Sentenza n. 332/2003

 CONSULTA ONLINE 

SENTENZA N. 332

ANNO 2003

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori Giudici:

- Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

- Valerio ONIDA

- Carlo MEZZANOTTE         

- Guido NEPPI MODONA    

- Piero Alberto CAPOTOSTI 

- Annibale MARINI    

- Franco BILE 

- Giovanni Maria FLICK        

- Francesco AMIRANTE        

- Ugo DE SIERVO     

- Romano VACCARELLA    

- Paolo MADDALENA          

- Alfio FINOCCHIARO        

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 30-bis del codice di procedura civile, introdotto dall’art. 9 della legge 2 dicembre 1998, n. 420 (Disposizioni per i procedimenti riguardanti i magistrati), promosso con ordinanza del 17 dicembre 2001 emessa dal Tribunale di Torino nel procedimento civile vertente tra Francesco Fassio e Cinzia Piasentin ed altri, iscritta al n. 305 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2002.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 aprile 2003 il Giudice relatore Franco Bile.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 17 dicembre 2001, il Tribunale di Torino - nel corso di un giudizio ex artt. 447-bis e 8 del codice di procedura civile, promosso da un magistrato del distretto di Torino, per ottenere il pagamento di canoni di locazione e spese condominiali nei confronti di un conduttore e dei suoi garanti - ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 30-bis del codice di procedura civile [introdotto dall’art. 9 della legge 2 dicembre 1998, n. 420 (Disposizioni per i procedimenti riguardanti i magistrati)], <<nella parte in cui non prevede che solamente le cause in cui sono comunque parti magistrati "in conseguenza di procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato", che secondo le norme del presente capo [cioè del Capo I del Titolo I del Libro I del codice di procedura civile] sarebbero attribuite alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni, sono di competenza del giudice, ugualmente competente, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte d’appello determinato ai sensi dell’art. 11 del codice di procedura penale>>.

1.1. – Il rimettente ritiene che il legislatore – il quale pure, con una scelta ragionevole, avrebbe voluto introdurre il criterio di competenza ex art. 11 cod. proc. pen. nei soli procedimenti civili conseguenti a reati in cui fosse imputato o parte lesa un magistrato - sarebbe, invece, andato ben oltre, estendendo quel criterio a <<quasi tutte le cause civili […] in cui è parte un magistrato>>.

Così configurata, la norma determinerebbe un’irragionevole disparità di trattamento in violazione dell’art. 3 della Costituzione, <<uno stravolgimento del principio del giudice naturale dell’art. 25 Cost. e un fattivo impedimento del diritto di azione e di difesa e alla formazione della prova (art. 24 Cost.)>>, in quanto le competenze civili <<sono molto articolate e non derivano semplicemente, come per la procedura penale, dal criterio del commesso reato>>.

1.2. – Ciò premesso, il rimettente, pur dando atto che il presupposto della norma censurata è che il rapporto di colleganza tra il magistrato parte del giudizio e quello del distretto in cui il primo presta le sue funzioni indurrebbe a dubitare dell’imparzialità del giudice, sostiene che sarebbe difficile pensare che le controparti possano ritenersi maggiormente tutelate dall’attribuzione della controversia ad un collega del giudice operante in altro distretto.

La norma sarebbe, dunque, irragionevole laddove <<assume la terzietà del giudice che opera in un distretto a qualche decina di chilometri, ma […] nel contempo priva le parti del diritto di esercitare le facoltà loro attribuite in tema di competenza>>, tenuto conto del carattere dispositivo del processo civile. Essa renderebbe, inoltre, più difficile ed oneroso il diritto di difesa a carico della controparte del magistrato, atteso che detta parte (come del resto lo stesso giudice adito) può non essere a conoscenza che il contraddittore è un magistrato e nella migliore delle ipotesi lo potrebbe apprendere solo a giudizio instaurato, con la conseguenza che, anche nel caso che non intenda formulare alcuna eccezione, dovrebbe sopportare i costi e l’aumento dei tempi del processo, derivanti dalla successiva declaratoria di incompetenza.

1.3. – Gli esposti rilievi, secondo il rimettente, non conforterebbero l’esigenza di garantire il prestigio, la credibilità e l’indipendenza dell’ordine giudiziario, che - come emerge dalla sua relazione - si prefiggeva il Ministro della Giustizia, proponendo il disegno di legge, poi sfociato nella legge n. 420 del 1998. L’esigenza di massima trasparenza della funzione giudicante nelle cause civili non andrebbe, infatti, ricercata nel foro del capoluogo di distretto confinante, ma si realizzerebbe con le norme sull’astensione e ricusazione ex artt. 51 e seguenti del codice di procedura civile.

Conclusivamente, il rimettente rileva che l’art. 9 della legge n. 420 del 1998 avrebbe dovuto limitare l’estensione del criterio di competenza ex art. 11 cod. proc. pen. ai soli casi di azioni di risarcimento del danno conseguente a reato ed afferma la rilevanza della questione, in quanto solo se la stessa fosse ritenuta fondata potrebbe ritenersi competente sulla controversia.

2. – E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite l’Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato memoria, nella quale ha sostenuto che la questione sarebbe infondata.

Il rimettente muoverebbe da un’inesatta considerazione dei parametri costituzionali evocati - dai quali non sarebbe possibile inferire un vincolo del legislatore a limitare la portata della norma censurata nel senso da lui voluto - nonché da <<considerazioni di carattere astratto e generale (attinenti a varie regole di competenza territoriale) del tutto avulse dalla concretezza della fattispecie>>.

In ordine alla censura ex art. 25 Cost. il rimettente equivocherebbe sulla nozione di precostituzione del giudice, che sarebbe rispettata ove l’organo giudicante sia istituito dalla legge sulla base di criteri generali fissati in anticipo e non in vista di singole controversie.

In riferimento al parametro dell’art. 24, le considerazioni del rimettente sarebbero <<generiche, non pertinenti allo specifico della fattispecie e ad un’effettiva compromissione della tutela (e della funzione) giurisdizionale>>, dovendosi tener conto che il legislatore, ferma l’osservanza del criterio di ragionevolezza, non sarebbe costituzionalmente vincolato all’adozione di un certo elemento di collegamento fra giudice ed elementi di causa.

La questione, comunque, sarebbe inammissibile, risolvendosi in non consentite valutazioni su apprezzamenti rimessi alle scelte del legislatore nell’attuare l’esigenza di garantire il prestigio, la credibilità e l’indipendenza dell’ordine giudiziario e la trasparenza della relativa funzione.

Considerato in diritto

1. – L’art. 30-bis del codice di procedura civile, introdotto dalla legge 2 dicembre 1998, n. 420 (Disposizioni per i procedimenti riguardanti i magistrati), dispone, al primo comma, che <<le cause in cui sono comunque parti magistrati, che secondo le norme del presente capo [cioè del Capo I del Titolo I del Libro I del codice di procedura civile] sarebbero attribuite alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale>>.

Il Tribunale di Torino ha sollevato la questione di legittimità costituzionale di tale norma nella parte in cui non prevede che la regola di competenza da essa dettata si applichi soltanto alle cause nelle quali sia parte un magistrato, in conseguenza di procedimenti in cui questi assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato.

Secondo il rimettente l’art. 30-bis cod. proc. civ., in quanto non limita la sua applicazione alla sola fattispecie indicata, si pone in contrasto con l’art. 3 (per irragionevolezza e disparità di trattamento), con l’art. 24 (per lesione del diritto di azione e di difesa della controparte del magistrato) e con l’art. 25 della Costituzione (per violazione del principio del giudice naturale).

2. – Circa l’individuazione dei termini della questione di legittimità costituzionale, l’ordinanza dà luogo a qualche incertezza, essendo astrattamente suscettibile di una duplice lettura.

Taluni passi della motivazione inducono infatti a ritenere che il rimettente chieda a questa Corte una sentenza per effetto della quale il foro derogatorio previsto dalla norma impugnata risulti limitato alle controversie aventi ad oggetto il danno o le restituzioni derivanti da un reato per il quale un magistrato in servizio nel distretto del giudice competente rivesta la qualifica - anche solo potenziale, e quindi a prescindere dall’effettiva instaurazione del relativo procedimento - di indagato, imputato o persona offesa.

Ma è possibile anche attribuire all’ordinanza una portata diversa e minore, ritenendola volta ad ottenere la limitazione del foro derogatorio in esame alle sole controversie, aventi ad oggetto il danno o le restituzioni derivanti da un reato, conseguenti all’effettiva assunzione da parte del magistrato di una delle qualità indicate.

Questa seconda lettura risulta maggiormente attendibile, essendo confortata dal dispositivo dell’ordinanza, in cui il rimettente enuncia conclusivamente i termini della proposta questione riferendosi alle cause civili conseguenti a <<procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato>>.

3. – La questione così individuata è inammissibile.

4. – L’art. 11 cod. proc. pen., nel testo originario, prevedeva al primo comma che <<i procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato>>, che secondo le regole ordinarie <<sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto in cui il magistrato esercita le sue funzioni ovvero le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello più vicino >>.

Mancando per il processo civile una regola di competenza analoga, vennero proposte questioni di legittimità costituzionale per ottenere – in via principale - l’estensione del criterio di competenza territoriale previsto dall’art. 11 cod. proc. pen. a tutte le controversie civili promosse da o contro magistrati in servizio nel distretto del giudice adito, e – in via gradatamente subordinata – la sua estensione ai giudizi civili relativi a danni derivati da fatti di rilevanza penale, per i quali magistrati in quella situazione fossero indicati come autori, persone offese o danneggiate (in ogni caso o almeno per la diffamazione a mezzo della stampa).

Le questioni sono state tutte dichiarate inammissibili dalla sentenza n. 51 del 1998, secondo la quale – attesa la netta distinzione fra processo civile e processo penale, specie per la disomogeneità degli interessi coinvolti nel primo in relazione alla varietà delle situazioni giuridiche che di volta in volta ne sono oggetto - spetta al legislatore stabilire, nell’esercizio della sua discrezionalità, quando in relazione al processo civile ricorra un’identità di ratio giustificativa dell’estensione della regola dell’art. 11 cod. proc. pen. e quando invece tale esigenza ricorra in modo diverso o non ricorra affatto, <<così da evitare che vengano sacrificati altri interessi e valori costituzionalmente rilevanti>>, come il diritto di agire e di difendersi in giudizio; ed a tal fine il medesimo legislatore deve procedere (secondo ragionevolezza e nel rispetto dei principi costituzionali) ad una valutazione di bilanciamento fra l’interesse alla imparzialità-terzietà del giudice civile e quello alla pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, con riguardo non al processo civile in genere ma alle sue singole tipologie.

In seguito è intervenuta la legge n. 420 del 1998, che ha disciplinato la competenza territoriale per i procedimenti riguardanti i magistrati sia in materia penale (tra l’altro modificando nell’art. 11 cod. proc. pen. i criteri di individuazione della già prevista competenza derogatoria), sia in materia civile (introducendo - con l’art. 9 - nel codice di procedura civile l’art. 30-bis).

Di tale nuova disciplina è stata posta in dubbio la conformità alla Costituzione, ed in particolare è stata proposta questione di legittimità costituzionale del citato art. 30-bis, in quanto norma regolatrice della competenza territoriale nei procedimenti esecutivi promossi da o contro magistrati in servizio nel distretto del giudice competente secondo le regole ordinarie.

Sul punto questa Corte - preso atto che con l’art. 30-bis cod. proc. civ. il legislatore aveva esercitato la propria discrezionalità estendendo la regola dell’art. 11 cod. proc. pen. a tutte le controversie civili riguardanti magistrati di quel distretto - ha ritenuto che la norma, nella parte in cui comporta l’applicazione di tale regola al foro dell’esecuzione forzata, ha leso gli artt. 3 e 24 della Costituzione, non avendo proceduto al necessario bilanciamento tra i due interessi prima ricordati, in relazione alle specifiche particolarità del procedimento esecutivo (sentenza n. 444 del 2002).

5. – Il giudice rimettente si sofferma ad illustrare analiticamente molteplici profili di incostituzionalità della norma impugnata che - irragionevolmente assoggettando ad una medesima regola di competenza tutte, indistintamente, le cause civili in cui sia parte un magistrato in servizio nel distretto del giudice competente secondo i criteri ordinari – comporterebbe a suo avviso rilevanti limitazioni al diritto di difesa, con ripercussioni anche sulla ragionevole durata del processo, tanto se la qualifica di magistrato sia rivestita dalla parte attrice, quanto se essa riguardi invece la parte convenuta.

In realtà che l’indiscriminata estensione a tutte le cause civili del criterio di competenza introdotto dall’art. 11 cod. proc. pen. sia suscettibile di risolversi – con riferimento a singole tipologie di controversie - nel <<sacrificio>> di <<interessi e valori costituzionalmente rilevanti>> è stato puntualmente avvertito da questa Corte, sia prima dell’introduzione dell’art. 30-bis cod. proc. civ., sia dopo di essa (rispettivamente, sentenze n. 51 del 1998 e n. 444 del 2002, prima citate).

6. – Peraltro il giudice rimettente – chiamato a decidere una controversia promossa da un magistrato in servizio nel distretto per ottenere da un suo conduttore il pagamento di canoni di locazione e il rimborso di spese condominiali – chiede a questa Corte non una sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale della norma impugnata nella parte in cui pone una particolare regola di competenza per le controversie in materia locatizia, bensì una pronuncia additiva che restringa radicalmente l’ambito di applicabilità della regola in esame, limitandola alle sole cause civili conseguenti a procedimenti in cui un magistrato, in servizio nel distretto, abbia assunto effettivamente la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata da un reato.

I termini della questione risultano quindi parzialmente coincidenti con quelli prospettati in via subordinata nel caso deciso dalla ricordata sentenza n. 51 del 1998.

E perciò la questione – al di là dell’inconferenza del riferimento all’art. 25 della Costituzione - presenta un profilo di inammissibilità non dissimile da quello da tale sentenza ravvisato.

7. – Infatti - pur in presenza di una norma con gli indicati caratteri – non è compito di questa Corte decidere che la ratio di cui all’art. 11 cod. proc. pen. ricorre unicamente per le cause civili conseguenti a procedimenti penali in cui un magistrato (in servizio nel distretto del giudice competente secondo le regole ordinarie) abbia assunto una delle qualità prima indicate.

Potrebbero esistere altri casi in cui quella ratio ricorra ugualmente: ma la loro identificazione resta riservata al legislatore, nel rispetto della ragionevolezza e degli altri principi costituzionali.

Conseguentemente la questione di legittimità costituzionale - così come è posta - è inammissibile.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30-bis del codice di procedura civile, sollevata dal Tribunale di Torino, in riferimento agli articoli 3, 24 e 25 della Costituzione, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 ottobre 2003.

Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

Franco BILE, Redattore

Depositata in Cancelleria il 7 novembre 2003.