Sentenza n. 223 del 2009

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SENTENZA N. 223

ANNO 2009

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Francesco                                AMIRANTE           Presidente        

- Ugo                                         DE SIERVO             Giudice

- Paolo                                       MADDALENA               "

- Alfio                                       FINOCCHIARO             "

- Alfonso                                   QUARANTA                  "

- Franco                                     GALLO                          "

- Luigi                                       MAZZELLA                   "

- Gaetano                                   SILVESTRI                    "

- Sabino                                     CASSESE                      "

- Maria Rita                               SAULLE                        "

- Giuseppe                                 TESAURO                     "

- Paolo Maria                             NAPOLITANO               "

- Giuseppe                                 FRIGO                           "

- Alessandro                               CRISCUOLO                 "

- Paolo                                       GROSSI                         "

ha pronunciato la seguente                                         

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito delle deliberazioni della Camera dei deputati del 2 maggio 2007, relative alla insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dai deputati Mario Borghezio ed altri, promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Verona con ricorso notificato il 9 gennaio 2009, depositato in cancelleria in pari data ed iscritto al n. 10 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2008, fase di merito.

Visto l’atto di costituzione della Camera dei deputati;

udito nell’udienza pubblica del 21 aprile 2009 il Giudice relatore Paolo Maddalena;

udito l’avvocato Massimo Luciani per la Camera dei deputati.

Ritenuto in fatto

1. ¾ Con ricorso depositato il 24 aprile 2008, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Verona ha sollevato conflitto di attribuzione «in ordine al corretto uso del potere di decidere con riguardo alla ricorrenza dei presupposti di applicabilità dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, come esercitato dalla Camera dei deputati con le delibere del 2 maggio 2007 relativamente al procedimento penale», pendente dinanzi al medesimo GUP, «a carico dei deputati Mario Borghezio, Umberto Bossi, Enrico Cavaliere, Giacomo Chiappori, Giancarlo Pagliarini, Luigino Vascon, Roberto Maroni e Roberto Calderoli».

Il ricorrente precisa che nei confronti dei suddetti deputati – dopo essere intervenuta sentenza di proscioglimento per i reati di cui agli artt. 241, 283 e 271 del codice penale, non più previsti dalla legge come tali a seguito della declaratoria di incostituzionalità recata dalla sentenza n. 243 del 2001 della Corte costituzionale e della successiva novella legislativa 24 febbraio 2006, n. 85 (Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione) – residua la richiesta di rinvio a giudizio per l’imputazione «del reato di cui agli artt. 81 c.p., 1 d.lgs. 14 febbraio 1948, n. 43 per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso promosso, costituito, diretto, e partecipato – con molte altre persone, alcune identificate ed altre da identificare – ad una associazione di carattere militare con scopi politici, denominata “camicie verdi”, poi confluita in altra più complessa struttura denominata GNP (guardia nazionale padana), organizzata secondo precise regole di ammissione e reclutamento degli aderenti – tutti dotati di uniforme costituita da una camicia verde con maniche lunghe recante un particolare stemma sulla manica sinistra e sul taschino sinistro – e di inquadramento in gruppi territoriali gerarchicamente organizzati, con l’individuazione di responsabili locali tenuti a seguire rigorosamente le direttive del “capo” o delle persone da lui delegate, e a riferire periodicamente sull’attività compiuta in esecuzione di tali direttive; associazione contigua al movimento politico Lega Nord ed avente lo scopo di meglio attuare e di rendere praticabili le proclamate finalità politiche di tale movimento di creazione di nuove realtà statuali – rappresentandone, in qualche modo, le istituzioni di polizia e militari – mediante la creazione di una struttura gerarchicamente organizzata ed opportunamente addestrata per un eventuale impiego collettivo in azioni di violenza e minaccia – peraltro presentate come azioni di legittima difesa di pretesi diritti violati – ed utilizzata, anche, per intimidire gli aderenti contrari alle direttive politiche dei vertici del movimento, e quindi impedirne la partecipazione al dibattito interno, e così imporre, attraverso la riduzione al silenzio dei dissenzienti, all’interno dello stesso movimento Lega Nord una precisa linea politica; con l’aggravante del possesso di armi, essendo state rinvenute numerose armi, peraltro legittimamente detenute, munizioni ed esplosivo nelle abitazioni di vari aderenti all’associazione – In Verona in un periodo ricompreso tra giugno e settembre 1996 e anche successivamente».

Espone ancora il GUP del Tribunale di Verona:

- che la Corte costituzionale, con ordinanza n. 102 del 2007, richiamata la propria sentenza di inammissibilità n. 267 del 2005, «ha dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato da questo Giudice nei confronti del Senato della Repubblica in relazione alle deliberazioni adottate dall’Assemblea nella seduta del 31.01.2001 (doc. IV-quater n. 60) con le quali è stato ritenuto che i fatti oggetto del procedimento penale in epigrafe a carico dei senatori Vito Gnutti e Francesco Speroni concernono opinioni espresse da membri del Parlamento nell’esercizio delle loro funzioni e, in quanto tali, sono insindacabili» e ciò in quanto il conflitto contro la stessa delibera del Senato è stato «riproposto nel corso della stessa fase del giudizio e dall’identico giudice, ossia dal GUP»;

- che, pertanto, nei confronti dei senatori Gnutti e Speroni è stata pronunciata all’udienza preliminare del 31 marzo 2008 sentenza di non doversi procedere, ai sensi dell’art. 129 del codice di procedura penale e dell’art. 6, comma 8, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), per difetto della condizione di procedibilità, per essere stati gli imputati «ritenuti immuni ai sensi dell'art. 68, comma primo, della Costituzione»;

- che, successivamente, con ordinanza del 9 ottobre 2006, lo stesso GUP rimetteva gli atti, ai sensi degli artt. 3, commi 4 e 5, della legge n. 140 del 2003 e 68, primo comma, Cost., al Parlamento italiano in relazione alla posizione dei deputati innanzi indicati ed al Parlamento europeo in riferimento all’analoga posizione di Gian Paolo Gobbo, parlamentare europeo;

- che, con decisione del 24 ottobre 2007, il Parlamento europeo riteneva di «non difendere l’immunità né i privilegi del parlamentare europeo On. Gian Paolo Gobbo, reputando che i fatti attribuitigli non siano coperti da immunità parlamentare»;

- che, con nota del 4 maggio 2007, il Presidente della Camera dei deputati comunicava «che l’Assemblea, nella seduta del 2 maggio 2007, ha approvato la relazione doc. IV quater n. 9, deliberando che i fatti per i quali è in corso il presente processo penale a carico di Mario Borghezio, Umberto Bossi, Enrico Cavaliere, Giacomo Chiappori, Giancarlo Pagliarini, Luigino Vascon, Roberto Maroni e Roberto Calderoli, deputati all’epoca dei fatti, concernono opinioni espresse da membri del Parlamento nell’esercizio delle loro funzioni, ai sensi dell’art. 68, comma primo, della Costituzione».

Ciò premesso, il ricorrente sostiene che, non essendo stata mai investita la Corte costituzionale «della risoluzione di un conflitto di attribuzione contro la delibera della Camera dei deputati con la quale, in data 2 maggio 2007, i fatti addebitati ai parlamentari Mario Borghezio, Umberto Bossi, Enrico Cavaliere, Giacomo Chiappori, Giancarlo Pagliarini, Luigino Vascon, Roberto Maroni e Roberto Calderoli, sono stati ritenuti insindacabili ai sensi dell’art. 68 comma primo della Costituzione», sussisterebbe, nel caso di specie, l’interesse a ricorrere, non potendo spiegare effetti nei confronti dei deputati anzidetti le declaratorie di inammissibilità dei ricorsi con cui era stato sollevato conflitto contro il Senato della Repubblica – e di cui alla sentenza n. 267 del 2005 e alla ordinanza n. 102 del 2007 di questa Corte – concernenti unicamente le posizioni dei senatori Gnutti e Speroni, allora imputati.

Assume, quindi, il GUP che, nel caso in esame, «il ricorso viene proposto contro la Camera dei deputati e avverso la delibera del 2 maggio 2007, ossia avverso un atto nuovo e distinto dalla delibera all’epoca adottata da un altro ramo del Parlamento, e cioè dal Senato della Repubblica, e che si ritiene viziato da incompetenza».

Il ricorrente, dopo aver descritto i fatti addebitati ai singoli imputati, nonché i risultati delle indagini promosse a loro carico, ricorda che la Giunta per le autorizzazioni della Camera dei deputati ha segnatamente affermato, nella proposta di insindacabilità poi approvata dall’Assemblea nella seduta del 2 maggio 2007, quanto segue: «La Giunta ha constatato, a sua volta, che oggi le specifiche condotte ascritte ai singoli deputati imputati consistono nell’aver contribuito a costituire, potenziare e dirigere il gruppo associativo Camicie Verdi o Guardia Nazionale Padana, teorizzandone le finalità, coordinando le modalità di impiego degli appartenenti all’associazione, provocando l’adesione di terzi a detta associazione ed a suoi scopi attraverso un’attività di diffusione del programma. In particolare (...) la Guardia Nazionale Padana è stata costituita a sostegno delle iniziative nonché a difesa delle istituzioni della cosiddetta Repubblica Federale Padana, e cioè i citati parlamento e governo nonché il cosiddetto Comitato di Liberazione della Padania. Orbene, a giudizio unanime della Giunta è apparso che tali condotte (al di là di una valutazione di merito che potrebbe per alcuni inclinare al folkloristico e per altri al cattivo gusto istituzionale) possano agevolmente ricondursi al novero delle manifestazioni pubbliche tutelate dall’articolo 21 della Costituzione, dei momenti di riunione e associazione partitica di cui agli articoli 17, 18 e 49 della Costituzione stessa e in definitiva delle opinioni espresse in connessione con la funzione parlamentare ai sensi dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione. È noto, infatti, che la Lega Nord nelle legislature XIII e XIV ha avanzato numerose proposte di legge volte a introdurre in Italia una forma di Stato marcatamente federalista, fino a chiedere e a ottenere nella XIV legislatura per il deputato Bossi la titolarità del ministero delle riforme istituzionali e a concorrere all’approvazione di una modifica costituzionale che, a detta della stragrande maggioranza dell’opinione pubblica italiana, andava sotto il nome di devolution e come tale è stata sottoposta a referendum confermativo del 25 e 26 giugno 2006». Peraltro, nella stessa relazione si pone in risalto conclusivamente: « […] per completezza, si può osservare che l’associazione delle Camicie Verdi altro non era che un servizio d’ordine, simile a quelli organizzati dai partiti in occasione dei comizi e delle manifestazioni di piazza ancora oggi così frequenti nella vita politica e sociale italiana. All’evidenza, la mera esistenza e organizzazione di tali servizi d’ordine non costituiscono di  per sé un attacco all’integrità dello Stato e alla quiete pubblica».

Secondo il GUP ricorrente, «gli atti integranti il reato di partecipazione ad una associazione di tipo militare, svolgendo in essa compiti promozionali, direttivi e organizzativi, nonché sovrintendendo alle adesioni al gruppo da parte di terze persone, sono estranei al concetto di opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari, ancorché letti nel contesto ideologico da cui si è mossa l’azione politica della Lega Nord ed il programma secessionista cui i parlamentari imputati hanno aderito». Si tratterebbe, infatti, di «comportamenti materiali, che incidono direttamente e negativamente sulla sicurezza delle persone, e che per loro natura sono del tutto avulsi dalla manifestazione del pensiero, ossia dalle “opinioni”».

Ad avviso del ricorrente, nella proposta della Giunta non sarebbe stato adeguatamente affrontato «il tema della connessione tra l’esercizio delle funzioni parlamentari e le attività svolte, invece, in relazione all’associazione vietata dalla legge», né sarebbero state esplicitate le ragioni «per cui attività materiali come quelle più volte descritte nei paragrafi superiori possano ricondursi alla categoria delle “opinioni” espresse nell’esercizio delle funzioni di parlamentare», limitandosi a qualificare le condotte oggetto di imputazione come una proiezione di uno specifico “disegno politico”. Con ciò, la delibera di insindacabilità si sarebbe discostata dai principi espressi dalla Corte costituzionale in più di un’occasione circa l’ambito di operatività della garanzia prevista dall’art. 68, primo comma, della Costituzione.

Difatti, argomenta ancora il ricorrente, pur potendo ascriversi al concetto di opinione «anche comportamenti materiali diretti ad illustrare le iniziative svolte nella qualità di parlamentare», non si potrebbe però fare riferimento a comportamenti che incidano negativamente sui diritti di altri individui, «mentre la fattispecie incriminatrice la cui violazione è addebitata ai parlamentari, per sua natura, crea turbativa all’ordine pubblico ed è lesiva della sicurezza sociale».

Inoltre, prosegue il GUP, sarebbe soltanto una petizione di principio affermare la sussistenza di un “nesso funzionale” con l’attività parlamentare «per il fatto che l’associazione “Camicie Verdi” persegua il programma politico della Lega Nord, cui i senatori hanno aderito, […] poiché … lo “scopo politico” è già di per sé un requisito imprescindibile del reato di cui trattasi». Sicché, la delibera della Giunta avrebbe riscontrato una connessione sufficiente «nella semplice posizione politica del movimento cui i parlamentari appartengono» e ciò in contrasto con il criterio giurisprudenziale che ravvisa l’insindacabilità degli atti del parlamentare svolti extra moenia  nella loro “corrispondenza sostanziale” di contenuto con atti parlamentari tipici.

Secondo il ricorrente, nei comportamenti addebitati ai parlamentari Mario Borghezio, Umberto Bossi, Enrico Cavaliere, Giacomo Chiappori, Giancarlo Pagliarini, Luigino Vascon, Roberto Maroni e Roberto Calderoli «manca del tutto la riproduzione o divulgazione di una precedente attività parlamentare rispetto alla quale i fatti in esame presentino una “sostanziale identità di contenuti” tale da comportare un “nesso funzionale”». Sostiene, infatti, il medesimo ricorrente, che i predetti parlamentari «non avrebbero certamente svolto attività di propaganda, all’interno delle Camere, di una associazione vietata dalla legge – giacché intra moenia essi sono sottoposti alla sorveglianza della Presidenza dell’Assemblea e delle Commissioni –, ed è allora del tutto irrilevante che detta associazione fosse animata dall’identico spirito indipendentista e secessionista che contraddistingue il programma politico del partito di appartenenza».

Né sarebbe decisiva, sotto il profilo anzidetto, «la circostanza che i comportamenti incriminati, che la Giunta riconduce al novero delle manifestazioni pubbliche e dei momenti di riunione ed associazione partitica tutelati dagli artt. 21, 17, 18 e 49 della Costituzione, siano stati posti in essere fuori dalla sede parlamentare e per tale motivo avrebbero assunto connotazioni differenti rispetto a quelli realizzabili all’interno delle Camere».

Il ricorrente, dopo aver nuovamente rammentato che il Parlamento europeo ha ritenuto i fatti attribuiti al proprio parlamentare Gian Paolo Gobbo «non […] coperti da immunità parlamentare», sostiene che la deliberazione di insindacabilità della Camera dei deputati, del 2 maggio 2007 si porrebbe «in contrasto col potere ed il dovere di assicurare l’esercizio della funzione giurisdizionale attribuito dalla Costituzione in capo agli uffici giudiziari», sia per il radicale difetto di riferibilità alla funzione parlamentare dei comportamenti posti in essere dai parlamentari per cui pende il più volte richiamato procedimento penale, sia «per avere fondato la decisione sulla base di valutazioni di merito della vicenda oggetto del presente processo, espressamente riconducendo all’intento divulgativo del programma politico teorizzato in Parlamento la realizzazione di condotte materiali, quali appunto la promozione, la direzione e l’organizzazione di un’associazione vietata dalla legge, e, in aggiunta, arrivando ad escludere che le Camicie Verdi costituissero struttura integrante la figura dell’associazione di tipo militare vietata dalla legge».

In definitiva, nel ritenere sostanzialmente che la prerogativa dell’insindacabilità copra «tutti i comportamenti riconducibili all’attività politica latu sensu intesa del parlamentare, e che la sua ricorrenza non è esclusa anche di fronte a comportamenti che in astratto possono rivestire natura illecita», la delibera impugnata esorbiterebbe «dall’ambito derogatorio consentito dall’art. 68, primo comma, Cost., risultando violati, da un lato, anche gli artt. 101, secondo comma, 102, primo comma, e 104, primo comma, Cost., posti a tutela della titolarità della funzione giurisdizionale in capo alla magistratura e della legalità ed indipendenza del suo esercizio; dall’altro l’art. 3, primo comma, Cost., per la disparità di trattamento che in tal modo viene introdotta tra cittadini ordinari e parlamentari, consentendosi a questi ultimi condotte in ipotesi integranti figure di reato prive di qualsiasi connessione con la funzione parlamentare».

2. ¾ Il conflitto è stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 374 del 14 novembre 2008. A seguito di essa, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Verona ha notificato il ricorso e l’ordinanza alla Camera dei deputati in data 9 gennaio 2009 ed in pari data ha depositato tali atti, con la prova dell’avvenuta notificazione.

3. ¾ Si è costituita in giudizio la Camera dei deputati chiedendo la declaratoria di inammissibilità, irricevibilità e improcedibilità del ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri e, in subordine, la sua reiezione, con conseguente declaratoria di spettanza alla stessa Camera di «affermare l’insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, comma 1, Cost., delle opinioni espresse dagli Onn. Mario Borghezio e altri, oggetto di procedimento penale pendente innanzi il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Verona, odierno ricorrente».

La Camera dei deputati deduce, preliminarmente, l’inammissibilità del conflitto per quattro distinti ordini di ragioni.

3.1. ¾ In primo luogo, si sostiene che, nell’atto introduttivo del giudizio per conflitto, «il ricorrente non ha operato alcuna significativa e rilevante distinzione tra le posizioni soggettive dei singoli parlamentari ai quali si contesta l’applicabilità della guarentigia» di cui all’art. 68, primo comma, Cost., così contravvenendo all’onere di completezza ed autosufficienza del ricorso.

La resistente soggiunge che, nel caso di specie, avendo la sentenza n. 267 del 2005 di questa Corte, pur riconoscendo la possibilità di impugnare con un unico ricorso più deliberazioni di insindacabilità, già dichiarato inammissibile per «indeterminatezza» di contenuto «un identico conflitto proposto nei confronti del Senato della Repubblica relativamente alle posizioni dei Senn. Gnutti e Speroni», l’attuale ricorrente avrebbe dovuto specificare con maggior rigore le posizioni dei parlamentari imputati, là dove queste, invece, sono rimaste «senza alcun reale distinguo», giacché, oltre a non rimarcarsi alcuna differenza tra cariche rivestite dagli stessi parlamentari, «si mescolano attività del tutto diverse tra loro, come la “complessiva gestione degli associati”; l’attività di “promozione, proselitismo, diffusione del programma”; “l’organizzazione e direzione della struttura”; senza che mai dalla lettura del ricorso possa collegarsi univocamente ad ogni singolo deputato una (o più) di tali attività».

3.2. ¾ Altra ragione di inammissibilità viene ravvisata nella «affermazione del ricorrente che il presente conflitto costituirebbe, in realtà, la riproposizione del conflitto già elevato nei confronti del Senato della Repubblica» (come si legge a pagina 4 del ricorso stesso: «Questo Giudice ritiene di riproporre il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato nei confronti della Camera dei Deputati») e dichiarato inammissibile con l’ordinanza n. 102 del 2007.

Sebbene il conflitto non sia proposto nei confronti del medesimo organo costituzionale, né nei confronti del medesimo atto, sussisterebbero «gli altri elementi indicati dalla pronuncia ora riportata: l’identità del procedimento e della sua fase e l’identità del ricorrente».

3.3. ¾ Come terza eccezione di inammissibilità la Camera dei deputati individua il fatto che «il ricorrente non ha chiesto l’annullamento delle deliberazioni della Camera oggetto di contestazione».

La resistente, pur rammentando la giurisprudenza che ha superato eccezioni di tal fatta (sentenza n. 342 del 2007), reputa che, nella fattispecie, si debba operare una diversa valutazione, giacché, avendo il ricorso impugnato unitariamente più deliberazioni di insindacabilità, la sua «indeterminatezza e imprecisione […] rendono del tutto insormontabile il vizio della mancata richiesta di annullamento, poiché, a fronte di una pluralità di deliberazioni, è ben possibile una diversità di valutazione di ciascuna di esse, diversità di valutazione che deve trovare congrua manifestazione nella richiesta di annullamento (di una, di più, o foss’anche di tutte le deliberazioni)».

3.4. ¾ L’ultima eccezione di inammissibilità attiene alla mancata delimitazione temporale dell’ambito «dei fatti rilevanti», risultando dal capo di imputazione la seguente indicazione: «In Verona in un periodo ricompreso tra giugno e settembre 1996 e anche successivamente».

Ad avviso della Camera, posto che la valutazione sul nesso funzionale «è condizionata alla sussistenza di un rapporto di “sostanziale contestualità” tra le opinioni manifestate extra moenia e quelle manifestate negli atti parlamentari tipici» e considerata la possibilità, riconosciuta dalla giurisprudenza (sent. n. 221 del 2006), di utilizzare a tal fine anche atti funzionali che seguono le dichiarazioni extra moenia, non sarebbe possibile «identificare compiutamente l’ambito degli atti rilevanti al fine della determinazione dell’esistenza o meno del nesso funzionale», con conseguente compromissione del diritto di difesa della controparte.

3.5. ¾ Tanto premesso, la Camera dei deputati argomenta diffusamente sull’infondatezza nel merito del ricorso, sostenendo che tutti i parlamentari imputati «hanno adottato atti tipici di funzione nei quali sono state manifestate le medesime opinioni che, rese anche all’esterno, sono ora oggetto di contestazione».

In tal senso, si precisa, anzitutto, che «tutti i deputati in questione sono stati iscritti al Gruppo Lega Nord della Camera, che ha assunto nella XIII Legislatura la denominazione “Lega Nord – per l’indipendenza della Padania”, con ciò esplicitandosi anche formalmente l’adesione ad un programma politico volto al conseguimento di forme assai accentuate di indipendenza/autonomia». La difesa della Camera, al fine di corroborare tale assunto, richiama (ed allega) numerosi atti parlamentari relativi ad interventi, interrogazioni, interpellanze, mozioni, risoluzioni e ordini del giorno riconducibili ai deputati imputati nel giudizio penale pendente dinanzi al ricorrente.

Pertanto, nella memoria difensiva, si sostiene che, dagli atti parlamentari tipici indicati e prodotti, si evincerebbe che i suddetti deputati avrebbero «perorato la causa delle Regioni del Nord e della “Padania”, lamentando l’invadenza dei poteri centrali e reclamando l’esigenza di dare vita a strutture decisionali autonome (come, fra le altre, il “parlamento della Padania”), collegate al partito di appartenenza», sicché, le opinioni esterne, contestate dal giudice ricorrente coinciderebbero «interamente con quelle rinvenibili negli atti parlamentari tipici». Ad avviso della Camera, inoltre, la contestazione ai parlamentari interessati dal capo di imputazione di aver «contribuito a costituire, potenziare e dirigere il gruppo associativo “Camicie Verdi” o “Guardia nazionale padana”, teorizzandone le finalità, coordinando le modalità di impiego degli appartenenti all’associazione, provocando l’adesione di terzi a detta associazione e ai suoi scopi attraverso una “attività di diffusione del programma”, è proprio di condotte verbali e di opinioni, che qui si discute, e quindi di pure proiezioni esterne degli atti tipici del mandato parlamentare».

La resistente sostiene, infine, di non voler seguire la tesi della sufficienza della «mera politicità del contenuto delle opinioni di un parlamentare, ovvero l’esistenza di un contesto politico in cui esse si inseriscano», per l’applicabilità dell’art. 68, primo comma, Cost., puntualizzando, però, che, ai fini di una effettività del principio di rappresentatività del mandato parlamentare, deve superarsi «l’imposizione di un “passaggio” parlamentare delle opinioni tale che debba necessariamente sussistere una connessione puntuale tra singoli atti parlamentari e singole opinioni manifestate all’esterno», così da rendere sostanzialmente inoperativi gli artt. 67 e 68 Cost., mentre è necessario ritenere che la “proiezione esterna” dell’attività parlamentare «riguardi i contenuti della politica parlamentare e non quelli del singolo, puntuale atto tipico», giacché «il mandato rappresentativo non si esaurisce nel compimento di atti “tipici”, ma si manifesta nel raccordo costante tra rappresentante e rappresentato, nelle forme della comunicazione democratica che assicurano il rispetto del principio […] di responsività dell’azione dei titolari di cariche rappresentative».

4. ¾ In prossimità dell’udienza, la Camera dei deputati ha depositato memoria illustrativa con la quale, ribadendo le eccezioni e difese avanzate ed illustrate nell’atto di costituzione, insiste nelle conclusioni in precedenza rassegnate.

Considerato in diritto

1. ¾ Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Verona ha sollevato conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alle deliberazioni adottate dall’Assemblea nella seduta del 2 maggio 2007 (doc. IV-quater, n. 9), con le quali si è ritenuto che i fatti per i quali è in corso, dinanzi al medesimo GUP, un giudizio penale nei confronti dei deputati Mario Borghezio, Umberto Bossi, Enrico Cavaliere, Giacomo Chiappori, Giancarlo Pagliarini, Luigino Vascon, Roberto Maroni e Roberto Calderoli – per il reato di cui agli artt. 81 del codice penale ed 1 del d.lgs. 14 febbraio 1948, n.43 (Divieto delle associazioni di carattere militare) – concernono opinioni espresse da membri del Parlamento nell’esercizio delle loro funzioni e sono pertanto insindacabili ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.

2. ¾ In via preliminare, devono essere respinte le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dalla Camera dei deputati, sia per il fatto che lo stesso giudice confliggente avrebbe affermato che il ricorso costituisce «la riproposizione del conflitto già elevato nei confronti del Senato della Repubblica» e dichiarato inammissibile con l’ordinanza n. 102 del 2007, sia perché non sarebbe stato richiesto «l’annullamento delle deliberazioni della Camera oggetto di contestazione».

2.1. ¾ Quanto alla prima eccezione, essa si fonda su una lettura formalistica del ricorso, giacché si comprende agevolmente dalla lettura complessiva dell’atto che il GUP del Tribunale di Verona ha inteso proporre un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nuovo e diverso rispetto a quello già sollevato contro le delibere di insindacabilità concernenti i fatti ascritti ai senatori Gnutti e Speroni e definito, dapprima, con sentenza n. 267 del 2005, di inammissibilità, e poi, all’esito di riproposizione, con ordinanza n. 102 del 2007, anch’essa di inammissibilità. Ed è, infatti, lo stesso ricorrente ad evidenziare che il presente conflitto attiene ad ulteriori delibere di insindacabilità provenienti da un differente organo costituzionale (appunto, la Camera dei deputati) e relative a parlamentari diversi da quelli innanzi menzionati. Circostanze, queste, fatte palesi nel ricorso, come, del resto, riconosce la stessa resistente.

         2.2. ¾ Anche la seconda eccezione è priva di fondamento, giacché, come affermato da questa Corte (sentenza n. 342 del 2007), soltanto da una valutazione complessiva del ricorso è dato desumere se la mancata richiesta di annullamento della deliberazione di insindacabilità impugnata costituisca una carenza meramente formale e come tale non suscettibile di impedire la delibazione nel merito. Nel caso all’esame, emerge evidente, dal tenore dell’intero ricorso, la volontà del giudice confliggente di porre rimedio, attraverso lo strumento del conflitto, alla asserita lesione delle proprie attribuzioni giurisdizionali da parte delle deliberazioni di insindacabilità approvate dalla Camera il 2 maggio 2007.

         3. ¾ Il ricorso è, comunque, inammissibile.

3.1. ¾ Questa Corte, con la già ricordata sentenza n. 267 del 2005, concernente la vicenda, analoga alla presente, riguardante i senatori Vito Gnutti e Francesco Speroni, concorrenti nei medesimi reati contestati ai deputati ai quali si riferiscono le deliberazioni attualmente impugnate, ha dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal medesimo GUP del Tribunale di Verona avverso le deliberazioni di insindacabilità del Senato della Repubblica 31 gennaio 2001, per non aver il ricorrente assolto all’onere «di una enunciazione esaustiva “delle condotte poste in essere dagli imputati” che prescinda dalla tecnica adottata nella formulazione del capo di imputazione e dalla sussistenza dei requisiti minimi di indicazione del “fatto” prescritti dal codice di procedura penale». Di qui, l’impossibilità, in radice, di «stabilire se quella ascrivibile a ciascuno dei due parlamentari sia la realizzazione di un comportamento di carattere materiale o la manifestazione di una opinione, rimanendo così preclusa la possibilità di valutare se ricorrano le condizioni per l’operatività della prerogativa di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione».

3.2. ¾ Con il presente ricorso per conflitto, il GUP del Tribunale di Verona, anzitutto, individua i fatti materiali addebitati ai deputati Borghezio, Bossi, Cavaliere, Chiappori, Pagliarini, Vascon, Maroni e Calderoli in forza di quanto indicato dal capo di imputazione che li riguarda e cioè quello attinente al reato – l’unico residuato dopo la sentenza di proscioglimento per i reati di cui agli artt. 241, 283 e 271 cod. pen., non più previsti dalla legge come tali a seguito della declaratoria di incostituzionalità recata dalla sentenza n. 243 del 2001 di questa Corte e della successiva novella legislativa 24 febbraio 2006, n. 85 (Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione) – previsto dall’art. 1 del d.lgs. n. 43 del 1948, che punisce la promozione, costituzione, organizzazione, direzione e partecipazione ad associazioni di carattere militare, le quali perseguano, anche indirettamente, scopi politici.

         Nel ricorso vengono individuate anche le singole cariche asseritamente ricoperte da ciascun parlamentare nell’ambito della “associazione paramilitare”, delineandone, sommariamente, i compiti; viene, altresì, descritto il contenuto dello “Statuto” della “Guardia Nazionale Padana” e rammentati, brevemente, i risultati delle indagini condotte dagli inquirenti, segnatamente quanto al lavoro di reclutamento ed impiego degli appartenenti all’associazione, alla struttura organizzativa della stessa ed agli obiettivi che con essa ci si prefiggeva di realizzare, ipotizzandosi un collegamento tra siffatta ricostruzione e le singole posizioni interessate dal conflitto.

Tuttavia, anche nel caso all’esame, il ricorrente non si sottrae alla tecnica descrittiva dei comportamenti oggetto di incriminazione tramite il mero rinvio al capo di imputazione, che rappresenta, essenzialmente, il riferimento privilegiato da cui poter attingere gli elementi individuativi dei fatti ascritti ai deputati investiti dall’imputazione medesima. Peraltro, non può sottacersi che, proprio sotto il profilo descrittivo, il capo di imputazione oggetto della presente delibazione appare, tra gli altri che originariamente hanno riguardato anche le posizioni dei senatori Gnutti e Speroni, quello che maggiormente mira a delineare, più che i singoli apporti dei concorrenti nel reato, gli aspetti organizzativi ed il modus operandi complessivo della struttura denominata “Camicie Verdi”, poi confluita nella più articolata organizzazione denominata “GNP (guardia nazionale padana)”. Ne deriva che la stessa indicazione della carica ricoperta da ciascun parlamentare in seno alle “camicie verdi”, essendo disgiunta dalla puntuale indicazione dei concreti compiti e funzioni, non può soddisfare l’esigenza di specificità ed autosufficienza del ricorso sotto il profilo della descrizione dei fatti oggetto delle deliberazioni di insindacabilità impugnate.

Ne è conferma, infine, il fatto che il contenuto dello statuto, su cui invece si sofferma il ricorso, assume, però, una valenza neutrale rispetto alla anzidetta esigenza di puntualizzazione delle condotte ascritte a ciascun parlamentare, posto che essa rimane sul piano dell’astrattezza degli obiettivi che l’organizzazione partecipata dai deputati interessati dal conflitto si è proposta. Del pari, opera soltanto in astratto la evidenziazione dei risultati delle indagini condotte dagli organi inquirenti, non trovando esse, nella narrativa dell’atto introduttivo del presente giudizio, una specifica riconduzione a concrete e puntuali condotte tra quelle oggetto di addebito.

3.3. ¾ In definitiva, l’esposizione dei fatti contenuta nel ricorso non consente di valutare quale sia l’effettiva condotta ascrivibile a ciascun parlamentare e in che termini la stessa si atteggi e venga a modularsi in relazione al complessivo tenore del capo di imputazione, impedendo così una delibazione in ordine alla sussistenza delle condizioni per l’operatività della prerogativa della insindacabilità di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Verona nei confronti della Camera dei deputati ed indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 luglio 2009.