Ordinanza n. 163 del 2007

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ORDINANZA N. 163

ANNO 2007

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco                      BILE                                       Presidente

- Giovanni Maria         FLICK                                     Giudice

- Francesco                 AMIRANTE                                 "

- Ugo                          DE SIERVO                                 "

- Romano                    VACCARELLA                            "

- Paolo                        MADDALENA                             "

- Alfio                        FINOCCHIARO                           "

- Alfonso                    QUARANTA                                "

- Franco                      GALLO                                        "

- Luigi                        MAZZELLA                                 "

- Gaetano                    SILVESTRI                                  "

- Sabino                      CASSESE                                     "

- Maria Rita                SAULLE                                      "

- Giuseppe                  TESAURO                                    "

- Paolo Maria              NAPOLITANO                              "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 630 del codice penale promosso con ordinanza del 19 maggio 2006 dal Tribunale di Padova nel procedimento penale a carico di D.S. ed altri, iscritta al n. 428 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2006.

Visto l’atto di costituzione di D.G. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 17 aprile 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Padova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 630 del codice penale, nella parte in cui stabilisce, per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, la pena minima di «anni venticinque di reclusione in difetto di circostanza attenuante speciale per i fatti di minore entità o gravità»;

che il giudice a quo premette di essere investito del processo penale nei confronti di tre cittadini albanesi, imputati del reato previsto dalla norma denunciata, per aver privato della libertà personale altro cittadino extracomunitario allo scopo di ottenere, come prezzo della sua liberazione, il pagamento del corrispettivo di una cessione di sostanza stupefacente, precedentemente effettuata a favore del sequestrato;

che il rimettente riferisce, in particolare, che quest’ultimo era stato condotto a forza da quattro persone, armate di coltello (successivamente identificate nei tre imputati ed in un minorenne), presso un casolare abbandonato, ove era stato costretto a contattare, tramite telefono cellulare, propri connazionali al fine di reperire la somma di cui era debitore, richiesta come condizione per la sua liberazione e con minaccia di morte ove il versamento non fosse avvenuto;

che il sequestrato era rimasto quindi segregato nel casolare – legato ed imbavagliato – fino alla mattina del giorno successivo, allorché, a seguito della «segnalazione di un cittadino», i Carabinieri avevano provveduto alla sua liberazione;

che, ad avviso del giudice a quo, nel fatto ascritto agli imputati sarebbe ravvisabile il contestato delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione – punito, nella «forma base», con la reclusione da venticinque a trenta anni – e non già il concorso fra i reati di cui agli artt. 605 e 629 cod. pen.;

che, al riguardo, si dovrebbe ritenere, infatti, «sostanzialmente vincolante», e comunque condivisibile, l’interpretazione accolta dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, in forza della quale – ai fini della configurabilità del delitto in questione – l’ingiustizia del profitto perseguito dall’agente va apprezzata non in base alla personale valutazione di costui, ma con riferimento a canoni legali: con la conseguenza che il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione resterebbe integrato anche quando l’agente miri ad ottenere il pagamento di un debito derivante da un rapporto illecito precedentemente intercorso con la vittima (quale, nella specie, la cessione di sostanza stupefacente), trattandosi di pretesa priva di tutela legale;

che, ciò premesso, il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale dell’art. 630 cod. pen., avuto riguardo alla rigidità della risposta sanzionatoria da esso prefigurata;

che – rimarcato come la discrezionalità del legislatore nella determinazione della pena per i singoli reati incontri il limite della ragionevolezza – il giudice a quo assume segnatamente che il minimo edittale di venticinque anni di reclusione, «per la sua estrema severità e soprattutto per l’assenza di una fattispecie attenuata speciale per i casi di minore entità», violerebbe i principi di personalità della responsabilità penale e della finalità rieducativa della pena, sanciti dall’art. 27, primo e terzo comma, Cost.;

che l’irragionevolezza di detto minimo emergerebbe in modo evidente ove si consideri che per il delitto di omicidio volontario – il quale comporta il sacrificio irreparabile del «bene giuridico più protetto ed elevato», ossia la vita umana – è prevista una pena minima inferiore, pari ad anni ventuno di reclusione (art. 575 cod. pen.); mentre per la riduzione in schiavitù – che implica la privazione globale degli attributi della personalità, con totale asservimento e mercificazione della persona – la pena è della reclusione da otto a venti anni (art. 600 cod. pen.);

che con riguardo, poi, a fattispecie criminose che presenterebbero elementi tipici più prossimi ed in parte sovrapponibili a quelli del delitto di cui all’art. 630 cod. pen. – trattandosi, in tutti i casi, di delitti contro il patrimonio – il rimettente evidenzia come la rapina aggravata dalla violenza, consistita nel porre taluno in stato di incapacità di agire (la quale potrebbe, di fatto, equivalere alla transitoria privazione della libertà personale) risulti punita con la pena minima di quattro anni e sei mesi di reclusione (art. 628, terzo comma, numero 2, cod. pen.); mentre per l’estorsione aggravata da analoga circostanza è comminata la pena detentiva minima di sei anni (art. 629, secondo comma, cod. pen.);

che l’eccezionale inasprimento del trattamento sanzionatorio del delitto in questione, attuato, da ultimo, con la legge 30 dicembre 1980, n. 894 (Modifiche all’articolo 630 del codice penale) – prosegue il giudice a quo – risponderebbe, in effetti, a fini di prevenzione generale, in rapporto allo straordinario incremento, verificatosi negli anni 1970-1980, dei sequestri di persona a scopo di estorsione posti in essere da organizzazioni criminali: sequestri protrattisi, in taluni casi, per anni, con episodi di efferata crudeltà ed in vista del conseguimento di profitti ingentissimi;

che a fronte di tale ratio storica, correlata ad un fenomeno transeunte, la norma incriminatrice verrebbe peraltro a punire con pena di inusitata severità e fortemente compressa “verso l’alto” – essendo il minimo di venticinque anni di reclusione assai prossimo al massimo di trenta – comportamenti che possono risultare significativamente differenziati per durata della condotta, modalità della stessa ed entità della sofferenza arrecata alla vittima: e ciò tenuto conto anche del fatto che – secondo la costante giurisprudenza di legittimità – il delitto in questione si configura anche se la privazione della libertà personale del sequestrato si protrae per un tempo assai limitato (persino poche ore);

che, in tal modo, verrebbero quindi frustrate sia la finalità rieducativa della pena, «finalità che una pena sproporzionata in re ipsa non raggiunge»; sia la natura personale della responsabilità penale, la quale presupporrebbe «equità, e non esacerbata reazione punitiva», tramite l’adeguamento del trattamento sanzionatorio alle peculiarità del caso concreto;

che la sproporzione per eccesso del minimo edittale risulterebbe puntualmente dimostrata dalla fattispecie oggetto del giudizio a quo, la quale si connoterebbe come di «minore gravità», per le caratteristiche del fatto e soprattutto per la circoscritta durata della privazione della libertà del sequestrato (protrattasi per circa sedici ore);

che la norma censurata si porrebbe, per altro verso, in contrasto con l’art. 3, primo comma, Cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento rispetto alla figura criminosa – da ritenere «del tutto affine» – prevista dall’art. 3 della legge 26 novembre 1985, n. 718 (Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale contro la cattura degli ostaggi, aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979): disposizione, quest’ultima, che punisce «chiunque, fuori dei casi indicati dagli articoli 289-bis e 630 del codice penale, sequestra una persona o la tiene in suo potere minacciando di ucciderla, di ferirla o di continuare a tenerla sequestrata al fine di costringere un terzo, sia questi uno Stato, una organizzazione internazionale tra più governi, una persona fisica o giuridica od una collettività di persone fisiche, a compiere un qualsiasi atto o ad astenersene, subordinando la liberazione della persona sequestrata a tale azione od omissione»;

che la figura criminosa in parola – introdotta in sede di ratifica della Convenzione internazionale contro la cattura degli ostaggi, aperta alla firma a New York il 18 dicembre 1979 – presenterebbe connotati peculiari tali da renderla più grave di quella contemplata dall’art. 630 cod. pen.: e ciò sia per quanto attiene ai beni protetti; sia in ragione della previsione, ancorché in forma alternativa, della minaccia di uccidere il sequestrato; sia, infine, a fronte della mancata predeterminazione della prestazione richiesta come prezzo della liberazione, la quale potrebbe consistere nel compimento di «atti politici o governativi anche molto più significativi […] rispetto al pagamento di un riscatto»;

che, ciò nondimeno, il citato art. 3 della legge n. 718 del 1985 non solo prevede la medesima pena edittale comminata dal primo comma dell’art. 630 cod. pen.; ma contempla, altresì, al terzo comma, una circostanza attenuante ad effetto speciale per i casi di «lieve entità», la quale comporta l’applicazione della pena prevista dall’art. 605 cod. pen., aumentata dalla metà a due terzi (ossia la pena della reclusione da nove mesi a tredici anni e quattro mesi);

che tale attenuante non potrebbe essere estesa, peraltro, al caso oggetto del giudizio a quo, stante il carattere «residuale», e non speciale, del reato previsto dall’art. 3 della legge n. 718 del 1985 rispetto al delitto di cui all’art. 630 cod. pen. (carattere desumibile dall’espressa clausola di salvezza di tale ultimo delitto che figura nella formula descrittiva del primo): risultandone, di conseguenza, un vulnus al principio di eguaglianza, per il diverso trattamento riservato a situazioni pienamente comparabili;

che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o manifestamente infondata;

che, ad avviso della difesa erariale, la questione sarebbe manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza, avendo il giudice a quo qualificato apoditticamente il fatto concreto sottoposto al suo esame come di minore entità, senza una adeguata analisi di tutte le sue componenti oggettive e soggettive: analisi da ritenere tanto più necessaria a fronte della descrizione dell’episodio criminoso contenuta nella stessa ordinanza di rimessione, la quale militerebbe, primo visu, in senso contrario a quello indicato dal rimettente;

che, per altro verso, il giudice a quo avrebbe censurato l’eccessiva rigidità del sistema sanzionatorio, senza verificare preventivamente se le attenuanti comuni applicabili al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione – e, in particolare, quelle previste dagli artt. 62, numeri 4), 5) e 6), 62-bis e 114, primo comma, cod. pen. – non consentano già di tener conto in modo adeguato, nella determinazione della pena, della «lieve» o «minore entità» del fatto;

che, nel merito, dovrebbe comunque escludersi l’asserita compromissione dei principi enunciati dall’art. 27 Cost., rientrando nella discrezionalità del legislatore adottare schemi sanzionatori più o meno rigidi sulla base di un bilanciamento delle diverse esigenze di politica criminale, tra le quali rientra anche la difesa sociale; né, d’altra parte, sarebbe significativo il paragone con i minimi edittali previsti per reati quali l’omicidio, la riduzione in schiavitù o la rapina aggravata, trattandosi di figure criminose del tutto eterogenee per oggettività giuridica e allarme sociale;

che parimenti infondata risulterebbe, infine, la censura di violazione del principio di eguaglianza, formulata in rapporto al regime sanzionatorio del delitto di cui all’art. 3 della legge n. 718 del 1985: tale norma incriminatrice descriverebbe, infatti, una ipotesi «atipica» di sequestro di persona, idonea a qualificare penalmente anche sequestri effettuati a scopo «dimostrativo» o per finalità etico-politiche di segno addirittura positivo; il che giustificherebbe il diverso trattamento ad essa riservato, quanto alla previsione di una attenuante speciale per i fatti di «lieve entità»;

che si è costituito, altresì, G. D., imputato nel giudizio a quo, il quale ha chiesto, in via preliminare, che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza, in quanto il rimettente – nel ritenere che il fatto per cui si procede sia riconducibile al paradigma punitivo di cui all’art. 630 cod. pen., anziché a quello del concorso dei reati di cui agli artt. 605 e 629 cod. pen. – avrebbe offerto una lettura non condivisibile della norma incriminatrice censurata, anche nell’ottica di una interpretazione «costituzionalmente orientata»;

che, in via subordinata, la parte privata ha chiesto che l’art. 630 cod. pen. venga dichiarato costituzionalmente illegittimo «nei sensi di cui all’ordinanza di rimessione», svolgendo argomentazioni a sostegno della incompatibilità del trattamento sanzionatorio del sequestro di persona a scopo di estorsione con i parametri costituzionali evocati.

Considerato che il Tribunale di Padova dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dell’art. 630 del codice penale, nella parte in cui prevede, per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, la pena minima di «anni venticinque di reclusione in difetto di circostanza attenuante speciale per i fatti di minore entità o gravità»;

che, nel censurare l’eccessiva rigidità dell’assetto sanzionatorio della fattispecie criminosa, il giudice a quo non formula, peraltro, un petitum connotato dai necessari caratteri di univocità e chiarezza;

che dal tenore del dispositivo dell’ordinanza di rimessione – dianzi riprodotto, in parte qua – non è dato infatti comprendere quale tipo di intervento venga concretamente richiesto a questa Corte: se, cioè, un intervento “manipolativo”, consistente nella riduzione della pena edittale minima (giudicata dal rimettente troppo elevata); o un intervento “additivo”, rappresentato dalla introduzione di una circostanza attenuante speciale per i fatti «di minore entità o gravità» (così da rendere, per altra via, più “elastica” la risposta sanzionatoria); ovvero, ancora, tanto l’uno che l’altro intervento, in via alternativa fra loro: nel quale ultimo caso, peraltro – non essendo rilevabile alcuna subordinazione, espressa o logica, tra le due richieste – il quesito di costituzionalità risulterebbe prospettato in forma ancipite;

che, inoltre, entrambi gli interventi ipotizzati restano indeterminati nei contenuti: giacché il giudice a quo non precisa né il diverso minimo edittale che dovrebbe, a suo avviso, sostituire quello attuale; né la concreta configurazione dell’attenuante auspicata, quanto a presupposti ed effetti;

che l’ambiguità del dispositivo riflette, d’altra parte, quella della motivazione dell’ordinanza di rimessione, nella quale il Tribunale rimettente formula due distinte censure – riferite, rispettivamente, all’art. 27, primo e terzo comma, Cost. e all’art. 3, primo comma, Cost. – che investono altrettanti differenti profili del regime sanzionatorio della figura criminosa: la prima mira infatti a dimostrare, tramite confronto con varie altre ipotesi delittuose, la sproporzione per eccesso del minimo edittale; mentre la seconda denuncia come lesiva del principio di eguaglianza la mancata previsione di una attenuante per i fatti meno gravi, evocando come tertium comparationis il delitto di cui all’art. 3 della legge 26 novembre 1985, n. 718; d’altronde non è neppure possibile ritenere – valorizzando il passaggio finale della motivazione dell’ordinanza, nel quale il rimettente si duole di non poter applicare al caso sottoposto al suo vaglio l’attenuante ad effetto speciale prevista dal terzo comma del citato art. 3 della legge n. 718 del 1985 – che l’unico, specifico obiettivo perseguito dal rimettente sia, in realtà, quello di veder estesa al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione la predetta attenuante;

che una simile voluntas non emerge, difatti, in modo univoco, posto che il dispositivo dell’ordinanza – che segue immediatamente il ricordato passaggio motivazionale – non soltanto non richiama in termini espressi, a mezzo di riferimento normativo, l’attenuante ad effetto speciale in questione; ma fa uso, altresì – per descrivere l’attenuante auspicata dal rimettente – di una formula («attenuante speciale per i fatti di minore entità o gravità») che diverge, anche sul piano lessicale, da quella impiegata nell’art. 3, terzo comma, della legge n. 718 del 1985 («fatto […] di lieve entità») ed evoca, primo visu, un ventaglio di possibili alternative;

che, pertanto – a prescindere dagli ulteriori profili di inammissibilità eccepiti dall’Avvocatura dello Stato e dalla parte privata; e a prescindere, altresì, da ogni rilievo in ordine al merito delle singole censure (la prima delle quali si risolve in una mera critica a scelte legislative discrezionali di politica criminale, stante anche la palese eterogeneità dei tertia comparationis evocati; mentre la seconda si fonda su un presupposto inesatto, quale l’asserita maggiore gravità obiettiva della fattispecie di cui all’art. 3 della legge n. 718 del 1985, viceversa più ampia e generica rispetto al delitto di cui all’art. 630 cod. pen., come rimarcato anche dalla difesa erariale) – il carattere oscuro, ancipite e indeterminato del petitum rende la questione manifestamente inammissibile, in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 187 del 2004 e n. 210 del 2002; con riguardo alle questioni prospettate in forma ancipite, ordinanze n. 363 del 2005 e n. 382 del 2004).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 630 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Padova con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 aprile 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'8 maggio 2007.