivazione sulla non manifesta infondatezza della questione comporta che la questione venga dichiarata manifestamente inammissibile (ex multis, le ordinanze 113 del 2009; n. 427 del 2008; n. 122 del 2007);
che, peraltro, nell’ordinanza di rimessione non risulta prospettato un adeguato sviluppo argomentativo dell’asserito contrasto della disposizione denunciata con diversi tra i parametri costituzionali invocati;
che anche una carente motivazione della non manifesta infondatezza per insufficiente indicazione delle ragioni per cui si configurerebbe la violazione dei parametri costituzionali determina la dichiarazione di manifesta inammissibilità della questione (ex multis, ordinanze n. 122 del 2009; n. 249 del 2008; n. 114 del 2007);
che, d’altra parte, in riferimento al complesso delle censure proposte, non risulta formulato un preciso e specifico petitum, restando indeterminato se − indipendentemente dai limiti del sindacato sull’uso del potere discrezionale del legislatore, in mancanza di soluzioni costituzionalmente obbligate − si invochi una pronuncia che tenda ad eliminare in radice la previsione del diritto dell’ex coniuge alla quota del trattamento di fine rapporto percepito dal titolare o, piuttosto, una pronuncia che, rispetto a termini di riferimento peraltro non definiti, tenda ad attribuire al giudice del merito il potere di valutare le circostanze rilevanti nelle situazioni di specie;
che l’indeterminatezza, l’oscurità o la genericità del petitum impongono di dichiarare la questione proposta manifestamente inammissibile (ex multis, le ordinanze n. 155 del 2009; n. 185 del 2008; n. 279 del 2007).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
la Corte costituzionale
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 12-bis della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), introdotto dall’art. 16 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 29, 38 e 47 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Catania con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 ottobre 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Paolo GROSSI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 19 ottobre 2009.