Ordinanza n. 37 del 2006

 CONSULTA ONLINE 

 

ORDINANZA N. 37

ANNO 2006

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Annibale                   MARINI                    Presidente

- Franco                      BILE                            Giudice     

- Francesco                 AMIRANTE                     “

- Ugo                          DE SIERVO                     “

- Romano                    VACCARELLA               “

- Paolo                        MADDALENA                “

- Alfio                         FINOCCHIARO              “

- Alfonso                    QUARANTA                   “

- Franco                      GALLO                            “

- Luigi                         MAZZELLA                    “

- Gaetano                    SILVESTRI                      “

- Sabino                      CASSESE                         “

- Maria Rita                SAULLE                           “

- Giuseppe                  TESAURO                        “

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 3 della legge 20 giugno 2003 n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), promosso con ordinanza del 27 gennaio 2004 dal Tribunale di Messina, nel procedimento civile vertente tra S.p.a. S.E.S. Società editrice siciliana e Vendola Nicola iscritta al n. 389 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2004.

            Visti l’atto di costituzione della S.p.a. S.E.S. Società editrice siciliana, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

            udito nella camera di consiglio del 30 novembre 2005 il Giudice relatore Ugo De Siervo.

Ritenuto che il Tribunale di Messina, con ordinanza in data 27 gennaio 2004, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), in relazione agli artt. 3, 24, 68, 102 e 111 Cost.;

che il rimettente premette in fatto di essere chiamato a decidere sulla domanda di risarcimento dei danni morali e materiali proposta dalla S.E.S., Società editrice siciliana s.p.a., editrice del quotidiano La Gazzetta del Sud, nei confronti dell’on. Nicola Vendola, il quale, nel corso di una conferenza stampa tenuta presso la sede messinese del suo partito, aveva diffuso un dossier avente contenuto “gravemente” diffamatorio, dal titolo “L’Uomo del Ponte – Breve storia di Calarco e dell’ufficio stampa del Verminaio”;

che, riferisce ancora il rimettente, il convenuto, costituitosi in giudizio tardivamente, aveva eccepito l’insindacabilità delle opinioni espresse, invocando la garanzia di cui all’art. 68 Cost., così come attuato dalla legge n. 140 del 2003;

che, con nota pervenuta il 17 novembre 2003, il Presidente della Camera dei deputati comunicava al Tribunale che l’Assemblea, nella seduta del 13 novembre 2003, aveva deliberato che i fatti per i quali era in corso il giudizio, concernevano opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni ai sensi dell’art. 68 Cost.;

che la società S.E.S., nelle proprie difese, contestava la delibera di insindacabilità, assumendo la non riconducibilità dei fatti addebitati all’on. Vendola nell’area degli atti coperti dall’art. 68 Cost., affermando, inoltre, la sostanziale continuità della legge n. 140 del 2003 con il dettato costituzionale ed evidenziando che un’interpretazione estensiva della garanzia avrebbe determinato il contrasto dell’art. 3 della citata legge con gli artt. 68, 3 e 24 Cost e con l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e invitava il Tribunale a sollevare conflitto di attribuzione avanti a questa Corte;

che la difesa del parlamentare, invece, affermava la sussistenza di un nesso funzionale tra l’attività in contestazione e le funzioni di membro del Parlamento;

che il Tribunale di Messina, ritenuti non manifestamente infondati i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge n. 140 del 2003, ha promosso il giudizio di questa Corte nei termini di seguito esposti;

che il giudice a quo rileva innanzitutto come, nel sistema delineato da tale disposizione, una volta che sia intervenuta la delibera di insindacabilità della Camera di appartenenza del parlamentare, il giudice sarebbe tenuto a prenderne atto ed a pronunciare, senza ritardo, i provvedimenti conseguenti di cui al comma 3 dell’art. 3, vale a dire, per ciò che concerne il giudizio civile, «l’affermazione della irresponsabilità del parlamentare convenuto in giudizio» e dunque il rigetto della domanda;

che, tale conseguenza, ad avviso del rimettente, imponendosi anche nel giudizio a quo, giustificherebbe la rilevanza della questione di legittimità costituzionale;

che la cosiddetta “pregiudiziale parlamentare”, introdotta dai vari decreti legge susseguitisi tra il 1993 ed il 1996, tutti decaduti, e poi ripristinata dalla legge n. 140 del 2003, non sarebbe di per sé in contrasto con la Costituzione, tenuto conto che nell’interpretazione data all’art. 68 Cost. da questa Corte, tale norma attribuisce alla Camera di appartenenza il potere di valutare la condotta addebitata ad un proprio membro e di qualificarla come esercizio delle funzioni parlamentari;

che, invece, in contrasto con il dettato costituzionale sarebbe «l’inedito» meccanismo previsto dal comma 7 dell’art. 3 della legge n. 140 del 2003, il quale consente al membro del Parlamento di sottoporre direttamente la questione di insindacabilità alla Camera di appartenenza, «anticipando, prevenendo, o più semplicemente, ignorando gli sviluppi del procedimento civile»;

che, in tal modo, si consentirebbe al parlamentare, «in totale assenza di contraddittorio», di provocare una decisione potenzialmente preclusiva dell’ulteriore corso del giudizio instaurato nei suoi confronti senza alcuna giustificazione;

che, in sostanza, si consentirebbe allo stesso interessato di sottrarsi in via definitiva al contraddittorio e al processo che costituirebbe «la sede naturale anche dell’affermazione della insindacabilità» e di provocare una pronuncia definitiva «senza alcuna possibilità per la controparte di interloquire e di apportare» alla valutazione della Camera di appartenenza del convenuto «quel contributo di conoscenza che potrebbe scaturire, ad es., dall’esame degli atti del giudizio»;

che tale irragionevole preclusione dello svolgimento del processo, e soprattutto il fatto che ciò avvenga ad iniziativa dello stesso interessato, sarebbe in palese contrasto con il principio di uguaglianza, con il diritto alla tutela giurisdizionale sancito dall’art. 24 Cost., nonché «con l’attribuzione della funzione giurisdizionale ai soli giudici ordinari» e con il diritto ad un processo caratterizzato dal contraddittorio e ad un giudice terzo ed imparziale (art. 111 Cost.);

che il Tribunale di Messina, inoltre, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003, nella parte in cui, nel delimitare l’ambito di applicazione dell’insindacabilità di cui all’art. 68, primo comma, Cost., affianca agli atti parlamentari tipici «ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denunzia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori dal Parlamento»;

che la norma censurata, non richiedendo ai fini dell’applicabilità della garanzia la necessità di una sostanziale corrispondenza di significati tra le dichiarazioni rese fuori dall’esercizio delle attività parlamentari tipiche svolte in Parlamento e le opinioni già espresse nell’ambito di queste ultime – secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte – determinerebbe l’estensione dell’insindacabilità anche alle opinioni meramente connesse alla funzione parlamentare, in tal modo facendo venire meno lo stretto nesso funzionale tra espressione di opinioni ed esercizio delle funzioni, trasformando la garanzia in privilegio personale, in contrasto con gli artt. 3 e 68 Cost.;

che la rilevanza di tale questione nel giudizio a quo risulterebbe dalla circostanza secondo la quale dagli atti parlamentari non emergerebbe alcun collegamento o corrispondenza con attività compiute dall’on. Vendola quale vice presidente della Commissione antimafia, né con sue iniziative parlamentari;

che, pertanto, le condotte di carattere diffamatorio del deputato sarebbero sì riconducibili al disposto dell’art. 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003, ma non sarebbe provata la loro corrispondenza ad attività compiute nell’esercizio specifico di funzioni parlamentari;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la dichiarazione di manifesta inammissibilità o comunque di infondatezza delle questioni;

che la difesa dello Stato rileva, innanzitutto, che il dispositivo dell’ordinanza di rimessione appare riferirsi soltanto ai commi 1 e 7 dell’art. 3 della legge n. 140 del 2003, cosicché sarebbe inammissibile la questione di legittimità costituzionale prospettata con riguardo agli altri commi del medesimo art. 3;

che, osserva ancora l’Avvocatura, la costituzionalità del comma 1 della disposizione censurata sarebbe stata “sancita” da questa Corte con la sentenza n. 120 del 2004, la quale avrebbe altresì evidenziato i «limiti della pretesa di cristallizzare una regola di composizione del conflitto tra principi costituzionali»;

che, nel caso di specie, fermo restando che il limite alla garanzia di cui all’art. 68 Cost. è costituito dal nesso funzionale, l’assemblea parlamentare avrebbe accertato che i fatti per cui pendeva giudizio nei confronti dell’on. Vendola concernevano opinioni espresse nell’esercizio delle sue funzioni di parlamentare e che pertanto risulterebbe «infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, L. 140 del 2003»;

che, con riguardo alla censura concernente il comma 7 del citato articolo, l’Avvocatura denuncia la perplessità e contraddittorietà dell’ordinanza di rimessione, la quale, da un lato, censura tale disposizione per contrasto con gli artt. 3, 24, 102 e 111 Cost., dall’altro, appare ritenere compatibile con la Costituzione il potere di iniziativa di parte laddove afferma che correttamente la Camera abbia ritenuto la insindacabilità delle opinioni espresse dall’on. Vendola;

che il giudice a quo, inoltre, avrebbe inammissibilmente censurato l’attività del Parlamento in violazione della ripartizione dei poteri;

che, nel merito, sarebbe infondata la lamentata violazione del principio di uguaglianza, dal momento che «lo status di parlamentare e la salvaguardia del bene della libertà di opinione dei parlamentari ben può tollerare un qualche bilanciamento con altri beni della vita pur costituzionalmente garantiti» nel caso in cui vi sia stato un rigoroso rispetto delle regole poste dall’ordinamento;

che non sarebbe neppure violato il diritto di difesa, in quanto allorché i giudizi espressi dal parlamentare costituiscano opinioni “politiche”, queste non sarebbero idonee «ad interferire con interessi di natura meramente economica la cui lesione è invece prospettata dalla parte privata»;

che, d’altra parte, il diritto suddetto sarebbe stato comunque adeguatamente tutelato, in quanto l’interferenza tra atti propri del potere legislativo e la sfera del potere giurisdizionale sarebbe stata risolta attraverso un voto parlamentare, «avvenuto secondo procedure e principi rigorosamente democratici, con la partecipazione di tutte le forze democraticamente elette», voto che avrebbe ricondotto gli atti controversi al «novero di quelli compatibili con le guarentigie di cui all’art. 68 Cost.»;

che è intervenuta in giudizio anche la S.E.S. – Società editrice siciliana s.p.a. – la quale ha chiesto alla Corte di accogliere le questioni di legittimità costituzionale prospettate dal rimettente;

che, preliminarmente, la Società rileva che, benché il proprio intervento nel giudizio costituzionale sia avvenuto oltre il termine indicato dall’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) e dall’art. 3 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, tuttavia, esso dovrebbe essere ritenuto ammissibile, attesa la natura non perentoria di tale termine;

che, a sostegno di tale assunto, la società privata rileva che mancherebbe una esplicita qualificazione normativa in tal senso del termine in questione, che per il suo mancato rispetto non sarebbe prevista alcuna decadenza, né vi sarebbero esigenze di celerità, dal momento che il procedimento potrebbe essere definito anche senza la costituzione delle parti;

che a favore del carattere non perentorio del termine deporrebbe, altresì, la natura del giudizio costituzionale, nel quale non esistono parti contrapposte, ma soggetti che possono presentare alla Corte i loro apporti collaborativi a sostegno della legittimità o illegittimità della norma;

che, nel merito, la difesa della S.E.S. svolge argomentazioni a sostegno della fondatezza delle censure mosse avverso l’art. 3, commi 3 e 7, della legge n. 140 del 2003.

Considerato che il Tribunale di Messina dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1 e 7, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), in relazione agli artt. 3, 24, 68, 102 e 111 Cost.;

che, preliminarmente, deve essere dichiarata inammissibile la costituzione della parte del giudizio in via incidentale, in quanto effettuata oltre il termine stabilito dall’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87, computato secondo quanto previsto dall’art. 3 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, dal momento che tale termine è da considerarsi perentorio secondo il costante orientamento di questa Corte, dal quale non sussistono ragioni per discostarsi (cfr., ex plurimis, sentenza n. 397 del 2005; ordinanza n. 63 del 2003; ordinanza n. 309 del 2002; cfr., altresì, ordinanza 14 novembre 1956, allegata alla sentenza n. 22 del 1957);

che il rimettente censura, innanzitutto, l’art. 3, comma 7, della legge n. 140 del 2003, nella parte in cui consente al parlamentare di sollecitare autonomamente la deliberazione di insindacabilità sottoponendo «anche direttamente» alla Camera di appartenenza la questione della applicabilità dell’art. 68 Cost., in tal modo provocando una decisione senza alcun contraddittorio, eventualmente preclusiva dell’ulteriore corso del giudizio instaurato nei suoi confronti;

che la disposizione denunciata dal giudice a quo ha ad oggetto il procedimento che si svolge avanti alle Camere ai fini della decisione circa la sussistenza della prerogativa parlamentare prevista dall’art. 68 Cost., disciplinando, specificamente, una delle modalità di impulso di tale procedimento – quella, appunto, ad iniziativa del parlamentare direttamente interessato – finalizzato alla eventuale pronuncia di insindacabilità;

che, pertanto, l’art. 3, comma 7, della legge n. 140 del 2003, nella parte censurata dal rimettente, avendo ad oggetto una procedura diversa da quella che si svolge davanti all’autorità giudiziaria, non trova applicazione nel giudizio a quo, sul quale si riverberano soltanto gli effetti della decisione delle Camere, in conseguenza della quale il giudice emette i provvedimenti di cui all’art. 3, comma 3, ovvero solleva conflitto di attribuzione davanti a questa Corte;

che, dunque, la questione prospettata dal rimettente deve ritenersi irrilevante e pertanto va dichiarata manifestamente inammissibile;

che il Tribunale di Messina dubita, altresì, della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003, in relazione agli artt. 3 e 68 Cost., nella parte in cui, estendendo l’immunità del parlamentare ad «ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denunzia politica connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori dal Parlamento», non imporrebbe una sostanziale corrispondenza di significati tra le dichiarazioni rese al di fuori dell’esercizio delle attività parlamentari tipiche svolte in Parlamento e le opinioni già espresse nell’ambito di queste ultime;

che, successivamente all’ordinanza di rimessione, è intervenuta la sentenza n. 120 del 2004, con la quale questa Corte ha dichiarato non fondate identiche questioni, peraltro affermando che la disposizione censurata, «nonostante la nuova, più ampia formulazione lessicale, può considerarsi di attuazione, e cioè finalizzata a rendere immediatamente e direttamente operativo sul piano processuale il disposto dell’art. 68, primo comma», della Costituzione, senza innovare rispetto alla predetta disposizione costituzionale, ma limitandosi a rendere esplicito il contenuto della disposizione medesima;

che il rimettente non ha svolto argomenti ulteriori né prospettato censure diverse rispetto a quelle già esaminate da questa Corte nella pronuncia citata e che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 102 e 111 della Costituzione dal Tribunale di Messina con l’ordinanza indicata in epigrafe;

b) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 68 della Costituzione, dal medesimo Tribunale con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,  il 23 gennaio 2006.

F.to:

Annibale MARINI, Presidente

Ugo DE SIERVO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l’1 febbraio 2006.