Sentenza n. 184 del 2009

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SENTENZA N. 184

ANNO 2009

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

composta dai signori:

- Francesco                 AMIRANTE                    Presidente

- Ugo                          DE SIERVO                    Giudice

- Paolo                       MADDALENA                         "

- Alfio                         FINOCCHIARO                       "

- Alfonso                     QUARANTA                            "

- Franco                      GALLO                                    "

- Luigi                         MAZZELLA                             "

- Gaetano                    SILVESTRI                              "

- Sabino                      CASSESE                                "

- Maria Rita                 SAULLE                                  "

- Giuseppe                  TESAURO                               "

- Paolo Maria              NAPOLITANO                         "

- Giuseppe                  FRIGO                                     "

- Alessandro                CRISCUOLO                           "

- Paolo                       GROSSI                                   "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 442, comma 1-bis, del codice di procedura penale, «richiamato dall'art. 556, comma 1», del medesimo codice, promosso dal Tribunale di Fermo nel procedimento penale a carico di B.S. con ordinanza dell'11 aprile 2007, iscritta al n. 815 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell'anno 2008.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 1° aprile 2009 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

 

Ritenuto in fatto

      1. – Con ordinanza dell'11 aprile 2007 il Tribunale di Fermo, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo e quarto comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 442, comma 1-bis, del codice di procedura penale, «richiamato dall'art. 556, comma 1», del medesimo codice, «nella parte in cui prevede l'utilizzabilità, nel giudizio abbreviato, ai fini della decisione sul merito dell'imputazione – in assenza di situazioni riconducibili ai paradigmi di deroga al contraddittorio dettati dall'art. 111, quinto comma, Cost. – degli atti di investigazione difensiva a contenuto dichiarativo, unilateralmente assunti».

      Il giudice a quo premette di essere investito del processo penale nei confronti di una persona imputata del delitto di cui all'art. 486 del codice penale (falsità in foglio firmato in bianco), per il quale il pubblico ministero aveva esercitato l'azione penale mediante citazione diretta a giudizio.

      Prima dell'apertura del dibattimento, il difensore e procuratore speciale dell'imputato aveva depositato il fascicolo delle investigazioni difensive, contenente verbali di assunzione di sommarie informazioni rese ai sensi degli artt. 391-bis e 391-ter, comma 3, cod. proc. pen., formulando contestuale richiesta di giudizio abbreviato «non condizionato» e chiedendo che i predetti atti di investigazione difensiva venissero utilizzati ai fini della decisione sul merito dell'imputazione. Disposto il rito alternativo – che veniva accettato dalla parte civile – il pubblico ministero e la stessa parte civile facevano dare atto, «per quanto potesse rilevare», del proprio dissenso all'utilizzazione degli atti unilateralmente raccolti dal difensore dell'imputato.

      Ciò premesso, il rimettente osserva – in punto di rilevanza della questione – che l'utilizzabilità a fini decisori, nel giudizio abbreviato, delle investigazioni difensive risponde «ad un consolidato – quanto opinabile – indirizzo interpretativo», avallato in più d'una occasione dalla stessa Corte costituzionale (vengono citate le ordinanze n. 245 e n. 57 del 2005); e che non ricorre, d'altro canto, nella specie, alcuna ipotesi di «impossibilità di natura oggettiva» o di «provata condotta illecita», atta a giustificare una deroga al principio della formazione della prova in contraddittorio, ai sensi del quinto comma dell'art. 111 Cost.

    Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente assume che la norma censurata si porrebbe in contrasto, anzitutto, con il principio costituzionale del «contraddittorio nella formazione della prova» nella «parità delle armi» (art. 111, secondo e quarto comma, Cost.).

      Al riguardo, il giudice a quo rileva come nel nuovo art. 111 Cost. il concetto di «contraddittorio» venga evocato in due accezioni distinte: talora, cioè, nell'aspetto «oggettivo» di metodo di accertamento dei fatti; talaltra, invece, nel senso «soggettivo» di garanzia individuale. In particolare, la prima parte del quarto comma di detto articolo, sancendo che «il processo penale è retto dal principio del contraddittorio nella formazione della prova», detterebbe una prescrizione di natura oggettiva, posta a tutela del processo penale e intesa ad assicurare il contraddittorio come metodo di conoscenza. Al contrario, il precedente terzo comma, nello stabilire che «la legge assicura che la persona accusata di un reato […] abbia facoltà davanti al giudice di interrogare o di far interrogare le persone che rendano dichiarazioni a suo carico», porrebbe una regola di tipo soggettivo, funzionale alla tutela dell'imputato.

      In simile contesto, sarebbe peraltro erroneo – ad avviso del rimettente – interpretare il principio del contraddittorio come un «diritto soggettivo» attribuito al solo imputato. La «storia politico-legislativa» della riforma della norma costituzionale e la «collocazione sistematica del principio di elaborazione dialettica della prova» renderebbero, difatti, indubitabile che il legislatore costituzionale abbia inteso fare del contraddittorio «lo statuto epistemologico della giurisdizione» (art. 111, secondo comma, Cost.) e, del contraddittorio nella formazione della prova, «la specificità della giurisdizione penale» (art. 111, quarto comma, Cost.): soltanto nel processo penale, cioè, il contraddittorio dovrebbe necessariamente calarsi «dentro il momento genetico della prova». In tale ottica, il principio in questione indicherebbe al legislatore ordinario il canone minimo di ammissibilità delle prove penali: esso non consentirebbe, in specie, che materiali conoscitivi non formati in contraddittorio trovino ingresso nel processo ai fini della decisione sul merito della res iudicanda, mentre lascerebbe impregiudicata la loro utilizzabilità ai fini di decisioni incidentali (su misure cautelari, intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, ecc.) o processuali (archiviazione, sentenza di non luogo a procedere, sentenza di incompetenza).

      Gli elementi probatori formati unilateralmente da uno degli antagonisti, ossia senza una partecipazione congiunta dell'altro nella «fase istruttoria», non potrebbero, d'altronde, mai essere considerati come prove assunte in contraddittorio. Di conseguenza, l'utilizzabilità degli elementi raccolti tramite le investigazioni difensive resterebbe legata alla loro riconducibilità alle deroghe previste dal quinto comma dell'art. 111 Cost., in forza del quale «la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita».

    Prescindendo dalle ultime due ipotesi, che non vengono in considerazione nella specie, quanto alla prima non si potrebbe ritenere – a parere del giudice a quo – che, facendo riferimento al consenso del solo imputato, la Costituzione abbia reso irrilevante la posizione delle altre parti. Il sostantivo «consenso» evocherebbe, difatti, in senso tecnico-giuridico, una manifestazione di volontà con la quale un soggetto rimuove «un limite all'agire altrui nella propria sfera giuridica»: manifestazione di volontà che in tanto può risultare efficace in quanto colui dal quale promana abbia la disponibilità esclusiva di un certo assetto di interessi. Il consenso dell'imputato potrebbe valere, perciò, solo in rapporto ad elementi a lui potenzialmente sfavorevoli, in quanto raccolti dalle altre parti: esso costituirebbe, in specie, una rinuncia al contraddittorio in senso soggettivo ed alla tutela rappresentata dalla inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da chi ha eluso il confronto con la difesa; laddove, invece, il contraddittorio in senso oggettivo resterebbe indisponibile unilateralmente.

      Con riguardo agli elementi formati dal difensore dell'imputato, il consenso potrebbe logicamente promanare, dunque, solo dalle parti che hanno un interesse contrario: conclusione, questa, che sarebbe imposta dallo stesso art. 111 Cost., il quale al secondo comma – con riferimento alla giurisdizione in genere – afferma che ogni processo deve svolgersi «nel contraddittorio tra le parti in condizioni di parità».

      Opinare diversamente significherebbe, in pratica, rendere l'accusato «arbitro della prova», riducendo il principio del contraddittorio nel solo alveo del diritto di difesa. Non solo: ma la tesi contrastata porterebbe a ritenere incostituzionali le norme che, con riferimento al dibattimento, subordinano l'acquisizione ai fini della prova di atti formati unilateralmente non al mero «consenso» dell'imputato, ma all'accordo di tutte le parti (artt. 431, comma 2, 493, comma 3, 555, comma 4, cod. proc. pen.), giacché, in tal modo, esse determinerebbero – nella prospettiva osteggiata – un «aggravio» della posizione dell'imputato stesso.

      Nessuna indicazione di segno contrario a tale ricostruzione potrebbe essere d'altro canto ricavata – secondo il giudice a quo – dall'ordinanza della Corte costituzionale n. 245 del 2005, che ha scrutinato la questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 111, secondo comma, Cost., dell'art. 438, comma 5, cod. proc. pen., avuto riguardo all'ipotesi in cui l'imputato abbia depositato il fascicolo delle investigazione difensive e contestualmente formulato richiesta di giudizio abbreviato. Nell'occasione, la questione era stata infatti sollevata attribuendo una valenza angusta alla garanzia costituzionale: giacché l'ordinanza di rimessione assumeva che, per ricondurre a simmetria il contraddittorio sulla prova, fosse necessario e sufficiente riconoscere al pubblico ministero la facoltà di chiedere la prova contraria, sulla falsariga di quanto già previsto dal legislatore per il rito abbreviato «condizionato».

      A fronte di tale prospettazione, la Corte ha dichiarato la questione manifestamente inammissibile, per non avere il rimettente esplorato le possibilità offerte dall'ordinamento al fine di garantire comunque al pubblico ministero il diritto alla controprova sulle prove addotte «a sorpresa» dall'imputato, anche attraverso differimenti delle udienze congrui rispetto alle concrete fattispecie. In tal modo, peraltro – ad avviso del rimettente – la Corte non avrebbe affatto «certificato» la compatibilità costituzionale dell'utilizzabilità delle indagini difensive nel giudizio abbreviato, reputando bastevole, per assicurare la parità fra le parti rispetto alla formazione della prova, la possibilità di prova contraria da parte del pubblico ministero (e il potere di integrazione probatoria del giudice, previsto dall'art. 441, comma 5, cod. proc. pen.).

      Tale assunto confonderebbe, secondo il giudice a quo, il contraddittorio «nella» formazione della prova – quello inerente, cioè, al suo momento genetico – con il contraddittorio «per» la prova, che postula il diritto delle parti di veder acquisite tutte le prove necessarie alla propria difesa e, quindi, anche le prove contrarie a quelle introdotte dalle altre parti. La regola del contraddittorio «nella» formazione della prova, quale metodo elettivo di accertamento del fatto nel processo penale, esigerebbe, in realtà, che gli elementi di prova «siano formati nel dialogo diretto di tutte le parti con la fonte»: e ciò indipendentemente dalla circostanza che si tratti di prova diretta o di prova contraria.

      La norma impugnata si esporrebbe, per altro verso, a censure di irrazionalità e incoerenza sistematica, rilevanti nella prospettiva della violazione dell'art. 3 Cost.

      Essa determinerebbe, in primo luogo, una ingiustificata disparità di trattamento tra giudizio ordinario e giudizio abbreviato, con riguardo ai poteri probatori dell'imputato in tema di atti di investigazione difensiva a contenuto dichiarativo. Per attribuire valore di prova in dibattimento alle dichiarazioni inserite nel fascicolo del difensore – normalmente utilizzabili, salvi i casi di irripetibilità e di provata condotta illecita, solo per le contestazioni (art. 391-decies, in riferimento agli artt. 500, 512 e 513 cod. proc. pen.) – è infatti necessario l'accordo con il pubblico ministero e con le altre parti eventuali (artt. 431, comma 2, 493, comma 3, 555, comma 4, cod. proc. pen.). Nell'ambito del giudizio abbreviato, invece – nonostante il trattamento premiale connesso alla scelta del rito alternativo – la posizione dell'imputato risulterebbe paradossalmente più favorevole, in quanto l'inserimento nel materiale probatorio di atti di investigazione unilateralmente formati sarebbe espressione di un suo diritto potestativo.

      Il riconoscimento di questo diritto risulterebbe, inoltre, sistematicamente incoerente con la previsione del cosiddetto giudizio abbreviato «condizionato», ossia con la possibilità, per l'imputato, di subordinare la richiesta del rito alternativo ad una «integrazione probatoria» necessaria ai fini della decisione: ipotesi nella quale il giudice può negare l'accesso al rito, ove escluda la necessità dell'integrazione o la sua compatibilità con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, e il pubblico ministero può chiedere l'ammissione di prova contraria (art. 438, comma 5, cod. proc. pen.). Tale istituto resterebbe, difatti, privo di significato a fronte della contemporanea previsione del diritto potestativo dell'imputato di raccogliere unilateralmente il materiale probatorio, di selezionare solo quello utile a fini difensivi e di ottenerne, poi, l'utilizzazione nel giudizio abbreviato «non condizionato», senza correre l'alea del rigetto della richiesta da parte del giudice e del ripristino del diritto alla prova in capo al pubblico ministero.

      2. – È intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

      La difesa erariale eccepisce, in via preliminare, l'insufficienza della motivazione sulla rilevanza della questione, avendo il rimettente riferito soltanto che l'imputato ha chiesto il giudizio abbreviato non condizionato (cosiddetto «secco») e ha contestualmente depositato atti di investigazione a contenuto dichiarativo, senza tuttavia precisare se tali atti siano capaci o meno di orientare il giudizio sull'imputazione.

      Nel merito, la questione risulterebbe comunque infondata.

      Come evidenziato dalla Corte costituzionale nell'ordinanza n. 245 del 2005, nell'ipotesi considerata, da un lato, il pubblico ministero sarebbe legittimato a chiedere l'audizione di testi a controprova; dall'altro, il giudice – anche su sollecitazione del pubblico ministero – sarebbe tenuto ad esercitare il potere di integrazione probatoria di cui all'art. 441, comma 5, cod. proc. pen., in modo da dare piena attuazione ai principi costituzionali in tema di giurisdizione, disponendo – in presenza di adeguati, ma non certo eccezionali motivi – anche l'audizione dell'autore della dichiarazione contenuta nell'atto di investigazione difensiva.

      Considerato, inoltre, che le investigazioni difensive suppliscono ad una attività che, per il principio di completezza delle indagini, sarebbe di competenza del pubblico ministero, e che nel rito abbreviato la pienezza del contraddittorio soffre «qualche limitazione», peraltro giustificata dalle finalità di celerità e deflazione sottese al rito (e, dunque, da valori costituzionali), la prospettata violazione dei principi posti dall'art. 111 Cost. andrebbe esclusa.

      Né potrebbe sostenersi che la previsione dell'utilizzabilità, nel giudizio abbreviato, degli atti di investigazione difensiva del tipo considerato rappresenti un «corpo estraneo», irragionevolmente immesso nell'istituto. Come puntualizzato, infatti, nell'ordinanza della Corte costituzionale n. 57 del 2005, tutti gli atti di investigazione, formati unilateralmente da una delle parti, hanno una maggiore incidenza nel rito abbreviato che in quello ordinario; e, d'altro canto, sarebbe consono al principio di parità delle armi consentire all'imputato l'utilizzo delle proprie investigazioni, anche perché sussistono poteri del pubblico ministero e del giudice idonei a salvaguardare la garanzia del contraddittorio.

      Da ultimo, non potrebbe ravvisarsi alcun contrasto logico tra la previsione, da un lato, della facoltà di chiedere il giudizio abbreviato non condizionato con la produzione di atti di investigazione difensiva del tipo considerato, e, dall'altro, della possibilità di chiedere il giudizio abbreviato condizionato ad una integrazione probatoria. A prescindere, infatti, dal rilievo che quest'ultimo può essere denegato e che non è vero che solo in esso il pubblico ministero può indicare testi a controprova, sarebbe evidente che il rito abbreviato condizionato è destinato a far fronte all'esigenza di introdurre nel giudizio una prova che non ha potuto formare oggetto di investigazione difensiva.

 

Considerato in diritto

      1. – Il Tribunale di Fermo dubita della legittimità costituzionale dell'art. 442, comma 1-bis, del codice di procedura penale, «richiamato dall'art. 556, comma 1», del medesimo codice, «nella parte in cui prevede l'utilizzabilità, nel giudizio abbreviato, ai fini della decisione sul merito dell'imputazione – in assenza di situazioni riconducibili ai paradigmi di deroga al contraddittorio dettati dall'art. 111, quinto comma, Cost. – degli atti di investigazione difensiva a contenuto dichiarativo, unilateralmente assunti».

      Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe, in primo luogo, l'art. 111, secondo e quarto comma, Cost., in quanto, in contrasto con il principio del «contraddittorio nella formazione della prova nella parità delle armi», permetterebbe che facciano ingresso nel processo, ai fini della decisione sul merito della res iudicanda, atti formati unilateralmente da uno degli antagonisti: e ciò senza che possa valere, come ragione di deroga al principio, ai sensi del quinto comma dello stesso art. 111, il consenso dell'imputato, giacché tale consenso potrebbe avere ad oggetto solo gli elementi potenzialmente sfavorevoli all'imputato stesso, in quanto raccolti dalle altre parti, e non anche quelli scaturenti da una propria iniziativa d'indagine.

      La norma denunciata si porrebbe, altresì, in contrasto con l'art. 3 Cost., giacché determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra il giudizio ordinario, nel quale per introdurre elementi probatori formati unilateralmente dall'imputato occorre il consenso delle altre parti, e il giudizio abbreviato, in cui – ad onta del trattamento premiale connesso alla scelta del rito alternativo – tale introduzione costituirebbe espressione di un diritto potestativo dell'imputato stesso.

      L'art. 3 Cost. risulterebbe leso anche sotto l'ulteriore profilo della incoerenza sistematica con la previsione del giudizio abbreviato «condizionato» (art. 438, comma 5, cod. proc. pen.), nel quale l'imputato che voglia ottenere l'assunzione di un mezzo di prova si espone al rischio del rigetto della richiesta del rito alternativo da parte del giudice ed offre al pubblico ministero il diritto alla prova contraria. Tale istituto rimarrebbe, difatti, privo di significato a fronte del contemporaneo riconoscimento all'imputato del diritto potestativo di raccogliere unilateralmente il materiale probatorio, di selezionare solo quello utile a fini difensivi e di ottenerne, poi, incondizionatamente l'utilizzazione nel giudizio abbreviato «ordinario».

      2. – In via preliminare, va disattesa l'eccezione di inammissibilità della questione per difetto di motivazione sulla rilevanza, formulata dall'Avvocatura generale dello Stato sulla considerazione che il giudice a quo avrebbe omesso di indicare se dagli atti di investigazione, depositati dal difensore, «emergessero fatti capaci di determinare in qualche modo, ove creduti, il giudizio sull'imputazione».

      Un simile giudizio attiene, infatti, al merito della regiudicanda: laddove, invece, il quesito di costituzionalità investe il profilo preliminare, di ordine processuale, relativo all'utilizzabilità, ai fini della deliberazione, del materiale investigativo prodotto dalla difesa nell'ambito del rito semplificato; utilizzabilità a fronte della quale il giudice a quo sarebbe tenuto comunque a valutare il suddetto materiale e a motivare, in sede di decisione, sul perché non lo ritenga eventualmente concludente o attendibile.

      3. – Nel merito, la questione non è fondata.

    3.1. – È necessario anzitutto precisare – quanto al thema decidendum – che la censura di incostituzionalità mira ad estromettere in radice dal materiale utilizzabile ai fini decisori nel giudizio abbreviato tutte quante le risultanze delle indagini difensive, almeno con riguardo agli «atti a contenuto dichiarativo» (limitazione, per vero, non chiarita, trattandosi di atti che costituiscono un momento qualificante di dette indagini, ma non i soli possibili), salve le fattispecie impeditive dell'acquisizione della prova in contraddittorio previste dall'art. 111, quinto comma, Cost. («impossibilità di natura oggettiva» e «provata condotta illecita»). Il quesito viene prospettato, invero, in termini generali, indipendentemente dalle modalità con le quali le investigazioni difensive siano portate alla cognizione del giudice del rito speciale (sono, dunque, comprese nella censura – che ne implicherebbe l'inutilizzabilità – anche quelle la cui documentazione fosse già nel fascicolo presentato dal pubblico ministero ai sensi dell'art. 416, comma 2, cod. proc. pen.). Il rimettente prescinde, poi e in particolare, dall'eventualità, verificatasi nel giudizio a quo, che la documentazione difensiva venga prodotta “a sorpresa” immediatamente prima della richiesta di giudizio abbreviato: ipotesi, questa, presa in esame dall'ordinanza n. 245 del 2005 di questa Corte, invocata dall'Avvocatura generale dello Stato nelle proprie difese, ma che attiene al diverso problema della parità delle parti nell'introduzione e non già nell'acquisizione e utilizzazione del materiale probatorio.

      3.2. – Ciò premesso, quanto al primo dei parametri costituzionali evocati – vale a dire il principio del «contraddittorio nella formazione della prova nella parità delle armi», desumibile dalla disposizione combinata del quarto e del secondo comma dell'art. 111 Cost. – l'argomento fondante della tesi del rimettente è rappresentato dall'asserita esigenza di offrire una interpretazione non letterale del quinto comma dello stesso art. 111, nella parte in cui prefigura – demandando alla «legge» di regolarne «i casi» – una deroga a tale principio basata sul «consenso dell'imputato».

      Secondo il giudice a quo, occorrerebbe infatti tener conto della valenza intrinseca del principio stesso – enunciato in rapporto al solo processo penale – il quale postula che le parti siano poste in grado di partecipare attivamente al momento genetico della prova, e non soltanto di formulare a posteriori valutazioni sull'elemento acquisito da una di esse in assenza dell'altra; contrapponendosi, per tal verso, al più generico principio dello svolgimento del processo in contraddittorio, che a mente del secondo comma dell'art. 111 Cost. deve improntare ogni tipo di processo.

    Posto che nel nuovo art. 111 Cost. il concetto di «contraddittorio» risulterebbe evocato in due accezioni distinte – talora, cioè, nell'aspetto «oggettivo» di metodo di accertamento dei fatti; talaltra, invece, nel senso «soggettivo» di garanzia individuale – il rimettente assume che il contraddittorio di cui è parola nel quarto comma rappresenti propriamente una garanzia metodologica di tipo oggettivo, basata sulla convinzione che la formazione della prova con il contributo dialettico di tutte le parti (e alla presenza del giudice) assicuri nel migliore modo il corretto giudizio sui fatti oggetto dell'imputazione.

    In questa prospettiva, il contraddittorio nella formazione della prova, in quanto valore funzionale al processo in sé, non sarebbe disponibile unilateralmente da alcuna delle parti. La previsione di una deroga basata sul «consenso» sarebbe giustificabile solo nell'ottica della “fattispecie vicaria”: il consenso dimostrerebbe, cioè, la «superfluità» del contraddittorio, potendosi presumere che la parte non rinuncerebbe ad esso, ove ritenesse l'elaborazione dialettica della prova suscettibile di condurre a risultati difformi, e a lei più favorevoli, di quelli forniti dall'atto di indagine unilateralmente espletato.

    Affinché possa operare tale presunzione, sarebbe tuttavia indispensabile che il consenso promani dalla parte contrapposta a quella che ha raccolto l'elemento di indagine, e che risulterebbe, quindi, potenzialmente interessata ad escluderlo dal materiale probatorio. Di conseguenza, l'imputato potrebbe abdicare al metodo del contraddittorio solo in rapporto agli elementi di indagine raccolti dal pubblico ministero, e non anche a quelli scaturenti da una sua stessa iniziativa investigativa (la cui acquisizione dovrebbe essere semmai consentita dalla parte pubblica): e ciò anche ad evitare che si produca uno squilibrio inaccettabile alla luce del principio di parità delle parti, sancito dal secondo comma dell'art. 111 Cost.

    3.3. – Questi assunti del giudice a quo non possono essere condivisi.

    La constatazione che il principio del contraddittorio nella formazione della prova, enunciato dal primo periodo del quarto comma dell'art. 111 Cost., si traduca in un «metodo di conoscenza dei fatti oggetto del giudizio» (sentenza n. 32 del 2002) – così da evocare, secondo quanto affermato da questa Corte all'indomani della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, la «dimensione oggettiva» del contraddittorio stesso (sentenza n. 440 del 2000) – non è, di per sé, dirimente circa le prospettive di salvaguardia sottese alla garanzia in parola, configurata dal dettato costituzionale come tipica ed esclusiva del processo penale. Profilo in rapporto al quale viene in precipuo rilievo proprio la previsione derogatoria di cui alla prima parte del quinto comma dello stesso art. 111 e che la citata sentenza n. 440 del 2000 non mancò di ricordare, pur senza approfondirne la valenza.

    Come più di recente questa Corte ha rimarcato, difatti, «a prescindere da qualsiasi considerazione sulla validità della concezione oggettiva del contraddittorio», l'«enunciazione del quarto comma dell'art. 111 Cost., secondo cui nel processo penale “la formazione della prova è regolata dal principio del contraddittorio”, non comporta che il cosiddetto profilo oggettivo del medesimo non sia correlato con quello soggettivo e non costituisca comunque un aspetto del diritto di difesa», come attesta eloquentemente la circostanza che il successivo quinto comma, «nell'ammettere la deroga al principio, fa riferimento anzitutto al consenso dell'imputato» (sentenza n. 117 del 2007).

    Catalogare i diritti sanciti dall'art. 111 Cost. in due classi contrapposte – ora, cioè, tra le «garanzie oggettive», ora tra quelle «soggettive» – risulta in effetti fuorviante, nella misura in cui pretenda di reinterpretare, in una prospettiva di protezione dell'efficienza del sistema e delle posizioni della parte pubblica, garanzie dell'imputato, introdotte nello statuto costituzionale della giurisdizione e prima ancora nelle Convenzioni internazionali essenzialmente come diritti umani.

    Il senso della scelta costituzionale, sul versante che qui interessa, è in realtà immediatamente percepibile. Nel momento stesso in cui prevede una deroga basata sul «consenso dell'imputato» (e non già sul «consenso delle parti» o della «parte controinteressata»), ponendola per giunta al vertice della terna di ipotesi derogatorie ivi contemplate, il quinto comma dell'art. 111 Cost. rivela chiaramente che il principio del contraddittorio nel momento genetico della prova rappresenta precipuamente – nella volontà del legislatore costituente – uno strumento di salvaguardia «del rispetto delle prerogative dell'imputato» (in questi termini, si veda la sentenza n. 29 del 2009).

    Nelle previsioni dell'art. 111 Cost. è stata delineata una protezione costituzionale specifica per l'imputato, particolarmente in tema di prove: insieme al suo diritto (storico connotato della difesa dell'accusato) di confrontarsi con le fonti di prova a carico e di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa (terzo comma), insieme altresì al divieto di provare la sua colpevolezza sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte sua o del suo difensore (quarto comma, secondo periodo), si è infine riconosciuta la sua facoltà di rinunciare unilateralmente all'assunzione delle prove in contraddittorio (quinto comma).

    3.4. – Questa ultima previsione non implica, tuttavia, che il legislatore ordinario sia tenuto a rendere sistematicamente disponibile il contraddittorio nella formazione della prova, prevedendone la caduta ogni qualvolta l'imputato manifesti una volontà in tale senso. L'enunciato normativo – «la legge regola i casi […]» – si atteggia difatti, per tale verso, in termini permissivi: esso legittima, cioè, il legislatore ordinario a prevedere ipotesi nelle quali il consenso dell'imputato, unitamente ad altri presupposti, determina una più o meno ampia acquisizione di elementi di prova formati unilateralmente; e ciò, in particolare, ove si intenda assecondare esigenze di economia processuale, lasciando spazio – allorché il soggetto, nel cui precipuo interesse la garanzia è posta, ritenga di potervi rinunciare – ad istituti idonei a contenere i tempi occorrenti per la definizione del processo e le risorse in esso impiegate. Laddove è peraltro implicito che la fattispecie debba essere comunque configurata in maniera tale da assicurare uno svolgimento equilibrato del processo, evitando che la rinuncia al contraddittorio da parte dell'imputato pregiudichi a priori la correttezza della decisione.

    In questa prospettiva, il legislatore ben può configurare (e talora, anzi, non può esimersi dal configurare), in determinati casi, quale fattispecie di deroga al contraddittorio non già il solo consenso dell'imputato, ma l'accordo delle parti, come avviene, tipicamente, nelle diverse ipotesi di acquisizione concordata al fascicolo per il dibattimento di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero o della documentazione dell'attività di investigazione difensiva (artt. 431, comma 2, 493, comma 3, 500, comma 7, 513, comma 2, e 555, comma 4, cod. proc. pen.). La considerazione giova, tra l'altro, a dimostrare l'infondatezza dell'assunto del giudice a quo, stando al quale, ove si ritenesse che, ai sensi del quinto comma dell'art. 111 Cost., il consenso del solo imputato sia sufficiente ai fini della deroga al contraddittorio nella formazione della prova, le citate disposizioni in tema di acquisizione concordata delle prove diverrebbero incostituzionali, poiché “aggraverebbero” la posizione dell'imputato rispetto a quanto stabilito dalla Costituzione. Vale, invece, il contrario, dovendosi considerare che le suddette fattispecie di accordo delle parti appaiono coerenti con il contesto del giudizio in dibattimento, sede processuale destinata – tutto all'opposto di quella del giudizio abbreviato – al pieno sviluppo del contraddittorio attraverso l'assunzione dialettica della prova, onde si giustifica che una deroga a esso possa fondarsi solo sulla rinuncia “incrociata” delle parti, a fronte di una regola generale – discendente dal principio della separazione delle fasi – di inutilizzabilità, se non per le contestazioni, degli atti di indagine, sia del pubblico ministero che del difensore.

    È a questo proposito che viene, in effetti, in rilievo il principio di parità delle parti, sancito dal secondo comma dell'art. 111 Cost. Ma non già nel senso – contrastante con la lettera del quinto comma – di imporre che, quando si discuta dell'utilizzabilità a fini decisori delle investigazioni difensive, occorra sempre e comunque il consenso del pubblico ministero (e delle altre parti); quanto piuttosto nell'altro di impegnare il legislatore ordinario ad evitare che i presupposti e le modalità operative del riconoscimento all'imputato della facoltà di rinunciare alla formazione della prova in contraddittorio determinino uno squilibrio costituzionalmente intollerabile tra le posizioni dei contendenti o addirittura una alterazione del sistema.

    3.5. – Ciò non avviene nell'ambito del giudizio abbreviato, ove gli atti di investigazione difensiva acquistano valore solo come effetto della più generale rilevanza probatoria riconosciuta all'intera indagine preliminare, alla pari con quelli dell'indagine del pubblico ministero e quindi con rinuncia generalizzata al contraddittorio per la formazione della prova.

    In simile cornice, l'utilizzabilità anche degli atti di investigazione difensiva – compresi quelli a contenuto dichiarativo – come conseguenza del consenso-rinuncia del solo imputato, implicato dalla richiesta di giudizio abbreviato, non può ritenersi, di per sé, lesiva del principio di parità delle parti, il quale, oltre tutto – per consolidata giurisprudenza di questa Corte –, non comporta necessariamente l'identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell'imputato, potendo una disparità di trattamento risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze di funzionale e corretta amministrazione della giustizia; e ciò anche in una prospettiva di complessivo riequilibrio dei poteri dei contendenti, avuto riguardo alle disparità di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da quella in cui s'innesta la singola norma discriminatrice avuta di mira (tra le molte, sentenze n. 320 e n. 26 del 2007).

    La fase delle indagini preliminari è, in effetti, caratterizzata da un marcato squilibrio di partenza fra le posizioni delle parti, correlato alla funzione istituzionale del pubblico ministero: i poteri e i mezzi investigativi di cui dispone la parte pubblica restano – anche dopo gli interventi operati dalla legge 7 dicembre 2000, n. 397, in tema di disciplina delle investigazioni difensive – largamente superiori a quelli di cui fruisce la difesa. Se, dopo una fase così congegnata, viene offerto all'imputato uno strumento che, nel quadro di un'acquisizione globale dei risultati di tale fase, renda utilizzabili ai fini della decisione anche gli atti di indagine della difesa, non può dunque ravvisarsi alcuna compromissione del principio costituzionale in questione.

    Anzi, la disciplina delle indagini difensive, introdotta con detta legge n. 397 del 2000 (una delle leggi dichiaratamente attuative della riforma dell'art. 111 Cost.), si è proposta proprio con lo scopo di conseguire un minore squilibrio tra le posizioni della parte pubblica e dell'indagato-imputato, delineando una tendenziale pari valenza delle indagini di entrambi.

      D'altro lato, prospettare che, in questa situazione, il consenso dell'imputato possa operare solo verso i risultati delle indagini del pubblico ministero (definiti come “potenzialmente a carico”) e non anche verso quelli delle proprie (assumendosi illogico, perché ovvio e implicito, un tale consenso), contrasta non solo, come detto, con il chiaro dettato costituzionale, ma con il sistema e con la stessa configurazione del rito speciale. In primo luogo, dovere specifico del pubblico ministero è quello della completezza delle proprie indagini, che, dunque, dovrebbero includere anche la puntuale e rigorosa verifica e “tenuta” degli elementi “a carico” nel riscontro con quelli eventualmente “a discarico”. In secondo luogo, non è di per sé accettabile la frammentazione dei risultati dei singoli atti di indagine, una volta che la richiesta di giudizio abbreviato implica accettazione complessiva di tutti e rinuncia del pari complessiva, in relazione a tutti, all'assunzione dialettica in contraddittorio dei dati di rilievo probatorio da essi recati. In questa prospettiva lo stesso imputato, rinunciando al contraddittorio nell'assunzione anche dei dati a sé favorevoli, rinuncia a consolidarne la valenza probatoria ad un livello più alto e certo, quale è indubbiamente quello appunto del contraddittorio.

    3.6. – Parimenti infondate si rivelano le censure di violazione dell'art. 3 Cost.

    Quanto alla denunciata disparità di trattamento tra il giudizio ordinario (nel quale per introdurre elementi probatori formati unilateralmente dall'imputato occorre il consenso delle altre parti) e il giudizio abbreviato (nel quale, invece, nonostante la diminuzione di pena connessa alla scelta del rito, tale introduzione formerebbe oggetto di un «diritto potestativo» dell'imputato stesso), vale il rilievo, dianzi fatto, che gli istituti processuali posti a raffronto – accordo sulla acquisizione a fini probatori di determinati atti di indagine e rito abbreviato – risultano disomogenei e non assimilabili.

    Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, difatti, gli accordi che possono intervenire tra le parti in ordine alla formazione del fascicolo per il dibattimento non escludono affatto il diritto di ciascuna di esse ad articolare pienamente i rispettivi mezzi di prova, secondo l'ordinario, ampio potere loro assegnato per la fase dibattimentale: e ciò a differenza di quanto avviene per il rito abbreviato, la cui peculiarità consiste proprio nel fatto di essere un modello alternativo al dibattimento che continua a fondarsi essenzialmente sul materiale raccolto nel corso delle indagini, a prescindere da qualsiasi meccanismo di tipo pattizio e consente solo una limitata acquisizione di elementi integrativi, così da potersi configurare tuttora quale rito “a prova contratta” (ordinanza n. 182 del 2001).

    3.7. – Il rimettente lamenta, per altro verso, una presunta incoerenza sistematica, dovuta al fatto che il diritto dell'imputato di ottenere l'utilizzazione a fini decisori del materiale investigativo da lui stesso raccolto (e “selezionato”), tramite richiesta di giudizio abbreviato «incondizionato», svuoterebbe di senso l'istituto del giudizio abbreviato «condizionato», nel quale l'imputato che voglia ottenere l'assunzione di un mezzo di prova si espone al rischio del rigetto della richiesta del rito alternativo da parte del giudice e offre al pubblico ministero il diritto alla prova contraria.

    Anche a prescindere, peraltro, dal rilievo che l'ipotizzata perdita di “appetibilità” di una delle varianti di un istituto premiale a fronte della configurazione impressa ad altra variante si risolve in un mero problema di equilibri interni all'istituto stesso, e non già di legittimità costituzionale, l'assunto del rimettente si espone ad una duplice obiezione.

    Da un lato, infatti, l'equiparazione, operata dal giudice a quo, tra dichiarazione assunta unilateralmente dal difensore a fini di indagine (che fa ingresso nel materiale utilizzabile nel caso di giudizio abbreviato semplice) e la prova formata in contraddittorio davanti al giudice (di cui il giudice stesso si avvale nell'abbreviato «condizionato») non è corretta, essendo significativamente dissimile la relativa capacità dimostrativa.

    Dall'altro lato, poi – come nota anche l'Avvocatura generale dello Stato – il giudizio abbreviato «condizionato» conserva comunque una sua utilità e un suo significato in rapporto agli elementi probatori che l'imputato non abbia potuto o voluto acquisire, per qualunque ragione, tramite lo strumento delle investigazioni difensive.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

      dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 442, comma 1-bis, del codice di procedura penale, «richiamato dall'art. 556, comma 1», del medesimo codice, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo e quarto comma, della Costituzione, dal Tribunale di Fermo con l'ordinanza indicata in epigrafe.

      Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 giugno 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 giugno 2009.