ORDINANZA N. 187
ANNO 2007
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 233 del
testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di
procedura penale (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n.
271), promosso con ordinanza del 24 marzo 2005 dal Tribunale di Verona nel
procedimento penale a carico di E. G., iscritta al n. 296 del registro
ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2005.
Udito nella camera di consiglio del 4
giugno 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick;
Ritenuto che, con l’ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Verona ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 233 del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271), nella parte in cui «consente al pubblico ministero di procedere a giudizio direttissimo anche fuori dei modi previsti dall’art. 449 codice di procedura penale»;
che il rimettente – premesso di procedere a giudizio direttissimo per il delitto di detenzione di arma da guerra, ai sensi dell’art. 233 citato, norma «che impone il rito direttissimo anche fuori dei casi disciplinati dalle norme ordinarie (art. 449 cod. proc. pen.) allorché si proceda per i reati in tema di armi e di diffamazione» – precisa che il giudizio in questione è stato instaurato a seguito di richiesta formulata dal pubblico ministero in data 29 giugno 2004, dopo più di tre anni dall’accertamento del reato, risalente al 4 aprile 2001, e quindi ben oltre il termine di quindici giorni dall’arresto o dalla iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro, stabilito dall’art. 449, commi 4 e 5, cod. proc. pen.;
che – prosegue il rimettente – secondo l’interpretazione della Corte di cassazione, costituente ormai «diritto vivente», l’art. 233 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, deroga non solo ai "casi” previsti dall’art. 449 cod. proc. pen. (arresto in flagranza e confessione), ma anche alle «forme ("modi”) regolate da tale ultima norma» e, in particolare, al termine entro il quale deve essere instaurato il giudizio direttissimo così tuttavia esponendo tale norma, a plurimi dubbi di legittimità costituzionale;
che infatti ad avviso del rimettente – considerato che il rito direttissimo si caratterizza «per una notevole compressione, rispetto ai riti ordinari, della dimensione temporale e procedimentale delle garanzie difensive»: sia in quanto l’esercizio dell’azione penale è disposto senza previo invio dell’avviso di conclusione delle indagini; sia in quanto non è prevista l’udienza preliminare ed il termine a comparire è di soli tre giorni – potrebbero ritenersi compatibili con i principi costituzionali delle modalità procedimentali di instaurazione di tale rito speciale, diverse da quelle «ordinarie» o anche da quelle previste per le ipotesi di giudizio direttissimo "tipico” di cui all’art. 449 cod. proc. pen., solo «laddove il venire meno di talune garanzie appaia compensato da un ampliamento di altre o dalla ricorrenza di presupposti che evidenzino la minore necessità di tali garanzie»;
che per contro, sempre secondo il rimettente, le varie norme in tema di obbligatorietà del rito direttissimo – intese nel senso dell’attribuzione al pubblico ministero del potere di citare direttamente a giudizio l’imputato, senza il rispetto del termine di quindici giorni e delle forme previste «in via ordinaria per un determinato reato» – si risolvono, per un verso, nell’attribuzione ingiustificata al pubblico ministero di una sproporzionata ed ingiustificata facoltà nell’esercizio dell’azione penale; e, per un altro verso, in una negazione delle garanzie difensive proprie della rimossa fase delle indagini preliminari;
che, in particolare, a parere del rimettente, risulterebbe violato l’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della disparità di trattamento tra imputati, in ragione della più sfavorevole disciplina applicabile a coloro che, tratti a giudizio con le forme del rito direttissimo obbligatorio, non si vedono riconoscere le medesime garanzie difensive accordate ad altri imputati, «nei cui confronti non ricorrano i presupposti del rito speciale»;
che dalla norma censurata discenderebbe altresì la lesione tanto del diritto di difesa dell’imputato, quanto del principio di parità delle parti nel processo, con violazione, rispettivamente, dell’art. 24, secondo comma, e dell’art. 111, secondo comma, Cost.: e ciò in conseguenza dell’attribuzione al pubblico ministero di un potere di scelta del rito direttissimo, che è svincolato dal rispetto dei termini e delle forme previste per il giudizio ordinario; ed è tale da determinare una ingiustificata compressione delle garanzie difensive assicurate, normalmente, nella fase precedente all’instaurazione del rito, ad esempio, attraverso l’avviso di conclusione delle indagini preliminari o la celebrazione dell’udienza preliminare.
Considerato che il giudice rimettente sottopone a scrutinio di costituzionalità una norma inconferente rispetto all’oggetto delle proprie censure, atteso che l’impugnativa – avente ad oggetto l’art. 233 del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) − mostra sostanzialmente di ignorare che la norma censurata, nel comma 2, è stata oggetto di declaratoria di illegittimità costituzionale da parte di questa Corte con la sentenza n. 68 del 1991;
che, in esito a tale declaratoria di incostituzionalità, il giudizio direttissimo, per i reati concernenti le armi e gli esplosivi, è stato reintrodotto dall’art. 12-bis del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, il quale reca, peraltro, una previsione non identica a quella della norma censurata: giacché infatti in base alla nuova disposizione, per i reati in oggetto, il pubblico ministero procede al giudizio direttissimo anche fuori dei casi previsti dagli articoli 449 e 558 del codice di procedura penale, solo alla condizione che non «siano necessarie speciali indagini»;
che l’inesatta identificazione della norma oggetto di censura (aberratio ictus) – con impugnativa, peraltro, relativa a norma già abrogata − implica, per costante giurisprudenza di questa Corte, la manifesta inammissibilità della questione (ex plurimis, ordinanze n. 42 del 2007, n. 210 e n. 55 del 2006).
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Per
questi motivi
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 233 del testo delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale (testo approvato con il decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271), sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Verona con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2007.
F.to:
Giovanni
Maria FLICK, Redattore
Roberto
MILANA, Cancelliere