Ordinanza n. 459 del 2007

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ORDINANZA N. 459

ANNO 2007

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                      BILE                                        Presidente

- Giovanni Maria          FLICK                                     Giudice

- Francesco                 AMIRANTE                                  "

- Ugo                          DE SIERVO                                  "

- Paolo                        MADDALENA                               "

- Alfio                         FINOCCHIARO                            "

- Alfonso                     QUARANTA                                 "

- Franco                      GALLO                                         "

- Luigi                         MAZZELLA                                  "

- Gaetano                    SILVESTRI                                   "

- Sabino                      CASSESE                                     "

- Maria Rita                 SAULLE                                       "

- Giuseppe                   TESAURO                                     "

- Paolo Maria              NAPOLITANO                              "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) e dell’art. 10 della stessa legge, promosso con ordinanza del 27 aprile 2006 dalla Corte d’appello di Trieste - sezione per i minorenni, nel procedimento penale a carico di D.E. ed altro, iscritta al n. 561 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2006.

         Udito nella camera di consiglio del 12 dicembre 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che la Corte d’appello di Trieste − sezione per i minorenni ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, se non nel caso previsto dall’art. 603, comma 2, cod. proc. pen., quando cioè sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado e sempre che tali prove risultino decisive, e dell’art. 10 della medesima legge;

che la Corte rimettente premette in fatto di essere investita dell’appello proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza con cui gli imputati «sono stati prosciolti» dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale per i minorenni di Trieste perché il fatto non sussiste;

che nell’ordinanza si precisa inoltre che, sopravvenuta nelle more del giudizio la legge n. 46 del 2006 – il cui art. 1 ha sostituito l’art. 593 cod. proc. pen., sottraendo al pubblico ministero il potere di appellare le sentenze di proscioglimento – l’appello proposto dovrebbe essere dichiarato inammissibile in forza di quanto previsto dall’art. 10 della medesima legge;

che, affermata la rilevanza, la rimettente passa ad illustrare i motivi di non manifesta infondatezza della questione, sottolineando in primo luogo, in riferimento al denunciato contrasto con gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., come la Corte costituzionale abbia in più occasioni affermato che il principio di parità tra le parti non comporta necessariamente l’identità dei poteri processuali del pubblico ministero e dell’imputato e che il diverso trattamento riservato al pubblico ministero, per essere conforme a Costituzione, deve trovare una ragionevole giustificazione nella peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, nella funzione allo stesso affidata, ovvero in esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia;

che nessuna di tali ragioni sarebbe viceversa rintracciabile alla base della scelta legislativa di limitare l’appello del pubblico ministero, precludendo all’organo della pubblica accusa l’impugnazione delle sentenze di proscioglimento;

che, d’altro canto, non potrebbe essere ritenuta idonea ragione giustificatrice quella, indicata nei lavori parlamentari, di dare attuazione al principio sancito dall’art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98;

che – ricorda la Corte d’appello rimettente – la Corte costituzionale ha infatti ripetutamente ribadito che il «doppio grado di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia costituzionale» e che «la formulazione dell’art. 2, nel demandare al legislatore interno ampi spazi per la disciplina dell’esercizio del diritto all’impugnazione, non esclude […] che il principio si sostanzi nella previsione del ricorso in Cassazione»;

che sarebbe pertanto ravvisabile la violazione degli artt. 3 e 111 Cost., per la «irragionevole disparità di trattamento» che la disciplina censurata determina a sfavore del pubblico ministero; disparità che, per un verso, non può trovare giustificazione nel fatto che la proposizione dell’appello sia formalmente preclusa anche all’imputato, «ben diverso essendo il rispettivo interesse sostanziale a proporre impugnazione» avverso la sentenza di proscioglimento, e che, per l’altro, non risulta «legittimata» alcuna «apprezzabile esigenza»;

che la rimettente dubita, inoltre, della legittimità costituzionale della disciplina censurata in riferimento al principio della ragionevole durata del processo, sul rilievo che, per effetto delle modifiche recate dalla legge n. 46 del 2006 all’appellabilità delle sentenze di proscioglimento e al giudizio in cassazione (relativamente sia all’estensione dei motivi di ricorso che al rinvio al giudice di primo grado), si è determinato un aumento dei gradi di giudizio, con conseguente allungamento dei tempi processuali e rischio di prescrizione dei reati;

che ciò sarebbe particolarmente evidente in relazione alla disciplina transitoria contenuta nell’art. 10 della legge n. 46 del 2006 che «derogando al principio tempus regit actum […] non solo sacrifica ineludibilmente un atto di gravame tempestivamente proposto, costringendo la parte interessata a presentarne un altro, ma comporta l’inevitabile differimento della presentazione di esso all’eseguita notifica del provvedimento di inammissibilità e, pertanto, ad un termine futuro e incerto, considerati i tempi di fissazione dei processi di appello normalmente scanditi in base ai termini prescrizionali misurati sui tre gradi del giudizio, finora fisiologici».

Considerato che la Corte d’appello di Trieste – sezione per i minorenni dubita, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell’art. 10 della medesima legge;

che l’art. 593 cod. proc. pen. disciplina al comma 2 l’appello del pubblico ministero e dell’imputato avverso le sentenze dibattimentali di proscioglimento, stabilendo − per effetto delle modifiche introdotte dall’art. 1 della legge n. 46 del 2006 ed immediatamente applicabili in forza dell’art. 10 della medesima legge − che l’appello è consentito solo nell’ipotesi di cui all’art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la nuova prova è decisiva;

che dalla stessa ordinanza di rimessione risulta che la Corte rimettente è in realtà investita dell’appello proposto dal pubblico ministero avverso una sentenza pronunciata dal giudice per le indagini preliminari, in funzione di giudice dell’udienza preliminare;

che, dunque, la Corte rimettente sottopone a scrutinio di costituzionalità una norma (l’art. 593 cod. proc. pen.) − unitamente alla relativa disciplina transitoria − di cui non deve fare applicazione nel giudizio a quo;

che l’inesatta indicazione della norma oggetto di censura (aberratio ictus) implica, per costante giurisprudenza di questa Corte, la manifesta inammissibilità della questione (ex plurimis, ordinanze n. 435, n. 384, n. 294, n. 187 e n. 42 del 2007).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell’art. 10 della medesima legge, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Trieste − sezione per i minorenni, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 dicembre 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 28 dicembre 2007.